LA MALATTIA DI JOSEF

LA MALATTIA DI JOSEF

E se “Il Processo” di Kafka altro non fosse che il decorso di una malattia?

L’opera di Kafka, è noto, sollecita e frustra innumerevoli interpretazioni. La sua lingua meticolosa e impassibile è una parete liscia su cui gli strumenti analitici ( psicanalisi, teologia, marxismo) scivolano senza fare presa. Schiacciando su uno stesso piano i più vari livelli della realtà, lo scrittore induce gli studiosi a riarticolarli, e a tradire così l’enigma concreto della sua poesia. Non pretendo quindi di tentare in poche righe l’ennesima interpretazione ( del resto nella critica kafkiana si trova già tutto, come nella biblioteca di Borges), e meno che mai di ridurre quell’opera a una piatta allegoria, o a una lunga similitudine in cui ogni figura sta per un’altra. Vorrei semplicemente offrire il resoconto di una mia rilettura del “Processo”, condizionata forse dall’atmosfera pandemica e da una personale vicenda di paziente. Più mi inoltravo nella storia di Josef K., più mi sembrava di trovarmi davanti al decorso di una malattia. Dopo un risveglio sgradevole, in cui le cose non sono come dovrebbero essere, K. si scopre in arresto. Ma è uno strano arresto.

Comunicata la notizia, le guardie si congedano convinte che il funzionario “vorrà certo andare in banca”. “Come posso andare in banca, se sono in arresto?” ribatte K. stupito. “La cosa non deve impedirle di svolgere la sua professione”, spiega un ispettore, né di mantenere “le sue abitudini”. Non è così che vengono comunicate certe diagnosi? Continui pure la sua vita come prima, finché è possibile… Le udienze somiglieranno allora a controlli periodici: un interrogatorio si può anche evitare, ma nel caso è l’interrogato a perdere l’opportunità di una “visita”. Il cappellano che darà a K. una sorta di estrema unzione oratoria ribadirà che “il tribunale non vuole niente da te. Esso ti accoglie quando vieni e ti lascia andare quando vai”. Il processo non avanza attivamente: semmai si moltiplicano i sintomi di una patologia strisciante, fino al momento imprevedibile in cui, chissà da dove, arriva la sentenza di morte. Negli uffici del tribunale, soffocanti e promiscui come corridoi d’ospedale, la gente aspetta che si ammettano “alcune prove nella sua causa” come aspetterebbe di poter mostrare i referti degli esami. Quando lì dentro K. si sente male vogliono portarlo in infermeria: “il suo corpo voleva forse ribellarsi e preparargli un nuovo processo (…)? Non respinse del tutto il pensiero di andare, alla prima occasione, da un medico”. Un ruolo fondamentale hanno in Kafka i letti, luoghi nei quali la vita pubblica e la vita intima si mischiano proprio come in ospedale: quello del pittore Titorelli, pigiato contro la porta, e quello da cui parla l’avvocato Huld ( gli avvocati sono dei medici- pazienti). Titorelli, che partecipa ai riti ufficiali dell’amministrazione ma conosce le vie ufficiose, sembra una specie di medico “alternativo”. E’ lui a spiegare a K. che “ci sono tre possibilità, cioè l’assoluzione reale, l’assoluzione apparente e la procrastinazione”, e anche che “tutto fa parte del tribunale”. La malattia coincide con la vita: si può al massimo cronicizzare, tenendo il processo “nel suo stadio più basso” e andando “dal giudice competente a intervalli regolari” ( i check- up, appunto). Quanto alla guarigione, è una leggenda. Perciò “un solo boia potrebbe sostituire l’intero tribunale” – ovvero, nella mia lettura “malata”, l’intero reparto dei medici specialisti, con le loro prescrizioni afflittive e contraddittorie e il loro gergo esoterico.

A queste prescrizioni ci si sottopone finché “arrivano momenti di sconforto (…) in cui sembra che abbiano avuto una conclusione felice solo quei processi fino dal principio destinati a un esito felice, come sarebbe avvenuto anche senza aiuti, mentre sono andati persi tutti gli altri, nonostante ogni assistenza”. K. cerca di sfuggire allo sconforto chiedendo aiuto a Leni, la domestica dell’avvocato simile a una “piccola infermiera”. Anche i due uomini che lo portano a braccetto sulla pietra dell’esecuzione si fermano “come infermieri quando il malato vuol riposare”. Così, sotto il loro bisturi, muore un funzionario che a trent’anni, mentre vorrebbe godersi la carriera e le notti di festa, passa il tempo a redigere una minuziosa anamnesi per capire dove si annida il virus della colpa. Ma è una ricerca vana. K. pretende di conoscere razionalmente ciò di cui si può solo avere esperienza; in un certo senso, è un ipocondriaco che vede avverarsi i suoi terrori. Qualche settimana fa, sul Foglio, Marco Archetti ricordava che le opinioni di Kafka sulla sanità erano quelle dei no vax. Aveva una sfiducia profonda nella pretesa dei medici di arrivare a risultati sicuri. In una lettera a Brod scrisse che “c’è una malattia soltanto, non di più, e la medicina insegue quest’unica malattia come un animale attraverso foreste infinite”. In una frase, ecco il riassunto delle trame più tipiche della narrativa kafkiana.

Matteo Marchesini per Il Foglio Quotidiano

LE CORNA

LE CORNA

Lui, lei e Lilja: le ultime corna di Majakovskij che aveva fama di teppista, odiava i pettegolezzi e si innamorava facilmente” L’eccesso di lirismo tradisce la Rivoluzione, le corna, no. Scrive prima di suicidarsi: “io e la vita siamo pari”

L’Istituto Statale del cervello (GIM), nato per studiare, facendolo a fettine, il cervello di Lenin, una settimana dopo la morte per pallottola di Vladimir Majakovskij presenta la sua perizia sull’encefalo del grande poeta comunista. Il referto riporta un peso di 1700 grammi, a fronte dei 1300 di un cervello medio, e una preponderanza della regione parietale. Pochi anni dopo, il neuropatologo Poljakov conduce un’indagine caratteriale di Majakovskij, da cui emergono i seguenti tratti: tendenza all’epilessia; costituzione ansioso-apprensiva; pianto frequente; non mangiava pesci con le spine; amava gli animali; sensibile alla più piccola offesa; terrore dei batteri; terminazioni nervose a nudo; si lavava continuamente le mani; difficoltà o impossibilità di instaurare rapporti profondi con il prossimo; si innamorava facilmente (tratto da Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi , Adelphi).

Dio vi preservi dall’innamorarvi del più grande poeta di Russia!, ci mette in guardia Veronika Polonskaja nelle sue memorie; è come innamorarsi di un uomo sposato con sé stesso.

Veronika fa l’attrice nella compagnia teatrale in cui lavorano suo marito Jansin e Osip e Lilja Brik, amante di Vladimir. La prima volta che lo vede è a una corsa di cavalli, il 13 maggio del 1929, a Mosca. Lui indossa un cappotto bianco, il bastone e un cappello enorme. Osip Brick le fa notare quanto sia ridicolo il suo modo di camminare. Ha un broncio strafottente, le gambe troppo corte per la sua mole, e tiene le braccia attaccate al tronco come chi non è a suo agio. Ha fama di teppista, e di mascalzone con le donne.

Lui le dà appuntamento per la sera stessa all’uscita del teatro: lei lo aspetterà per oltre un’ora. Quando alla fine si presenta, le dice: “Perché cambiate così tanto? Stamane alle corse eravate un mostro, e ora siete talmente bella”. Iniziano a frequentarsi: la invita a casa sua e le declama le sue poesie, che siccome parlano di una donna che dorme in un altro letto in un’altra casa, Veronika si illude parlino di lei. Poi la raccolta esce ed è dedicata a Lilja: Veronika non sa del patto che li lega, in base al quale lui deve dedicarle tutto quello che scriverà fino alla morte. Le sue opere vengono ignorate. Il partito gli rimprovera di badare troppo ai sentimenti privati, di tradire la Rivoluzione con l’eccessivo lirismo. Veronika lo consola e lui la nomina parte della sua famiglia. È ipocondriaco, sigilla le finestre, tocca le maniglie solo con la falda della giacca, regala rose rosse ad altre donne. È soggetto a violenti sbalzi d’umore. È incapace di mentire, anche quando una bugia potrebbe rendere più sereni i loro rapporti. La porta alle sue letture: a Veronika si stringe il cuore a sentirlo declamare: “Mi ama? Non mi ama? Mi spezzo le mani e sparpaglio le dita spezzate” a un pubblico di borghesucci che hanno nostalgia dei versi fluidi di Puškin. Lo vede spiegare loro, con la gentilezza dei collerici quando hanno ragione, che i tempi sono cambiati, e la forma poetica adatta a raccontarli deve essere compulsiva e spezzata. Una volta a casa, furioso, urla i suoi versi: “Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore il grembo dimagrato della terra?”. Lei piange, lui va da Lilja.

In preda alla gelosia diventa infantile e furente. La obbliga a scrivere i suoi pensieri su un taccuino dove lui scrive i suoi, e sono tutti insulti, frasi offensive e sciocche. Vede nemici dappertutto, si sente bellissimo e brutto, e non vuole che lei veda altre persone. Veronika abortisce e cade in una depressione che le impedisce di avere rapporti fisici: lui non lo accetta, litigano spesso. Un giorno, il 14 aprile del 1930, la chiude nella sua stanza di 11 metri quadri della kommunalka per impedirle di andare alle prove. La implora, urla. Bussano alla porta ed è un garzone che porta – a lui, l’autore del poema Lenin – una raccolta di opere di Lenin. Quando vede chi è quello che sta piangendo inginocchiato per terra, lascia i libri sul divano e scappa.

Vladimir si calma di colpo. Le dà 10 rubli per il taxi e si fa promettere che lo chiamerà all’uscita. Lei fa qualche passo verso il pianerottolo, quando sente uno sparo. Gli inquilini riferiscono che Majakovskij indossava una camicia gialla con una cravatta a farfalla nera. Ha un foro di tre centimetri sopra il capezzolo sinistro, la testa rivolta verso la porta e gli occhi aperti. Ha scritto un biglietto “a tutti”: “Non incolpate nessuno della mia morte e per piacere non fate pettegolezzi. Il defunto li odiava… Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è composta da Lilja Brik, mia madre, le mie sorelle, e Veronika Polonskaja… Come si dice – l’incidente è chiuso, la barca dell’amore si è schiantata contro l’esistenza quotidiana. Io e la vita siamo pari”.

Qualcuno comincia a parlare di omicidio politico. Il poeta Nikolaj Aseev riferirà che quando la mattina lui aveva detto a Veronika che non poteva vivere senza di lei, si era sentito rispondere: “E non vivete, allora!”. Un altro compagno dirà che Veronika, appena uscita dalla porta, s’era accesa una sigaretta in attesa dello sparo.

Articolo di Daniela Ranieri per il Fatto Quotidiano

IL GIOCO DEL VACCINO

IL GIOCO DEL VACCINO

UNA ZUFFA CON TROPPE REGOLE MA SENZA BUON SENSO- SUPERATA LA PAURA DEL COVID SIAMO ENTRATI IN UN SALISCENDI DELLA VITA SOCIALE DOMINATA DA IGNORANZA ED EGOISMI, CUI ALLA FINE CI ARRENDEREMO. ALLORA IL VIRUS CI AVRA’ VERAMENTE FATTI DIVERSI, O MEGLIO PEGGIORI. COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

Ecco, ci siamo. Iniziamo a pagare il conto di quel momento di follia collettiva, quando il nostro buon senso  è stato travolto dalle giravolte di un pallone sul prato del Wembley. Focolai di qua e di là, per tutta la Penisola, e le disdette che arrivano ad albergatori, villaggi turistici, compagnie aeree, rientri dall’estero con quarantena incorporata, ecc.

Già visto? Sì, ma evidentemente non è bastata la lunga teoria di camion militari, con le bare dei morti per Covid della Bergamasca, nel marzo del 2020. Il fatto è che non ci siamo più abituati, non dico alla sofferenza, ma ai fastidi. La rinuncia diventa un affronto, la prescrizione di un governatore o del mite ministro Speranza, un soffocamento della Libertà, sì quella con la maiuscola.

Un boccone troppo succulento per la politica (questa con la minuscola, ed è anche troppo). Prendete la Giorgia, quella che si chiama così, è una madre, è una cristiana che scrive,… ma non legge. A cominciare dalla Costituzione. Ha detto che il green pass sarebbe un attentato alla Costituzione. Tuona: il caffè e la matriciana, li devono poter consumare anche i cittadini non vaccinati, comodamente seduti e smascherati nel pubblico locale.

Costituzione italiana-Art. 16.” Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge” (neretto mio).

Ebbene, questa signora (che i sondaggi e le copie vendute della sua autobiografia dànno col vento in poppa), è in Parlamento da quando Mary Quant inventò le gonne corte, è stata ministro col Berlusca… ma si ostina a non leggere, nemmeno la Costituzione. O non la capisce, il che è peggio.

Delle giravolte di Salvini non riesco a parlare, tanto mi gira la testa. Adesso, alla ricerca di un po’ di simpatie, l’ex Capitano straparla di figli inseguiti da gente armata di siringa (video in fondo). Gli immigrati sono passati di moda, è tempo di green pass, di fare l’occhiolino a baristi e cuochi. Ma è ben accompagnato, ha dei sodali Oltralpe e nel mondo. Anche Boris Johnson non scherza, in Inghilterra decreta che si apre senza limiti, nonostante 54 mila contagi al giorno (dato di ieri). Anche se oggi pare ci stia ripensando, boh.

Ma stiamo in Italia, dove sottili analisti politici sostengono che è un modo per i Dioscuri della destra italiana per leticare le parti basse dei tanti malpancisti, novax e dintorni, delle partite IVA, dei vecchi resi dubbiosi e impauriti da una comunicazione confusa, contraddittoria, ridondante, cui hanno partecipato lloro stiessu alla grande. Le parole che prendono il posto dei fatti e questi ultimi infarciti di fake news, per palati buoni.

“Faccio quello che voglio”, è la versione disinibita della libertà in Italia per chi non vuole vaccinarsi.

Obiezione: e gli altri? Il povero nonno, gli handicappati (si può ancora dire così?), gli ammalati che non possono vaccinarsi? Che si arrangino! Peccato che, solo fra gli over 60, sono ancora 2,4 milioni i non vaccinati, per non contare gli altri (ad oggi solo il 49,55% degli italiani ha ultimato il ciclo). Che facciamo, passiamo di una emergenza all’altra? E nel frattempo andiamo in discoteca?

Uno oggi telefona alla radio per giustificarsi: non mi vaccino perché i vaccini sono sperimentali. Bravo, peccato che tutte le scienze (e quella medica non fa eccezione) è solo e da sempre sperimentale, probabilistica. Senza provarli i vaccini non ci sarebbero stati, eppure hanno salvato milioni, forse miliardi di persone. La medicina non dà vaticini, ma dati statistici: se un vaccino è efficace all’80% perché sollevare un polverone se uno su x già vaccinato si ammala?  

Un altro ancora, con voce tormentata, informa: non mi vaccino perché non è giusto che l’Occidente abbia i vaccini e l’Africa no, lo farò ma per ultimo, balbetta l’anima bella, in piena farsa ideologica. Il detto evangelico rovesciato: i primi saranno gli ultimi.

Giustamente un commentatore ha sottolineato come una cosa è difendere la propria libertà, altra diventare untori consapevoli, seppure involontari.

Prima la salute pubblica e poi quella dei singoli? Certamente, e non solo per obbligo di legge o solidarietà, ma perché la seconda non ci sarebbe senza la prima, e viceversa. Falso dilemma, dunque?

Non proprio, piuttosto l’evidenza che ignoranza e egoismo, e il venir meno del buonsenso, in periodi di crisi sono il preludio di una società senza regole, l’avvio di una decadenza e il tramonto di ogni ideale.

IL RESPIRO DI CATTELAN

IL RESPIRO DI CATTELAN

Cattelan cambia passo: ha appena aperto al Pirelli Hangar Bicocca l’esposizione «Breath Ghosts Blind». Un’ampia retrospettiva che tocca i temi tipici dell’artista, con opere note o inedite.

Una mostra seria e silente. Una mostra con sole tre opere, potremmo dire un dramma in tre atti, a tratti cupo e angoscioso, ma anche commovente, che ci parla di dolore, di perdita, di elaborazione del lutto e della ricerca interiore necessaria per trovare un senso di rinascita. E di speranza. Chi si aspetta un Maurizio Cattelan provocatorio e ironico, per capirci il Cattelan de La Nona Ora, con il Papa colpito dal meteorite, o quello di America, con il trumpiano water d’oro, rimarrà deluso. Dopo dieci anni di assenza da Milano, il suo ritorno negli spazi solenni del Pirelli HangarBicocca, trasformati oggi in una immensa cattedrale gotica con Breath Ghosts Blind (letteralmente «Respiro, Fantasmi, Cieco»), ci porta a vivere il rito dell’elaborazione di un lutto collettivo. Un rito laico nel nome dell’arte, ma non per questo meno emozionante e struggente.

Cattelan: Blind

Quasi fosse una pièce teatrale, la narrazione è scandita nel potente dialogo con l’architettura, dove si rivela anche la qualità curatoriale di Roberta Tenconi e Vicente Todolí, che non a caso hanno scelto la collaborazione di Pasquale Mari, grande esperto di luci nel cinema e nel teatro, per dare forza e mistero alle tre opere.

Il primo impatto è con Breath, un’inedita scultura collocata nel buio e nel silenzio dell’immenso spazio e che perciò assume una dimensione sospesa nel tempo. La scultura, illuminata da un fascio di luce che la isola e ne disegna i confini, appare al tempo stesso spettrale e poetica: è a grandezza naturale, in marmo bianco di Carrara, riconosciamo la figura dello stesso Cattelan con accanto un cane, un setter. Entrambi sono distesi, apparentemente sereni, ma qualcosa non torna, la postura ricorda i calchi di Pompei. E così, nasce la domanda. Perché sono lì? Dormono? O sono morti? L’uomo è in posizione fetale, un berretto di lana in testa, intravvediamo solo le pieghe di una maglietta, i piedi nudi. Si sa, l’arte di Maurizio Cattelan rifugge da interpretazioni codificate. Non ci sono risposte, mai. Eventualmente domande.

Cattelan: Love

Certo, la scelta del marmo ci porta nella classicità, e il lavoro di Cattelan, a suo modo, è impregnato di storia dell’arte. La figura del cane è ricca di simbolismi: già nella mitologia è rappresentato come il più fedele amico dell’uomo. Ma può avere anche una valenza negativa: non a caso, in alcune rappresentazioni dell’Ultima Cena, viene raffigurato ai piedi di Giuda. Cattelan è troppo intelligente per lasciarsi sfuggire le diverse possibilità di lettura.

E ancora, il titolo: Breath, come se ci fosse un respiro comune, all’unisono, lo stesso che osserviamo quando lungo i marciapiedi incontriamo un senzatetto con il suo cane, soggetto già evocato, come nei manichini di stracci in Andreas e Mattia (1996). Per l’artista è una consuetudine mettere in scena sé stesso, ma è un artificio: il suo volto diventa così metafora, simulacro di altro. E poi, come non pensare all’urlo disperato «I can’t breathe», (Non riesco a respirare) di George Floyd? Come sempre, vediamo quello che sappiamo, e «sentiamo» quello che abbiamo già vissuto. E francamente ciò che ci piace vedere è il gesto intimo e la poetica naturalezza della relazione tra l’uomo e il cane.

D’altronde, come ricordava il celebre psicoanalista James Hillman: «Siamo ossessionati dal dolore, e per questo siamo ossessionati dall’Anestesia e dalla Distrazione»: Maurizio Cattelan lo sa bene e fa suo questo pensiero.

“Le sue opere sottolineano i paradossi della società e riflettono su scenari politici e culturali con profondità e acume. Facendo uso di immagini iconiche e di un pungente linguaggio visivo, i suoi lavori suscitano spesso accesi dibattiti favorendo un senso di partecipazione collettiva. Nel concepire opere a partire da immagini che attingono a momenti, eventi storici, figure o simboli della società contemporanea – evocata a volte anche nei suoi aspetti più disturbanti o traumatici – l’artista invita lo spettatore a cambiare punto di vista e a riconoscere la complessità e l’ambiguità del reale.” Dal sito Pirellihangarbicocca

Non solo: chiunque conosca la complessità della sua ricerca sa come l’artista abbia posto al centro del suo lavoro il potere dell’arte nell’esorcizzare la morte: lo ha fatto nel 2004 con Now (il corpo di J.F. Kennedy esposto in una bara) o nel 2007 con All (una scultura in marmo con nove cadaveri ricoperti da lenzuola) o nel 2008 con Daddy, Daddy, (un piccolo Pinocchio riverso a testa in giù in una piscina). Cattelan ha costruito in tutti questi anni un museo di memorie frammentate, come un chimerico e prodigioso anestetico contro il patimento.

Lo rivela lui stesso in una lontana conversazione con Giancarlo Politi: «Quando lavoravo all’obitorio avevo a che fare con i cadaveri, cadaveri veri, e mi sembravano così sordi, distanti. Forse è tutta colpa di quel lavoro, ma quando penso a una scultura la immagino sempre così: lontana, per certi versi già morta. Resto sempre sorpreso quando la gente ride di alcune mie opere: forse di fronte alla morte il riso è una reazione spontanea». Certo, in questa mostra, non ti vien proprio da ridere, anzi. E si coglie un nuovo passo. «È diventato più maturo», liquida in una battuta Todolí.

Magari si può avere un breve moto di compiacimento nel riconoscere i suoi celebri piccioni imbalsamati e collocati all’entrata sopra la grande scritta Pirelli HangarBicocca. Ma non troveremo qui la stessa valenza provocatoria e ironica dei piccioni presentati in due edizioni della Biennale: nel 1997 al Padiglione Italia, nell’edizione curata da Germano Celant, e nel 2011 nel padiglione centrale della Biennale di Bice Curiger. E se prima si chiamavano ironicamente Tourists e poi Others, ora gli uccelli si sono moltiplicati diventando autentici

Cattelan: Breath. Una sorta di autoritratto.

Ghosts, fantasmi che ci osservano dall’alto, dalle pareti, da ogni angolo, e mettono in ansia.

Come nel film di Hitchcock gli uccelli sembrano una folla di irrefrenabili colonizzatori, per ora apparentemente quieti, ma pronti ad attaccare. Solo, non sappiamo quando. Sono migliaia, silenziosi e fermi e occupano ogni spazio. Così questa massa di uccelli morti e imbalsamati ci costringe a riflettere su un rovesciamento di visione: forse siamo noi gli intrusi. Non siamo noi che guardiamo, ma siamo noi a essere osservati da migliaia di occhi vitrei. Ma non fanno lo stesso anche le telecamere nelle città?

“L’artista che ha descritto con la sua carriera la cronaca di una sparizione, di una fuga, ha poi intrapreso una serie di riflessioni e parodie attorno alle grandi utopie del secolo breve, ereditando tutto da Duchamp ma disinnescando il portato ideologico dell’arte delle avanguardie, trovando fonte d’ispirazione dalla cultura popolare, dalla storia, dalla religione e dal linguaggio della pubblicità per traghettarci verso quella che l’artista stesso definì un’era di “dolce utopia” e così facendo ha scritto un capitolo fondamentale dell’arte contemporanea dagli anni Novanta in poi.” tratto dal sito Vogue.

Così, camminando nel vuoto delle navate con un senso di inevitabile inquietudine, si raggiunge il Cubo, là dove venivano provate le turbine, spazio identitario della storica area industriale. Da lontano si percepisce solo una forma astratta, un grande monolite nero. Poi, avvicinandosi lentamente, si entra in un fulmineo viaggio nel tempo: ritorniamo all’11 settembre. Il monolite in resina, dipinto di nero, altro quasi 18 metri, è attraversato dal profilo di un aereo, anch’esso nero. Siamo di fronte alla terza opera della mostra, Blind, in cui la tragedia viene cristallizzata in una essenzialità formale, quasi in contrasto all’assedio di immagini che ha accompagnato l’evento.

Cattelan era a New York quel giorno, si stava imbarcando per Chicago e dopo la chiusura degli aeroporti fece a piedi tutta la strada per tornare a casa: ebbe il tempo per vedere, capire, sentire. Ora, a vent’anni da quei giorni, per lui è arrivato il tempo per riflettere con la giusta distanza e lasciare una testimonianza. E lo fa senza retorica, seguendo Elias Canetti: «Trovare il cammino attraverso il labirinto del proprio tempo, senza soccombergli, ma anche senza saltarne fuori».

Gianluigi Colin per il Corriere della sera

La mostra a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí è aperta fino al 20 febbraio 2021

NEOLINGUA

NEOLINGUA

Non più “donna incinta”, ma “persona che partorisce”. Chi critica la post- realtà è cancellato

“Le persone che hanno le mestruazioni: sono sicura che c’è una parola per queste persone. Qualcuno mi aiuti per piacere. Wumben? Wimpund? Woomud?”. Firmato: J. K. Rowling. E’ il tweet che ha scaraventato la mamma di Harry Potter in una battaglia via social nella quale la scrittrice è stata definita “transfobica”. Le femministe ora hanno fatto causa contro una legge scozzese che ha ampliato il termine “donne” per includere i maschi transgender. Trina Budge, direttrice di For Women Scotland, ha dichiarato al Times: “In Scozia siamo alla fine del riconoscimento delle donne come classe sessuale”.

La legge è progettata per garantire che la metà di tutte le posizioni nei consigli pubblici sia ricoperta da donne, o meglio anche dagli uomini che si definiscono tali. Chi dissente è cancellato. Milli Hill, autrice di bestseller e fondatrice del Positive Birth Movement, rete di sostegno per le donne incinte, è stata cancellata dall’associazione per aver criticato l’espressione “persone che partoriscono”.

Birthrights ha scaricato Hill, con cui ha lavorato per anni. Si deve dire “allattamento al torace” anziché “allattamento al seno” e sostituire “madre” con “genitore che partorisce”. E’ la politica trans- amichevole del Brighton and Sussex University Hospitals Nhs Trust. Lynsey Mccarthy- Calvert è stata costretta a dimettersi da portavoce di Doula, l’associazione inglese delle levatrici, dopo avere affermato che solo le donne possono avere bambini. “Non sono una persona che ‘ possiede una cervice uterina’. Non sono un ‘ menstruator’. Non sono un ‘ feeling’. Non sono definita da un vestito e un rossetto. Sono una donna”.

Giulio Meotti

Nell’abusatissimo romanzo di George Orwell “1984”, il “buco della memoria” è un meccanismo ideato per alterare o fare sparire parole con l’intento di fare sì che non siano mai esistite. Ora scopriamo che esiste davvero.

Articolo di Giulio Meotti per Il Foglio Quotidiano

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