FUGACE PARABOLA

FUGACE PARABOLA

“…Eppure tornando verso casa forse per l’imbrunire, comparso prima per l’accorciarsi delle giornate e per quello scomparire del sole dietro ai monti in lontananza, mi sono ritrovato in uno stato di soffusa malinconia. Un sentimento di lieve tristezza, una sensazione indefinita come di una perdita, una mancanza. Mi capita ora più spesso, come se la vita avesse incominciato a lasciare i suoi segni, incidendo più profondamente l’animo che reagisce più sommessamente, con meno energia e capacita di recupero. Il passato si fa più gravoso, fitto di rimpianti e di ricordi che inteneriscono; si presenta con più immediatezza l’irreversibilità del tempo che passa e l’inesorabile non ritorno dei momenti del passato…. È uno sconforto sottile che si insinua con delicatezza a caratterizzare le mie ore serali; nulla di drammatico, né di sconvolgente; piuttosto una dolce mestizia che forse serve anch’essa a far maturare nuove prospettive. Un compagno in fondo non invadente né inopportuno, anzi forse rassicurante, delle mie letture prima di addormentarmi.”

“Nel ripercorrere i luoghi della memoria, ti si affollano attorno i morti, la cui schiera diventa ogni anno più numerosa. La maggior parte di coloro coi quali ti sei accompagnato ti hanno abbandonato. Ma tu non puoi cancellarli come se non fossero mai esistiti. Nel momento in cui li richiami alla mente li fai rivivere, almeno per un attimo e non sono morti del tutto, non sono scomparsi completamente nel nulla..”

Norberto Bobbio

Sono due brani: il primo è tratto da facebook, chi scrive è un anziano medico, chiamiamolo Oscar. Vive in provincia, si mantiene attivo, collegato alla sua comunità di destino. L’età porta anche a Oscar il “sottile sconforto” che ha conosciuto nella vecchiaia dei suoi pazienti. I ricordi sono fitti di rimpianti, fra di essi egli intravvede la morte; non per questo smette di cercare nuove prospettive, ultima è sempre la speranza.

Il secondo è tratto da De Senectute di Norberto Bobbio. Non scompariamo mai realmente del tutto, riviviamo nel ricordo di chi abbiamo conosciuto, di chi ci ha apprezzato, voluto bene. Il filosofo, ormai ottuagenario e malato, ha accettato la morte, ma non l’oblio. Potrebbe sembrare un’ultima vanità del pensiero egotico, una forma di surrogata eternità. In fondo a tutto, resiste la speranza che non è vero che “polvere eravamo e polvere ritorneremo”.

Il pensiero, la parola, l’azione una volta detti o fatti già non ci appartengono. Se rimangono e sono ricordati come grandi o esemplari perdono ogni connotato, simili allo splendore diffuso di una luce che viene da chissà quale tempo e non si sa da dove.

Ad alimentare i miti “rassicuranti” della storia e la fugace parabole umana.

ANGELI CUSTODI

ANGELI CUSTODI

Un’amicizia al Cottolengo

“Amerigo Ormea uscì di casa alle cinque e mezzo del mattino. La giornata si annunciava piovosa. Per raggiungere il seggio elettorale dov’era scrutatore, Amerigo seguiva un percorso di vie strette e arcuate, ricoperte ancora di vecchi selciati, lungo muri di case povere, certo fittamente abitate ma prive, in quell’alba domenicale, di qualsiasi segno di vita”.

Si apre così La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, romanzo breve pubblicato nel 1963, che, nelle intenzioni dello scrittore, doveva far parte di un ciclo (“A metà del secolo”) dedicato al “trapasso d’epoca che ancora stiamo vivendo”.

Il seggio elettorale assegnato ad Amerigo Ormea è collocato nel perimetro di quella “città parallela” che è la “Piccola casa della Divina Provvidenza” di Torino, fondata, nel 1832, da san Giuseppe Cottolengo. Le elezioni sono quelle politiche del 7 giugno 1953, che hanno un rilievo particolare nella storia della democrazia italiana. Due mesi prima, dopo una stagione politica rovente e una seduta parlamentare di quasi 78 ore, passa la cosiddetta “legge truffa” (l’espressione è di Piero Calamandrei) fortemente voluta da Alcide De Gasperi in ossequio al principio della chimerica stabilità politica: la coalizione che otterrà il 50% più 1 dei suffragi elettorali farà man bassa dei seggi parlamentari (il 65%).

Quando Arrigo Ormea, lo scrutatore, militante di un partito di sinistra, nella mattina piovosa del 7 giugno 1953, entra al Cottolengo, sa bene la posta in gioco politica di quella tornata elettorale. E sa anche che la “Piccola casa della divina provvidenza” è una consistente riserva di voti della Democrazia Cristiana, che non si fa scrupolo di portare nella cabina elettorale persone incapaci d’intendere: “Fioriva un’aneddotica fra burlesca e pietosa: l’elettore che s’era mangiato la scheda, quello che a trovarsi tra le pareti della cabina con in mano quel pezzo di carta si era creduto alla latrina e aveva fatto i suoi bisogni o la fila dei deficienti più capaci d’apprendere, che entravano ripetendo in coro il numero della lista e il nome del candidato”.

Ma i sentimenti e le immagini accumulate da Amerigo Ormea nel tempo breve della sua permanenza al Cottolengo, non restano chiusi nel cerchio dell’aneddotica. Osserva con attenzione quell’“Italia nascosta”. Farà fatica a smaltire la forza d’urto delle prime impressioni. Negli squallidi spazi dell’“enorme ospizio”, cominciano a cedere le convinzioni che, fino a quel momento, fino a quella mattina, lo hanno orientato. Domande e dubbi lo prendono d’assedio. Arriverà alla fine della giornata “diverso da com’era al mattino”. 

Non è che Ormea-Calvino procedesse lungo una ferma linea dottrinaria. Appare piuttosto ondeggiante. Guarda le cose da più lati. Ma quello che vede e sente nella “città dell’imperfezione”, dove la vita mostra il suo volto guasto, lo sfascio delle sue cancrene, scuote le poche certezze acquisite. Dov’è qui l’uomo? E dov’è la Storia, dove la Natura? Che cosa è amore, e cosa è pietà? 

Nel 1953, quando lo scrutatore Amerigo Ormea si perde nel groviglio delle sue domande, Roberto Tarditi è ospite del Cottolengo da 8 anni. Vivrà lì altri 27. È affetto da tetraparesi spastica, probabilmente in seguito a un trauma da parto. La madre, nubile, lo rifiuta. Non c’è che il Cottolengo. Roberto entra a far parte della “famiglia” degli Angeli Custodi, insieme agli “epilettici, i mongoloidi, molti microcefali, i macrocefali – che vivevano al massimo due mesi – gli idrocefali”. 

Ogni bambino è un mondo, è un’isola. “Qualcuno dondola su e giù, su e giù, un movimento ritmico sempre uguale. Il dondolio tipico dei bambini abbandonati”. Un movimento senza esito, un movimento fermo. Dondolerà Roberto, affondando nel suo abbandono. Poi, aiutato, riuscirà a spezzare le cadenze di quel ritmo ossessivo che lo tiene prigioniero. A sette anni comincerà a pronunciare le prime parole. Dopo tanto silenzio, saprà fare un buon uso delle parole, se ne servirà per dire la sua volontà di vita e affermare i suoi diritti”. “Quando parlava – ricorda Maurizio Crosetti- si contorceva tutto, ma le sue frasi avevano la lucentezza del cristallo”.

Lo attende una lunga strada, anni, per bucare il muro del “nulla” in cui è cresciuto. Ma, a poco a poco, il muro si crepa, e Roberto arriva a mettere insieme i pezzi di una convinzione: “Ero spastico, ma per il resto ero uno come tutti gli altri”.

Non è poi così facile diventare “uno come tutti gli altri”. La normalità è una strada in salita. Partendo dal Cottolengo, ci si può arrivare soltanto con un enorme sforzo, una tensione più forte degli spasmi che tagliano il corpo di Roberto. Reggerà a quella tensione? L’amicizia aiuta. Conforta, sorregge. Anche nella desolazione del grande istituto, le esistenze si toccano, gli sguardi s’incrociano, fioriscono legami: Roberto incontra Pierino. 

Pierino Defilippi è più giovane di 12 anni. Focomelico, senza braccia né gambe, vivrà al Cottolengo per 24 anni. Insieme, Pierino e Roberto, sognano, progettano una vita autonoma. E lottano non solo contro l’Istituzione che, proteggendoli, li imprigiona, ma lottano contro la paura, e la vergogna di esporre la propria vita menomata. L’autonomia è una chimera, tutto sembra scoraggiarli. La realtà appare troppo complicata da gestire, e l’inerzia del pregiudizio è ben radicata. 

“Ho dovuto prima di tutto lottare con me stesso – racconta Pierino –, per liberarmi dei condizionamenti di tutti quegli anni in cui non era esistita un’altra realtà, un altro discorso se non quello che si viveva o si faceva all’interno del Cottolengo. All’interno del Cottolengo non avevo mai lottato, perché non c’era nulla per cui combattere. Per me è stato come uscire da un lungo tunnel”.

Usciranno dal tunnel, Pierino e Roberto. Insieme varcheranno la porta del Cottolengo, portandosi appresso tutte le loro paure, ma anche il loro desiderio d’essere. Avranno una casa. Sarà complicato e faticoso riempirla e gestirla quotidianamente. Per le prime volte, sarà complicato persino uscire e mostrarsi. La paura li tallona costantemente. Ma la vinceranno. 

Articolo di Maurizio Ciampa per Doppiozero

LA FOTO CHE VERRA’

LA FOTO CHE VERRA’

FOTOGRAFARE E’ NIENTE, DIFFICILE E’ VEDERE. FULVIO ROITER RACCONTATO DALLA MOGLIE LUO EMBO.

“Mi disse: vieni in Italia, stamperai le mie foto. Se ti ambienti, ti sposo- Nei quattro anni di malattia, ogni giorno apriva l’armadio, afferrava una delle sue 15 Leica e la appoggiava all’orecchio per udire quel clic. Io piangevo”.

A farli conoscere fu l’amico Jean-Michel Folon, l’illustratore belga degli eterei acquerelli per le copertine del New Yorker e per le pubblicità dell’Eni. «Ho conosciuto ad Anversa una ragazza bellissima. Credo sia fidanzata, ma non ha importanza: ama Fulvio Roiter. Questo è il suo indirizzo», recitava la lettera. Il suo nome era Susanne Seuntjens, detta Suzy. In quel periodo il ritrattista ufficiale di Venezia stava lavorando a un libro su Bruges. Si precipitò a incontrarla. «Stupenda, sembrava l’attrice Leslie Caron», mi raccontò 20 anni fa il grande fotografo, ancora rapito da quel primo incontro. Dopo avergli servito il tè, la fanciulla gli disse: «Vieni, ti presento mia sorella». Salirono verso un granaio trasformato in camera oscura.

Fulvio Roiter

Appese lungo le pareti, foto che Roiter scambiò per le proprie, tanto erano suggestive. Si spalancò la porta: «In cima alle scale, due gambe che non finivano più: Loulou! Un arcangelo. Suzy non mi ha mai perdonato di averle preferito sua sorella. Fra loro è una guerra che dura ancor oggi».

Ride Lou Embo, la proprietaria di quegli arti inferiori affusolati: «Ricordo che lo presi in giro: ma stai guardando le mie foto o le mie gambe? Tutte le vichinghe le hanno lunghe. Semmai avrebbe dovuto farmi un complimento per gli occhi azzurri». Il suo Fulvio compirebbe 95 anni il 1° novembre, «invece è già un lustro che mi ha lasciata», sospira. «Però…». Però? «Lui è ancora qui», e accarezza l’urna smaltata di un blu marezzato che ne custodisce le ceneri nel salotto di casa, al Lido di Venezia, circondata da quattro vassoi in cui sono disposti con amorevole simmetria sassi levigati dal mare e conchiglie perfette. Ha scelto di adottare il cognome della madre, «più corto, più facile da pronunciare», derivato da un villaggio delle Highlands dove i suoi antenati vichinghi combatterono contro gli scozzesi nel 1245. Ma nel mondo è conosciuta come Lou Embo Roiter, l’altra metà di Fulvio, sempre un passo indietro, devota, mai un’intervista.

Eppure è una fotografa anche lei.

«E pure Suzy. Ha due anni più di me. Nostra madre sopportò le doglie fino all’una del 2 aprile 1936 per non farla nascere nel giorno del “pesce”. Abita a Bruxelles. Ci telefoniamo tutti i giorni».

Da chi imparò questo mestiere?

«Da Cor van Weele, celebre fotografo di Amsterdam. Finito il liceo classico, mi prese a bottega come apprendista. Ogni tre mesi accoglieva quattro allievi. A me chiese di restare per un anno. Subito dopo cominciai con i reportage per il settimanale belga Le Moustique».

Suo marito mi spiegò che le rare foto di René Magritte furono scattate da lei.

«Vero. Mi aspettavo d’incontrare un pittore, invece pareva un impiegato. Immortalai anche altri artisti famosi: Paul Delvaux, Félix Labisse, Oscar Jespers. Un mio ritratto di Delvaux, impresso su ottone, orna la facciata della sua casa di Bruxelles trasformata in museo».

Quando diventò la moglie di Roiter?

«Nel 1960. La sua proposta fu semplice: “Vieni in Italia a stampare le mie foto. Se ti trovi bene, ti sposo”. Arrivai con il biglietto di ritorno già in tasca. Invece sono rimasta con lui per 57 anni. Credevo che mi portasse a Venezia. Mi ritrovai in campagna, a Meolo, nella sua casa natale, governata dalla madre, una cara vecchietta, di un’affabilità tutta veneta».

Che cosa la convinse a rimanere?

«Aveva 12 anni più di me. Era un uomo. Lui molto forte, io molto timida. La fotografia ci ha unito. È come se fosse ancora qui, accanto a me. Vivo con Fulvio, circondata da oltre 3 milioni di foto e diapositive sue. Vado a spanne: non amava i numeri. Non ha mai contato neppure i libri che ha pubblicato, forse 100. L’ieri non gl’interessava, importava solo ciò che avrebbe fatto domani. Che pena i suoi ultimi quattro anni chiuso in casa! Un tumore e i postumi di un incidente non gli hanno più permesso di uscire. Fotografava il mare dalle finestre. Alla fine era arrivato a pesare 46 chili».

Quando arrivaste in questa casa?

«Nel 1983. Era un ex convalescenziario della guerra del ’15-’18: portavano qui al Lido i soldati feriti sul Piave. Ma il nostro primo alloggio a Venezia fu al pianterreno della Ca’ d’oro. Nel cortiletto avevamo un pozzo, attorno al quale danzavano i topi. Le pantegane parlano, tengono conferenze, avrebbe dovuto vederle. Io, incinta, ero terrorizzata. Ci trasferimmo in fondo alla Strada Nova, al quarto piano. Il ginecologo sentenziò: “Con una bimba in pancia e una per mano non può fare 90 gradini”. Qui sono 62. Con le mie figlie ho sempre parlato francese. “Maman, quand sortiras-tu de cette chambre noire?”, piagnucolavano. Ero sempre in camera oscura. Mi piaceva».

Un amico mi ha raccontato che una volta, a mezzogiorno, vide sulla vostra tavola soltanto pane e mortadella.

«Oh, sì. Mio padre era un noto otorinolaringoiatra, avevamo la West wind, una barca di 11 metri ormeggiata in Costa Azzurra, con il marinaio. Da benestante mi ritrovai catastrofata, si dice così? Siamo stati poveri finché non arrivarono i proventi di Essere Venezia, il capolavoro assoluto di mio marito, 700.000 copie».

Incasserà ancora i diritti?

«Quali diritti! È esaurito da decenni. Vivo solo della pensione di Fulvio, meno di 1.000 euro al mese. Lui non voleva saperne degli editori. Un burocrate della Mondadori si rifiutò di stampare Essere Venezia nel formato orizzontale che Fulvio aveva in mente e così il libro fu affidato a un tipografo di Maniago del Friuli, senza neppure firmare un contratto».

In compenso avete girato il mondo.

«Mezzo milione di chilometri in Vespa. Venezia-Lisbona in otto giorni. Sul portapacchi s’era fatto costruire un baule per riporvi macchine fotografiche, obiettivi, cavalletto. Gli chiesi: e la mia roba? Risposta: “Porta lo spazzolino da denti”. La sera in albergo lavavo maglie e biancheria che avremmo rindossato il giorno dopo. A Lisbona volle portarmi a cena in un famoso ristorante. Si fece prestare una giacca. E come cravatta usò la cintura di cuoio sfilata dal mio abitino».

A che età si appassionò a Roiter?

«A 17 anni, quando mi fu regalata la mia prima macchina, una Rolleicord, sottomarca della Rolleiflex. Io non sono credente, ma il suo Terra di San Francesco, pubblicato prima in francese che in italiano dalla Guilde du Livre di Losanna, era la mia Bibbia. Poi Fulvio mi donò una Leica M4. La uso ancora. Lo sfidai: ti dimostrerò che con una sola macchina e tre obiettivi, 35, 50 e 90 millimetri, posso fare un libro. Stromboli, il mio primo titolo, nacque così. Lui volle portare di persona alla Kodak di Losanna le pellicole. Appena sviluppate, telefonò: “Loulou, sono foto fantastiche”. Mi rese così felice! Non era tipo da facili complimenti».

Suo marito mi confessò: «Lo scatto, lo scatto della Leica… Non è un rumore: è una musica. Avrei ucciso un tedesco per portargli via la Leica».

«Nei quattro anni di malattia, ogni giorno apriva l’armadio, afferrava una delle sue 15 Leica e la appoggiava all’orecchio per udire quel clic. Io piangevo».

Com’è cambiato il suo modo di fotografare con il passare del tempo?

«Non è cambiato. L’occhio rimane quello. Riprendo ciò che interessa a me. Per l’ultima Mostra del cinema, che si svolge qui davanti, ho scattato solo questa». (Mi mostra la foto: l’ombra di un pino marittimo su un muro color vermiglio, un ombrellone chiuso, due transenne bianche leggermente discostate).

C’è un modo di fotografare femminile?

«Sì, dall’immagine capisci il sesso di chi l’ha scattata. Per me, almeno, è sempre stato così. A Fulvio piaceva la ribalta, io preferivo restare invisibile. Dove passava lui, faceva strage, non restava più nulla da cogliere, ritraeva tutto. Tranne i bambini. A me piacciono perché non cambiano espressione mentre li fotografi. Il mio libro Children è nato dagli scarti visivi di mio marito».

Faceva strage anche di cuori. Dicono che fosse sensibile al fascino femminile.

«Ah, sì! Tutto il bello era suo».

Pensa che l’abbia tradita spesso?

«È ovvio. Quale marito non tradisce sua moglie? Era totalmente libero».

Mentre lei gli è rimasta fedele?

«Ma che cosa mi fa dire? Quando telefonava dagli alberghi in giro per il mondo, non m’interessava sapere se accanto a lui in camera ci fosse qualcuna. Bastava che tornasse a casa. Ero libera anch’io. Ma fra noi c’era un limite invalicabile: la famiglia. È sacra, la famiglia».

A che età si smette di fotografare?

«Mai. È la mia salvezza. E dopo ogni scatto penso: piacerebbe a Fulvio? Lui ripeteva sempre: “Fotografare è niente. Il difficile è vedere”. Dopo 50 anni di sacerdozio dietro l’obiettivo, non sapeva dirti se la fotografia fosse arte o no. Come scrisse Indro Montanelli all’uscita di Venezia viva, mio marito possedeva una mostruosa, animalesca facoltà di concentrare tutte le forze intellettive nell’occhio. Era questo a fare di lui uno dei maestri della fotografia mondiale. Magari non capiva, ma aveva visto tutto».

Che mi dice di Instagram?

«Non so che cosa sia».

Quale aspetto di Venezia ama di più?

«I dettagli architettonici nelle facciate dei palazzi risalenti alla Serenissima. Fulvio invece adorava campo San Tomà. Diceva: “Lì è come stare nel Settecento”».

Che cosa non le piace della città?

«I turisti. E i negozi gestiti dai cinesi».

Quale veneziano ha meglio interpretato la storia millenaria di questa civiltà?

«Tomaso Albinoni. La prima volta che Roiter entrò nella nostra casa di Anversa, gli cadde l’occhio sulla copertina verde di un disco. Raffigurava una regata storica sul Canal Grande, con il titolo “Tomaso Albinoni, dilettante veneto”. Credo d’averlo conquistato così, l’uomo della mia vita: con l’Adagio.

Articolo di Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera

LO SPORT SECONDO MARTIN PARR

LO SPORT SECONDO MARTIN PARR

Il Centro Italiano per la fotografia ospita Martin Parr. We ❤ Sports, personale di un mito della fotografia contemporanea, organizzata con il Gruppo Lavazza, CAMERA e Magnum Photos, in occasione delle Nitto ATP Finals. La mostra è aperta dal 28 ottobre 2021 al 13 febbraio 2022.

La sede di CAMERA a Torino

Nel 1986, Martin Parr espone The Last Resort alla Serpentine Gallery e pubblica un libro che ritrae la classe operaia mentre gioca nella degradata città balneare di New Brighton, nel Merseyside. È una mostra che colpisce e lascia il segno. C’è un elemento di controversia nelle sue foto, che resterà nel tempo anche nei lavori successivi. Successivamente rivolge la sua macchina fotografica anche verso la classe media (The Cost of Living, 1989) e più recentemente all’establishment (Oxbridge, scuole pubbliche, Old Bailey ecc.). Agli esordi della sua ricerca lavora in bianco e nero, ma a metà degli anni Ottanta, appena prima di The Last Resort, passa al colore, con traduzioni formali e declinazioni molto vibranti, dopo aver visto le mostre americane di Stephen Shore e William Eggleston due fotografi presi tanto sul serio da essere invitati in quegli anni a esporre in musei pubblici e del fotografo britannico Peter Mitchell. Parr esplora l’identità britannica, in ogni accezione, nel bene e nel male. Sonda le sue forme di svago con ironia e un coinvolgimento empatico. Gli altri suoi soggetti prediletti sono il cibo (lo ha reso protagonista nelle sue immagini prima di tutti gli altri, prima dell’arrivo dello smartphone) e l’effimero.

Martin Parr, Aintree racecourse the grand national Liverpool, England, 2018.

Martin Parr ha opere in molte collezioni importanti, tra cui la Tate, il Museum of Modern Art di New York e il Centro Pompidou di Parigi. Ha diretto la leggendaria Cooperativa fotografica Magnum dal 2013 al 2017. Ha partecipato a più di 100 mostre in tutto il mondo e ha pubblicato più di cento libri del suo lavoro. Nel 2017 ha aperto la fondazione Martin Parr a Bristol, sostenendo ed esponendo il lavoro di fotografi che, come lui, concentrano i loro obiettivi sulla Gran Bretagna. 

Ora vive ancora in Inghilterra, e continua a realizzare fotografie nel posto che conosce meglio e che può esplorare più facilmente, per approfondire sempre più un popolo molto eccentrico, pieno di contraddizioni: “Ho un rapporto di amoreodio con la mia nazione ed è quasi come se fotografarla fosse una forma di terapia – io che definisco cosa sta succedendo, la mia posizione, esprimendo le contraddizioni e l’ambiguità che vedo intorno a me. […] Sono un classico soft left. C’è un elemento di politica nelle mie foto, se lo si vuole trovare. E non è una sorpresa – penso che tutti i fotografi documentaristi, i fotogiornalisti in genere vengono da sinistra. Devi farlo, per essere interessato alle persone”.

Martin Parr, The Perry Family, Grayson Philippa and daughter Florence, 2012, Magnum Photos Rocket Gallery.

Cresciuto alla periferia del Surrey, da famiglia della classe media britannica, Parr è stato un collezionista fin dall’infanzia. Dagli 8 ai 12 anni aveva allestito un museo di storia naturale in cantina. Collezionava palline di uccelli rigurgitate dai rapaci. Oggi invece colleziona libri fotografici. Dopo che la sua collezione principale di libri fotografici è andata alla Tate, ha ricomprato tutti i titoli che aveva raccolto precedentemente. Secondo l’artista britannico anche la fotografia è un atto di collezionismo. Il retaggio collezionistico ha portato Parr a considerare anche le immagini come souvenir. 

Martin Parr, Bristol England, 1995-99.

I ricordi e la maggior parte delle immagini, ormai, sono alcuni dei prodotti del turismo di massa, perché è lì che si trova la nuova ricchezza, quella dei soldi extra che possono essere spesi in vacanza. Dentro i viaggi, i fenomeni del turismo di massa, le manifestazioni sportive, Parr rappresenta la realtà nella sua schietta apparenza, mostra le cose e le persone così come sono, senza mascherare i lati deboli o ridicoli. Per lui il reale è nella maggior parte dei casi molto più coinvolgente di ogni seducente finzione.

Martin Parr, Georgia, USA, Magnum Photos Rocket Gallery.

Eppure vuole comprendere la contraddizione che sta tra la mitizzazione di alcune porzioni del mondo e la realtà. Sente una responsabilità documentaria e combatte la propaganda, da cui siamo circondati, costantemente, su tutti i fronti, che si tratti di cibo, moda, viaggi, vita familiare o altro. L’idea delle riviste di viaggio è quella di vendere vacanze, quindi in esse tutto è bello e perfetto. Non mostreranno mai una scena in cui la gente viene assalita o dove un luogo pittoresco è preso d’assalto dalla massa, perché vogliono vendere sogni. Così pure fanno molte riviste e giornali asserviti ai poteri. Il suo lavoro è quello di mostrare il mondo come lo trova mentre gira per le strade, che ovviamente è molto diverso da quello della propaganda. Fa fotografie serie mascherate da intrattenimento.

Martin Parr, Death by selfie super labo, 2019.

Le sue fotografie sono abbastanza stravaganti, con colori brillanti, che però stanno bene anche sulle pagine dei rotocalchi. Al contempo ci sono altre cose che accadono se si sceglie di guardare con occhi più attenti: dentro le fotografie apparentemente divertenti c’è un messaggio più serio, se si vuole scavare e trovarlo. Parr ci conduce dentro l’apparente superficialità banale del quotidiano, dentro una società sempre più consumista e globalizzata, là dove cerca di evidenziare con divertita ironia qualcosa che appartiene alla dimensione delle questioni universali. In occasione della mostra presso CAMERA –Centro Italiano per la Fotografia, abbiamo chiesto all’autore britannico di parlarci di alcuni temi e delle immagini che sono diventate icone del nostro tempo. 

Martin Parr, Japan versus South Korea dynasty cup, Yokohama Stadium, Japan, 1998.

Di seguito una breve intervista a Parr in occasione della mostra di Camera.

Come trasmetti il tuo personale umorismo attraverso la traduzione fotografica della vita di tutti i giorni? Come fai agire la tua ironia nel gesto fotografico?

Martin Parr: La vita quotidiana è sempre divertente, solo che normalmente non ce ne accorgiamo, perché è tutta intorno a noi.

Come trasformi il banale in qualcosa di originale e interessante?

Concentrandomi su un piccolo aspetto della vita moderna, spero che lo spettatore noti la stessa cosa che ho notato io.

Martin Parr, July horse races durban, South Africa, 2005.

In modo estremamente onesto affermi di essere un turista tra i turisti e un consumatore in una società di consumo. Come cerchi di mettere a nudo l’ipocrisia della società odierna? Come olii i meccanismi che sono alla base del tuo modo di vivere la fotografia?

Io stesso credo nell’ipocrisia. Faccio tutte le cose che critico nel mio lavoro. Il mio grande progetto è ciò che le classi medie ricche fanno nel loro tempo libero, e questo include me.

Siamo interessati ad approfondire alcuni aspetti formali del tuo lavoro: i colori saturi delle immagini, la grana grezza della pellicola. 

Metà delle foto della mostra a Camera sono in digitale, l’altra metà in analogico. Se scatti in negativo a colori con il flash, ottieni questi colori molto saturi, quindi questa è diventata la mia tavolozza, e l’ho estesa alla mia tavolozza digitale. Sono attratto dai colori brillanti. Uso il flash anche alla luce del giorno. Mantiene i colori più intensi, cosa che mi piace.

Martin Parr, Kleine Scheidegg, Switzerland, 1994.

Quanto è importante l’uso del flash anulare nel catturare un aspetto della tua ricerca?

Il flash non ti dà immagini emotive, apre tutto, quindi è perfetto per un punto di vista forense, che mi si addice molto.

Il tuo sguardo sociale è allo stesso tempo ironico ed empatico. Ci fai entrare nelle pieghe più sottili della tua ironia?

Spesso una buona immagine si basa su un’ambiguità o una contraddizione, quindi le cerco perché aiutano davvero a dare alla foto una reale pregnanza.

Martin Parr, Us open, New York, USA, 2017.

Come riesci a non lasciare che i tuoi critici ti chiudano in una categoria, in una definizione o in una ricerca unidirezionale? Come cerchi di uscire da ogni categorizzazione del tuo stile?

Ho molti critici, ma anche molte persone che sostengono il mio lavoro. È sempre strano per me che il mio lavoro sia così controverso, dato che è tutto preso a livello locale, e non argomenti difficili, come guerre o carestie. 

Martin Parr, Dame vivienne westwood, 2012, Magnum Photos Rocket Gallery.

Dalle polemiche sollevate dalle tue fotografie all’interno della società britannica negli anni ’80 fino ad oggi, il tuo sguardo è stato testimone di molti passaggi all’interno della progressione del tempo storico, dove hanno preso forma vari processi di globalizzazione. Quale futuro immagini per le nuove generazioni? 

Le priorità sono sempre mutevoli. Vent’anni fa nessuno parlava veramente del cambiamento climatico e ora è l’argomento numero uno. Penso che l’attenzione a questa causa sarà il grande punto all’ordine del giorno negli anni a venire.

Martin Parr, Roland Garros, Paris, France, 2016.

Che valore dai al senso del kitsch (in chiave creativa)? 

Il kitsch è tutto intorno a noi, solo che la maggior parte delle persone pensa di avere buon gusto e che tutti gli altri siano kitsch. È un’ipocrisia che amo!

Nella tua mostra a CAMERA ci sono anche immagini che documentano vari atteggiamenti di persone immerse nella vita da spiaggia, dove si passa dall’esercizio di vari hobby alle manifestazioni di pigrizia di chi ama riposarsi dopo mesi di lavoro. Come si declina questa serie?

Ho sempre sostenuto che definiamo chi siamo da ciò che facciamo nel nostro tempo libero. Il mio grande progetto di vita è il tempo libero del mondo occidentale, e il tennis e lo sport si aggiungono a questo.

Martin Parr, Sligo races, Ireland, 1981.

In uno dei tuoi primi volumi, A Fair Day (1984), il tuo sguardo si posa sugli atteggiamenti delle persone intente a osservare e praticare le più disparate discipline sportive. Su cosa si basa la tua visione compositiva, capace di coniugare l’analisi dei costumi sociali con una forte attenzione alla resa formale dei gesti e dei movimenti?

Sono sempre alla ricerca di ogni strano accostamento, e in Irlanda sono frequenti.

Lo sport è un tema ricorrente nella tua lunga carriera artistica. Cosa rappresenta per te questa sorta di rituale collettivo e come lo porti nelle tue fotografie?

Mi è sempre piaciuto fotografare lo sport, soprattutto per le folle, grandi e piccole, e per come si dispongono.   

Martin Parr, Us open, New York, USA, 2016.

Le tue immagini dedicate a qualcosa di apparentemente marginale hanno sempre catturato la nostra attenzione, per esempio la serie dedicata ai Supporters, dove lo sport viene raccontato attraverso gadget kitsch, travestimenti grotteschi di mascotte e altri fattori o presenze secondarie. Puoi parlarci di questa tua caratteristica ironica?

Raramente fotografo lo sport in sé. Sono i tifosi che mi interessano, le cose che portano e la loro dedizione ai loro eroi, come Roger Federer.

Cosa hai colto nell’ambiente delle corse dei cavalli, un gioco particolarmente amato dagli inglesi, al quale hai dedicato molte riprese fotografiche?

Tra tutti gli sport l’ippica è il mio preferito, soprattutto perché tutti si vestono bene, gli uomini con i loro abiti e le donne con eleganti cappelli. Questo è sempre un buon punto di partenza per fare delle foto.

Martin Parr, Us open, New York, USA, 2017.

Come hai curato le immagini del volume Match Point pubblicato da Phaidon e composto da oltre 80 fotografie dedicate al mondo del tennis?

Stampo sempre la short list di circa 200 immagini su carta da 20/30 e poi la passo attentamente in rassegna e finisco con un’altra short list di poco più di 100 immagini. Da quel momento in poi, lavoro con l’editore, cercando di capire quali immagini vanno insieme e la loro sequenza, fino ad arrivare a circa 80 immagini.

Martin Parr, Us open, New York, USA, 2017.

Dopo molti anni di lavoro con lo sguardo e di studio delle persone  hai pubblicato circa 70 libri fotografici  dove dirigerai la tua ricerca e il tuo interesse? Cosa ti piace osservare ora, alla luce di tutto quello che hai osservato fino ad oggi?

Ci sono sempre più foto da fare, ci sono voluti circa 50 anni per accumulare circa 100 buone foto, quindi se ne fai più di 2 all’anno, stai facendo molto bene.

Siamo molto interessati a esplorare le analogie tra le varie forme di osservazione della realtà. In molte delle tue serie osservi (e catturi con la tua macchina fotografica) qualcuno che sta osservando qualcos’altro. Riprendi da dietro qualcuno che sta osservando un evento o un fatto casuale della sua esistenza in un certo momento della giornata. Cosa risiede in questo osservare le azioni di una persona che in quel determinato momento è uno spettatore?

Bisogna cercare di trovare una foto che abbia una torsione o un piolo, quindi spesso si vedrà la nuca e quello che stanno guardando sarà anche lì. Fare questo tipo di connessioni è importante perché rende le foto vive.

Martin Parr, Portrait of Martin Parr at us open Louis Little, New York, USA, 2017.

Intervista a cura di Sara Benaglia, Mauro Zanchi

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