GATTA CENERENTOLA

GATTA CENERENTOLA

La tradizione popolare nella voce della Gatta Cenerentola. Facce dispari. Dal conservatorio alla Nuova Compagnia: Fausta Vetere si racconta. Napoli un po’ingrata, l’amicizia con Pino Daniele e il canto, sempre.

Fausta Vetere è nata sopra la spiaggia di Mergellina, dove la Madonna di Piedigrotta in una notte di tempesta smarrì uno scarpino. La leggenda si fuse con la fiaba di Cenerentola, anzi della “Gatta Cenerentola”, come la intitolò Giambattista Basile e la rimodellò Roberto De Simone tre secoli e mezzo dopo. E Fausta, forse per destino di nascita, fece la Cenerentola sin dalla prima di quell’opera teatrale al Festival di Spoleto nel ’ 76. Anima storica della Nuova Compagnia di canto popolare, è lei l’emble – matica voce femminile della musica tradizionale campana. L’anno stesso della “Gatta” en – trava nella compagnia Corrado Sfogli, giovane virtuoso chitarrista: i due s’innamorarono e assieme avrebbero trascorso 44 anni fino alla morte di Corrado nel 2020. I tre figli di Fausta sono tutti musicisti, due per passione, uno per professione: Marco, già chitarrista del cantante canadese James Labrie, è membro della Pfm dal 2015.

Fausta Vetere, voce e anima della Nuova Compagnia di canto popolare

Fausta, quando le venne voglia di cantare?

Forse già nella pancia di mia madre sentendo cantare lei.

Aveva una voce bellissima che rimase inespressa: a quell’epo – ca la vita castigava un po’ le donne. Affinché ciò non si ripetesse con me, sin da piccola m’invo – gliò a cantare e a non aver paura del pubblico. La mia prima esibizione, chiamiamola così, avvenne un giorno che ci trovavamo in un parco di Milano. A un certo punto i miei non mi videro più, perché ero attorniata da un capannello di adulti a cui cantavo “Guagliona”. Poi fui selezionata per la trasmissione della Rai “Il nostro piccolo mondo” e persi un anno di scuola: dovendo andare in tv ogni giovedì saltavo la lezione di matematica. La professoressa insisté che fossi bocciata. Ma ne valse la pena.

E la scoperta della chitarra?

Una zia pianista, consigliata dall’amica Maria Calace concertista di mandolino, m’indirizzò al maestro Manlio Santanelli, che poi sarebbe diventato un drammaturgo. Quindi proseguii gli studi con il celebre Mario Gangi e mi diplomai in canto al Conservatorio.

Come si avvicinò alla tradizione popolare?

Grazie all’incontro con Roberto De Simone, nacque tutto con lui. Quando cominciai a studiare il patrimonio popolare fu uno choc: educata a essere un soprano belcantista, il canto spontaneo della tradizione mi era del tutto nuovo.

Qual è la differenza?

Nel belcanto c’è la rigorosa concezione della pulizia, nel canto popolare quella dell’emo – tività. Giravamo la Campania per studiare le feste tradizionali, dalla più triste del Venerdì Santo alla più gioiosa delle Lucerne, dedicata alla fertilità e ai raccolti. Scoprii che il canto si fonda sempre su un’esigenza precisa: una grazia ricevuta, il complimento a un uomo o a una donna, l’omaggio a una Madonna, l’inaugurazione di una casa.

Nella formazione della Nuova Compagnia di canto popolare si succedono nel tempo nomi come Carlo D’angiò, Eugenio Bennato, Peppe Barra, Patrizio Trampetti, Corrado Sfogli. L’anno scorso vi è stato assegnato il Premio Tenco. E’ raro che un gruppo musicale viva dopo più di cinquant’anni.

Per Napoli potremmo pure non esistere: resistiamo grazie a grossi sforzi personali, nessuno ci aiuta. Se promuovono una rassegna dove non ci sono i soldi, ci chiamano; se i soldi ci sono invece no. I miei musicisti sono costretti a suonare anche con altri gruppi per tirare avanti, sarebbe impossibile vivere solo dei nostri concerti. Sarà un destino: grandi successi della critica ma mai economici. Fu anche per l’impronta di De Simone. Quando c’invitavano a “Canzonissi – ma” minacciava: “Se ci andate vi lascio”. La musica popolare era una cosa sacra.

Lei non solo ha suonato con Pino Daniele, ma è stata assieme a Corrado tra i suoi migliori amici.

Parlavamo pochissimo di musica, molto delle nostre vite. Era costretto a vivere lontano da Napoli perché in città non sarebbe potuto uscire di casa: era braccato dal successo. Ci chiamava perché andassimo a trovarlo: si sentiva solo. Un giorno mi confidò che una volta, credo fosse il ’ 73 o ’ 74, venne a sentirci nella “Cantata dei pastori” alla Galleria Umberto. Poi sul palco si alternarono a suonare Edoardo Bennato, Tony Esposito… Pino era un ragazzo che s’era portato la chitarra e chiese agli organizzatori se poteva salire anche lui. Lo cacciarono.

Lei ascolta anche i Maneskin o soltanto villanelle?

Nuova compagnia teatro popolare

Il loro non è il mio genere ma la musica la ascolto tutta. Sono stati un fenomeno inatteso, molto bravi ma non eccezionali perché ci sono tanti gruppi rock allo stesso livello che hanno meno fortuna. I Maneskin sono entrati in quel Sanremo al momento giusto e con un tanto di trasgressione che bastava, ma è positivo che riavvicinino i giovani all’ascolto in un’epoca in cui la discografia non esiste più, sostituita da processi di velocissimo consumo.

Non le passa mai la voglia di cantare?

La musica è più di una patologia: farla è una felicità così grande che ti lascia solo quando chiudi gli occhi. E’ parte del presente, del passato e di me. Spero di far emozionare ancora qualcuno e che un giorno i miei nipoti siano fieri di questa nonna, giudicandola superlativa malgrado sia un po’ eccentrica.

Francesco Palmieri per Il Foglio Quotidiano

DOMENICO, ESTETA SELETTIVO

DOMENICO, ESTETA SELETTIVO

Domenico Gnoli

La mia lunga residenza sul Pianeta Terra mi regala continue sorprese. Una di queste, accaduta alla Fondazione Prada di Milano, carezza la forma di una veggenza (ovvero, l’intuizione larga sul nostro presente) attraverso un artista che raccontava quanto di più normale ci fosse nella giornata di una famiglia borghese negli anni Sessanta.

Domenico Gnoli (Roma , 1933 – New York, 1970) era un pittore con uno spiccato feticismo per il dettaglio dentro lo sguardo, artefice quasi algebrico di un close-up metafisico che lo avvicinava ai pezzi facili, ma mai scontati, di una tipica abitazione italiana. L’artista, con modi da biologo cellulare, dipingeva l’identikit poetico dei corpi: uomini e donne, giovani o adulti, osservati con la chirurgica visuale di una lente che ingrandiva al parossismo i dettagli di abiti sartoriali, camicie e colletti, scarpe in cuoio, cravatte, soprabiti, asole e risvolti ma anche pettinature di foggia scolaresca e ben modellata.

La mostra (dal 27 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022) si presenta come una retrospettiva che riunisce più di 100 opere realizzate da Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) dal 1949 al 1969 e altrettanti disegni. Una sezione cronologica e documentaria con materiali storici, fotografie e altre testimonianze contribuisce a ricostruire il percorso biografico e artistico di Gnoli a più di cinquant’anni dalla sua scomparsa. La ricerca alla base del progetto concepito da Germano Celant è stata sviluppata in collaborazione con gli archivi dell’artista a Roma e Maiorca, custodi della storia personale e professionale di Gnoli. “Mi servo sempre di elementi dati e semplici, non voglio aggiungere o sottrarre nulla. Non ho neppure avuto mai voglia di deformare: io isolo e rappresento.” Domenico Gnoli

Poi, come un biologo appassionato di interior design, faceva il detective discreto sui complementi d’arredo: letti, divani, poltrone e tavoli, tovaglie, pavimenti e carte da parati, mantenendo il profilo lenticolare di una retina selettiva e gulliveriana, pronta ad ingrandire la natura domestica, creando l’idea fiabesca di un luogo dominato da oggetti incombenti e virali, come se la mela gigante di Magritte fosse uscita dalla camera per invadere le abitudini ritmiche di una società consumistica.

Durante gli anni Cinquanta il giovane Gnoli frequentò Parigi, Londra e New York, sperimentando la pittura tra contesti diversi, agganciandosi al teatro (costumi, scenografie, locandine, manifesti), giocando con gli esiti grafici dell’illustrazione, inventando storie oniriche e mondi con tracce fantasy. Fino al 1963 le pitture risentivano della cultura informale su cui si stava formando la generazione del Dopoguerra. Negli anni Cinquanta i soggetti erano aridi come deserti, sabbiosi e arcaici come archeologie del presente, giotteschi nella radice, drammaturgici nei colori di una terra che grondava il sangue dei morti. Poi arrivò il 1964, l’anno della Pop Art alla Biennale di Venezia, il momento in cui si stava disegnando un nuovo sguardo sul mondo. In quel frangente, mentre il colore ammorbidiva impasti e trame, le tele prendevano la luce calda degli interni domestici, una patina accogliente e familiare che accendeva l’occhio sulle piccole certezze di una borghesia lavoratrice e ottimista, segnata dalla violenza ma cicatrizzata per far crescere la pelle giovane del futuro.

La sua visione era archetipica e straniante, stella solitaria in un firmamento culturale che tendeva verso l’omologazione di generi e temi. Gnoli inventò la prima forma di un POP BORGHESE che mai si era visto finora.

Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia producevano le ragioni di una Pop Art detonante, proiettata verso la socialità del mondo esterno: le vetrine illuminate e le merci sugli scaffali (Andy Warhol e gli altri a New York), i feticci disintegrati della vita urbana (il Nouveau Réalisme in Francia), il feticismo erotico tra merci, corpi e mass media (Londra con la generazione di Richard Hamilton, Allen Jones, Peter Blake…), fino alla memoria artistica nel ciclo del presente (Roma con Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli…). In questo firmamento di stelle lisergiche spiccava Gnoli con le sue storie da interni familiari, con la sua morbidezza realistica e classicamente silenziosa, contraddizione risolta tra un dipingere nel solco della Storia e un approccio fotografico da outsider laterale.

Domenico Gnoli è vissuto troppo poco ma ha prodotto con un nitore selettivo da maestro di cerimonie estetiche, lasciando un patrimonio che indica molteplici direzioni dell’arte più attuale. Basti pensare al gigantesco serbatoio di opere digitali con tecnologia NFT, un ambito ancora oscillatorio in cui il feticismo ossessivo per i dettagli, sia organici che inorganici, incarna la natura di una generazione geneticamente sintetizzata. Gli autori digitali sembrano il prodotto binario di un genoma culturale che rende Gnoli il più veggente tra i pittori della sua generazione. Un visionario borghese che intuiva gli esiti del consumismo estremo, rifugiandosi nel caldo tepore di una casa accogliente, fuori dal caos militante, oltre le mode istantanee e le ideologie rivoluzionarie, nella morbida protezione di un divano davanti al camino. Possibilmente con un abito sartoriale addosso.

Articolo di Gianluca Marziani per Dagospia

CAFFE’,CAFFE’

CAFFE’,CAFFE’

L’espresso compie 120 anni. Il 19 novembre 1901 fu infatti brevettata dal milanese Luigi Bezzera la macchina «tipo gigante con doppio rubinetto» per fare il caffè istantaneo, secondo un procedimento di percolazione sotto alta pressione di acqua calda che è poi diventato in Italia una icona identitaria.  

In realtà, infatti, era stato il torinese Angelo Moriondo a lanciare per l’Esposizione Universale di Torino del 1884 il procedimento che permetteva di abbreviare i parecchi minuti richiesti dal modo di fare il caffè tradizionale per aspettare che i fondi si depositassero nella tazza. 

Come spiegava un giornale dell’epoca: «è una curiosissima macchina a spostamento con cui si fanno trecento tazze di caffè a vapore in un’ora (proprio a vapore). Si compone in un cilindro o caldaia verticale che contiene 150 litri d’acqua, la quale viene messa a ebollizione da fiammelle di gas sotto il cilindro, e per mezzo del vapore con una complicazione curiosissima di congegni si fanno in pochi minuti dieci tazze di caffè in una sola volta o una sola tazza se volete». 

Il successo era stato grande, tant’ è che gli era valso la medaglia di bronzo della Esposizione. Ma Moriondo non si era preoccupato di brevettare, pago di attrarre clienti nei suoi due locali: l’American bar nella Galleria Nazionale e l’Albergo Ligure nella centrale piazza Carlo Felice. «Venite al Ligure, vi daremo il caffè in un minuto», era lo slogan. 

Fu dunque Bezzera a brevettare «innovazione negli apparecchi per preparare e servire istantaneamente il caffè in bevanda»: la locuzione ammette che qualcosa c’era già ma, appunto, per la legge l’espresso inizia a esistere da questo momento. Ci volle comunque che Desiderio Pavoni nel settembre 1905 compresse il brevetto perché partisse una fabbrica di macchine per espresso nella milanese Via Parini, che si mise subito a venderne al ritmo di una al giorno.

Alfonso Bialetti

E già nel 1905 la macchina di Bezzera fu presentata alla prima Fiera Internazionale di Milano. Questa ripartizione di compiti quasi da stereotipo tra genio commerciale milanese e genio industriale torinese continua con il torinese Teresio Arduino, che dopo aver fatto il militare nel Genio Ferrovieri ha l’idea di rivedere il sistema in base a quel che aveva imparato sulle caldaie delle locomotive. Nasce così nel 1910 la Victoria Arduino, che continuerà a servire espressi agli italiani per mezzo secolo. 

Crema caffè Gaggia

Un modello a colonna spesso impreziosito con decorazioni di elementi floreali in smalti e bronzi che ne farà anche un gioiello di Art Nouveau, déco e razionalista esportato in tutto il mondo. Anche il manifesto pubblicitario disegnato nel 1922 dal grafico livornese e artista futurista Leonetto Cappiello è considerata una delle massime espressioni di grafica del Novecento italiano. 

L’espresso così prodotto ha però l’inconveniente di essere spesso troppo amaro. Finché qualcuno non ha l’idea di sostituire al vapore un pistone, in modo da ottenere un infuso unicamente di polvere di caffè e acqua bollente. Nasce così la crema-caffè, offerta la prima volta nel 1948 con la Gaggia modello Classica da Achille Gaggia e Carlo Ernesto Valente, dopo dieci anni di lavoro su un brevetto che lo stesso Gaggia aveva comprato 10 anni prima. 

Moka Bialetti

Per la cronaca, il suo bar era l’Achille di via Premuda a Milano, e la Classica fu poi battezzata Faema. In realtà prima ancora, nel 1935, un sistema per sostituire il vapore con aria compressa era stato già creato da un soldato ungherese rimasto a Trieste per amore dopo la Grande Guerra, di nome Francesco Illy.

Ma non ebbe successo, anche se in compenso lo ebbe la ditta da lui lasciata ai discendenti. Pure nel 1948 Desiderio Pavoni torna in campo, chiedendo al designer Giò Ponti di fargli una caldaia non più orizzontale ma verticale. Infine, nel 1961 la Faema lancia la E61, che non utilizza più una cisterna, ma preleva l’acqua direttamente dalle tubature. 

Francesco Illy

Inoltre prima di essere attraversata da acqua a alta pressione la polvere di caffè è toccata da un minimo di acqua a bassa pressione, in modo da estrarre le sostanze aromatiche al massimo. Ed è questo l’espresso definitivo, sia pure con macchinari sempre aggiornati. 

Intanto anche il caffè in casa aveva avuto la sua rivoluzione da quando nel 1933 a un fonditore di alluminio era venuta l’idea di fare il caffè col sistema che sua moglie usava per il bucato. Si chiamava Alfonso Bialetti, ma questa è già un’altra storia.

Articolo di Maurizio Stefanini, Libero Quotidiano

LA STORIA DI ENRICA

LA STORIA DI ENRICA

In un ebook dieci donne raccontano in prima persona piccole e grandi rivoluzioni personali verso l’inclusione. Dieci donne che sono riuscite a riscattarsi dalla violenza fisica, verbale e psicologica- Una iniziativa in collaborazione fra Sorgenia e la Grande Casa onlus- Il progetto si avvale inoltre della collaborazione di un team del Dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale della Sapienza Università di Roma- Per ogni giornata dedicata al tema della violenza contro le donne fino a Natale e per ogni downloan del libro, Sorgenia donerà 1 euro alla Fondazione Pangea Onlus. (www.sorgenia.it/sorgenia-con-le-donne-2021)

Fra le dieci storie abbiamo scelta questa di Enrica Scielzo, la prima fashion e beauty blogger transessuale al mondo. Enrica inizia a raccontare la sua storia nel blog The Lookmaker, “un invito alla spensieratezza, alla bellezza, all’essere se stessi”. Da qui il lancio verso una carriera come consulente di immagine e influencer nel campo della moda e della bellezza. “Diario di una Trans” è il suo primo libro, che racconta in maniera intima – e divertente – la sua metamorfosi

Le parole possono fare male. E non guariscono in fretta come i lividi o gli ematomi, ma rimangono lì per sempre. Ritornano a tormentarti la notte, quando non riesci a dormire, o mentre sei imbottigliata nel traffico, o mentre sei in volo per andare in vacanze e guardi distrattamente le nuvole fuori dal finestrino e – bam – ti colpiscono di nuovo, come uno schiaffo un pieno viso.

Mi chiamo Enrica, e sono una ragazza transessuale. Sono nata in una città del Sud Italia alla fine degli anni ’80, quando essere gay era considerata un’onta e non si parlava ancora di identità di genere, figuriamoci di transessualità. Ero un bambino dolce ed effemminato, che amava leggere, disegnare e giocare con le Barbie. E questo ha attirato su di me tanti insulti e cattiverie nel corso della mia vita: per gli altri ero l’outsider, quello diverso, il “ricchione” – quello che preferiva stare con le femmine invece che giocare a calcio come tutti gli altri. I bulli per fortuna non mi hanno mai picchiato, ma le loro parole e le loro risatine facevano più male di un pugno. Perciò uscivo raramente, preferivo chiudermi in casa nel mio mondo, affinché nessuno potesse vedermi. Affinché nessuno potesse ferirmi. Ho capito di essere trans molto tardi, a 28 anni. Prima di allora, non mi ero resa conto di quella che ero realmente. Pensavo di essere un ragazzo gay come tanti altri, a cui piacevano le persone dello stesso sesso. E invece non era così. Non era solo una questione di chi mi piacesse o con chi andassi a letto, era più legato a come mi sentivo: donna. Mi sentivo donna, e volevo esserlo ogni giorno, dalla mattina quando mi svegliavo fino alla sera quando andavo a dormire. Quindi un giorno ho smesso di ascoltare le persone che mi insultavano o mi prendevano in giro, e ho deciso di essere me stessa, di prendere in mano la mia vita e di farne quello che volevo. Ho messo a frutto tutte quelle serate che passavo da sola a casa al PC e ho deciso di aprire un blog in cui potessi parlar della mia storia. Ho cercato di trasformare quel tempo che passavo davanti allo schermo per fare qualcosa di buono, di utile. Volevo ispirare gli altri, infondere speranza, dare una voce a chi non aveva il la forza per difendersi. Ho voluto trasformare quella situazione negativa in qualcosa di positivo, ho cercato di vedere il buono, il lato migliore, come faccio sempre nella vita. Ho fatto della mia debolezza un punto di forza. Ho voluto dimostrare a quei bulli che mi prendevano in giro che ero più forte di loro e delle loro parole. Ho passato tutta la vita a sentirmi sbagliata. A voler riuscire nello stampo di qualcun altro, a voler essere qualcosa di diverso da me; e più ci provavo più ne soffrivo, perché non ci riuscivo. Mi sentivo soffocata, mortificata ogni volta che qualcuno mi guardava.

Finché un giorno ho deciso che ero stanca di dovermi sentire in colpa o di dover chiedere scusa per come ero. E quando ho capito questo, quando ho capito che non era io che non andavo e ho imparato a perdonare me stessa, è stato come respirare per la prima volta. Forse è proprio questo, la mia fragilità a rendermi speciale. E io voglio coltivare questo mio lato, invece di doverlo seppellire. E spero un giorno di trovare qualcuno che mi ami e mi insegni ad amarmi anche per questo, invece di deridermi o di dirmi che dovrei cambiare. Tra tante persone uguali, ce ne vuole qualcuna che osi andare controcorrente. Io sarò quella donna. Quella diversa. L’outsider. D’altronde, i diamanti sono preziosi proprio perché diversi da tutte le altre pietre. Io mi sento fortunata, e a volte me ne dimentico. Dovrei ricordarmelo più spesso. Anzi, dovrei ripetermelo ogni giorno. Ogni mattina, quando mi sveglio, dovrei dirmi: “Sono fortunata”. Ma non fortunata perché ora mi invitano agli eventi, perché piaccio ai ragazzi o perché le aziende mi mandano prodotti gratuiti da provare. Anche per quello, è ovvio, ma mi sento fortunata perché ho lavorato sodo per meritare tutto questo. Perché non è un privilegio, ma un merito. Mi sento fortunata perché ho una famiglia che mi ama, e faccio un lavoro che amo. Mi sento fortunata perché ora mi accetto, perché posso scegliere chi o cosa essere. Mi sento fortunata a poter indossare ciò che voglio, a poter mangiare ogni giorno, a poter aver studiato, e ad avere diritti semplici e basilari che a tante altre persone sono negati. Mi sento fortunata ad essere qui, a non aver ceduto alle critiche, o alle cattiverie, o al dolore. Mi sento fortunata ad essere viva, ad aver resistito, ad essere andata avanti, mentre altri non ce l’hanno fatta, e hanno deciso di farla finita prima. E se sono qui, oggi, a scrivere queste cose, forse è anche per rappresentare tutti quelli che si sentono sbagliati, arrabbiati, infelici, soli, incompresi; tutti gli outsider come me, che hanno un mondo meraviglioso dentro di loro che chiede solo spazio, e tempo, e luce per poter fiorire. Quello che vi invito a fare, se state leggendo queste pagine, è di riconsiderare il modo in cui giudicate le persone. Quando vedete gente felice sui social, pensate a cosa c’è dietro quel sorriso, quante ne stanno passando magari e si sforzano di proiettare un’immagine positiva di sé per andare avanti. Quando vedete qualcuno, invece di ridergli dietro perché ha il culo grosso, il naso aquilino e i denti storti, pensate a quanto ha sofferto e a quanto soffre ancora per questa cosa; chiedetevi voi come vi sentireste se la gente vi prendesse in giro per quelle cose di noi stessi che non ci piacciono, quei piccoli difetti che tutti noi abbiamo e che facciamo fatica ad accettare. Quando vedete una compagna o un’amica che resta a casa il sabato sera, invece di pensare quanto è noiosa, chiedetevi se per caso non si senta sola, e non abbia voglia di parlare un po’, o di un po’ di compagnia per guardare un film in tv invece che al cinema. Le parole hanno conseguenze. Ti pare di sentirne l’eco per anni, forse per sempre. Ricordo ancora quando per strada mi chiamavano “frocio” o “ricchione”, e io andavo avanti a testa alta ma con le lacrime negli occhi. Quante volte avrei voluto finirla lì, la mia vita, per non subire altre umiliazioni. Io ho deciso di non cedere, di essere superiore. Ma non tutti hanno questa forza e tanti, troppi sono vittime di lingue taglienti come spade. La violenza non è solo fisica, la violenza è anche verbale. Le parole possono fare male. Impariamo ad usarle.

IL VAGABONDO DELLE ACQUE

IL VAGABONDO DELLE ACQUE

La casa editrice la Nave di Teseo ripubblica Cronache dell’alluvione di G.A. Cibotto (1925-2017), a 70 anni della tragedia che nel novembre del 1951 sommerse il Polesine- Una nuova edizione, con testi di Gian Antonio Stella, Elisabetta e Vittorio Sgarbi. Su questo sito puoi leggere su di lui in www.ninconanco.it/toni-cibotto/

Toni per gli amici, ha 26 anni quando, il 14 ottobre 1951, lasciata Roma, accorre nel suo Polesine devastato da un’inondazione di proporzioni quasi inimmaginabili. A Roma lavora alla Rizzoli e alla Fiera letteraria di Vincenzo Cardarelli, ed è sulla Fiera che sente il bisogno di pubblicare i primi racconti (Carnet dell’alluvione), scritti di getto, di un’esperienza seminale per il prosieguo della sua vita e della carriera letteraria. A un amico confiderà di essersi sentito «costretto ad amare una terra da cui sognavo unicamente di andarmene».

Gian Antonio Cibotto

È merito dell’amico e grande estimatore Neri Pozza se il Carnet diventa, tre anni dopo, Cronache dell’alluvione, il suo primo libro, accolto come una rivelazione da critici quali Eugenio Montale e Giovanni Comisso. Riletto ora, sembra mantenere il ritmo incalzante dell’azione improrogabile del protagonista impegnato a portare soccorso e conforto ai dispersi prigionieri al piano più alto di case sommerse, altri aggrappati a un muro o a una pianta ghermiti da una fredda corrente impetuosa, poi a procedere avanti per ore sempre chino sul remo che brucia le mani perché rari sono i mezzi a motore. Spesso la pioggia e la nebbia si accompagnano al buio che le torce non riescono a squarciare. Ai gridi e ai lamenti dei cristiani si assommano i versi delle bestie di ogni razza abbandonati nei recinti o ricoverati pure loro al piano più alto delle case nella speranza che arrivi il deflusso, ma già si vedono galleggiare le prime carcasse di animali travolti dai flutti.

Elisabetta Sgarbi

Nel rapporto con gli umani, nel tentativo di indurli alle scelte più ragionevoli, se non alla collaborazione, l’autore deve fare i conti con le diverse caratteristiche antropologiche e sociali che determinano la coscienza di classe quando si tratti di braccianti o contadini o agrari latifondisti, questi ultimi spesso con picchetti armati a difendere innanzi tutto la “roba”. Frutto anche del marasma organizzativo che ha colto tutti impreparati o inadeguati. Ci sono anche pause talvolta, alle osterie aperte che contendono alle parrocchie il richiamo di aggregazione: qui si beve e si bestemmia e ci si scalda, alle pareti sono appesi l’immagine della Madonna o della Sacra Famiglia e la foto di Giacomo Matteotti, il deputato socialista ucciso dai sicari di Mussolini. Toni incontra anche degli amici: i colleghi del «Gazzettino», ai quali si aggrega perché meglio attrezzati; Carlo Levi, che ha già pubblicato Cristo si è fermato a Eboli ed è una celebrità; Giuseppe Marchiori, genius loci, ruolo che in futuro sarà suo.

A Levi presta i suoi stivaloni alti, provvidenziali perché anche in città l’acqua in certi punti è molto alta e, in un punto proibitivo per il “piccolo” Toni, Levi, assai più prestante, se lo issa sulle spalle «come fosse un coolie cinese». Una sera, tornando a casa, si accorge che il postribolo è ancora abitato: «forse l’arrivo della truppa ha richiamato le donne».

La forte presenza ingombrante di militari e forze dell’ordine ispira a qualcuno un forte antimilitarismo, al punto di proclamare, con delizioso, per noi, anacronismo che «se arriva a comandare l’Italia leva la divisa anche alle maschere del cinematografo». Alla cronaca in presa diretta sono intercalate riflessioni ispirate alla saggezza popolare espressa in dialetto attraverso proverbi come «l’acqua xe pezo del fogo» o «a chi nasse desfortunà, ghe piove sul culo stando sentà». Cibotto arriva a ritenere che qui, ma potremmo dire in tutto il Veneto, il pensiero nasce in dialetto e il parlato in italiano ne è la traduzione. Ma è il paesaggio che più ispira le sue pagine di lirico accento, «perché il paesaggio è uno stato d’animo» e il suo vagabondare in lungo e in largo sull’infinita distesa d’acqua gli offre il continuo variare della luce, dei colori e delle forme.

Gian Antonio Stella

Dopo le Cronache Cibotto pubblica altri libri con Vallecchi, Rizzoli, Marsilio con Cesare De Michelis, ancora Neri Pozza con Giuseppe Russo e ora viene riproposta tutta la sua opera da La nave di Teseo. Prima che il silenzio lo cogliesse negli ultimi anni della sua vita, era stato il vulcanico animatore della vita culturale della sua regione: cronista e critico letterario e teatrale al «Gazzettino», direttore del Teatro Goldoni a Venezia, promotore di premi letterari quale Il Campiello, con la collaborazione degli Industriali Veneti, in una formula che sarà poi mutuata dal Premio Comisso e dal Premio Estense, scopritore e sponsor di giovani talenti, come Elisabetta Sgarbi e Giancarlo Marinelli.

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