LA MAPPA DEL MEDITERRANEO E’ MITO

LA MAPPA DEL MEDITERRANEO E’ MITO

Madre nostra che sei nel mare Mediterraneo- Che cosa ci attira delle acque che come ogni estate cerchiamo? Il mito, l’oriente, le radici liquide- O forse l’idea che dalle acque nacque Venere e in fondo al mare riposa ogni cosa. Il mediterraneo visto da Paolo Rumiz.

I primi sospetti sul sesso del Mediterraneo mi vennero nel porto di Bar, in Montenegro. Era appena finita la guerra dei Balcani e l’Adriatico era frequentato ancora da pochi. Ma quei pochi erano gente speciale. Come Slobodan, un serbo di terraferma. Era ormeggiato accanto a noi su un improbabile, grosso sloop

Paolo Rumiz

in ferro che era anche la sua casa. Con le anime slave si fraternizza presto e lui ci invitò a bordo per raccontarci una storia. Prima di diventare vela, la sua barca era stata scialuppa di salvataggio di una nave da guerra che la marina jugoslava aveva messo all’asta pezzo per pezzo.

Uno smembramento che era sintomo e allo stesso tempo metafora dell’imminente dissoluzione del paese. Anche il nome del serbo era metafora: Slobodan vuol dire Libero. E lui lo era. Anni prima, il nostro aveva caricato l’imbarcazione su un treno merci e l’aveva spedita a Belgrado, poi l’aveva trasformata nel giardino di casa e infine varata nel Danubio, per raggiungere il Mar Nero.

E così, mentre il suo mondo franava nel sangue, l’uomo libero prendeva la via dell’acqua, l’unico spazio franco che gli rimaneva. Passò il Bosforo e compì il periplo della Grecia fino alle coste del Montenegro. Quando arrivò, la sua patria già non esisteva più. Ma lui se n’era fatta una ragione. «Non ne potevo più di tamburi, di patrie e di eroi. Cercavo un’ecumene, un grembo capace di accogliermi e farmi muovere liberamente». Così disse, e ci mostrò una mappa del Mediterraneo appiccicata sopra il loculo della sua cuccetta. «La guardo ogni sera prima di dormire e sogno di viaggiare», ci confidò. «La vera ricchezza dell’uomo sono i sogni».

Malta

Il suo Mediterraneo era una madre. Anche la chiglia lo era. Il suo guscio materno era un grande orecchio che ci proteggeva dagli elementi e, in quel momento, captava e amplificava il rombo del temporale che andava addensandosi sopra di noi. Un sensore che auscultava i sommovimenti del meteo attraverso il liquido amniotico del mare. Eravamo sotto monti arcigni e cupi che confermavano l’intuizione dello storico Femand Braudel, secondo la quale il Mediterraneo è “un mare di montanari”. La durezza dei marinai adriatici, figli delle rocce e della bora, nasceva dalla loro intimità con le montagne più severe d’Europa. Anche la guerra appena finita era partita dalla montagna, dai primitivi, lunatici abitanti delle Alpi dinariche, per poi dilagare in basso. Verso i fondovalle, le città, i mercati, il mondo plurale delle coste. Una guerra altimetrica, assai prima che etnica.

Poco tempo prima avevo conosciuto Carlo Sciarrelli, il più famoso progettista di barche a vela in legno del Nord Adriatico. Attraverso le linee ricurve del fasciame, ogni suo disegno ricalcava la ricerca di un’unica barca.

Carlo Sciarelli in navigazione

La barca di Dio, così la chiamava. La chiglia in legno, mi aveva spiegato, intercetta le voci e le conserva; e, come Calipso con Ulisse, è in grado di affascinare il nomade più incallito, imprigionarlo e fargli passare la voglia di uscire da quel perimetro che riassume il mondo. Sciarrelli era un uomo ruvido, greco di cultura, e selezionava severamente i committenti. Potevano essere ricchissimi, ma se non conoscevano la musica, li mandava sarcasticamente a quel paese. Il Mediterraneo era suono, canto corale, che diamine. Era metrica, esametri. Mitologia. E se con lui non reggevi a un confronto nemmeno su Omero, eri cacciato via in malo modo.

Che il Mediterraneo fosse anche polifonia lo capii dall’incontro con un pescatore istriano, al bancone di un bar. Beveva il suo Malvasia con la “marenda” del mattino. Gli storici, disse, non avevano capito niente. Mica vero che ¡Veneziani non erano stati capaci di arrivare alle Americhe; la loro perizia nautica glielo consentiva.

La verità è che non l’avevano voluto. Non gli interessava navigare in un mare senza osterie. Bicchiere di vino, nel Nord Adriatico, si dice “ombra”. Che farsene, disse, di un mare senza “ombre”? Già, pensai, perché disertare 10 spazio intimo del periplo, l’arcipelago dove è cresciuta una civiltà unica al mondo, e nel quale la locanda, l’osteria o il caffè affacciato sulla battigia è il segno identitario che accomuna le sponde? Bevemmo un altro Malvasia e il pescatore cantò una vecchia canzone delle sue parti che sembrava ripetere 11 ritmo lungo del beccheggio. «In mezzo al mare / xe un’ostaria / È l’allegria / del marinar». Era la dimostrazione pratica della sua teoria. Disse: una cosa del genere non esiste in Atlantico. Questione di miglia. Troppa strada per arrivare a una taverna. Idem per la seconda strofa – «In mezzo al mare / xe tre sorelle / Una di quelle / vorrei sposar». In oceano non trovi né vino né ragazze da maritare. Passa per mare Gibilterra e capisci. Senti di lasciarti alle spalle una favolosa ricchezza di opportunità. Davanti a te hai solo banchi di sardine e solitudine. La monotonia di uno spazio senza isole. Nel periplo della vita la conoscenza si amplia spesso sul filo di incontri casuali, come in uno zig zag tra isole di un arcipelago. Accadde con Maurizio, un rappresentante di carte geografiche (può esistere un mestiere più controcorrente nell’epoca di Google Maps?) di etnia romagnola, dunque bizantina. In cima a una scala, stava disegnando minuziosamente la Scozia su un mappamondo di cinque metri di diametro, su commissione di un’officina. Ci lavorava da mesi. Su quella scala perdeva il senso del tempo. Con gli operai, affascinati, parlava di curvatura delle coordinate e sfumi altimetrici senza che intorno volasse una sola parola in italiano. Dialetto stretto. Era così preso dal lavoro, che immaginai abbandonasse all’alba il letto coniugale per finirlo in tempo. Sua moglie, disse, sapeva da sempre che lui guardava le mappe come le donne. Roba da farci un film. Da lì partì una colta disquisizione sulla femminilità della Terra, che Maurizio andava ad abbracciare ogni santissimo giorno. (questa pagina: mosaico romano con una varietà di pesci e molluschi, su fondo nero.

Museo archeologico nazionale Napoli, mosaico con pesci

Non c’è nulla di più ipnotico e ammaliante di un profilo costiero, disse mostrando la linea frastagliata della Corsica occidentale. E poi, diamine, tutto ciò che è rotondo è femminile, poche storie. Gli antichi lo sapevano da sempre. Se oggi il mondo è diventato piatto e solo perché lo hanno schiacciato sullo schermo di un computer. L’uomo cosiddetto evoluto ragiona per superfici lisce, lineari e puntiformi. Ha perso il senso della complessità e della verticalità. Già quando Einstein esortò gli scienziati a sforzarsi di immaginare un universo curvo, quelli «nemmeno con l’uso di droghe ci riuscirono » . Delle acque non se ne parla, sono la cosa più femminile che esiste. Per questo il maschilismo imperante cerca di cambiare loro il sesso. Vedi parole come emissario, fiume, rivo, fosso, torrente, lago, canale. O la Piave che diventa il Piave.

Era vero. Dove se non in mare verifichi la rotondità del Pianeta? È per via della curvatura terrestre che, navigando, vedi isole emergere o affondare sull’orizzonte. Non lo verificai certamente in Atlantico, ma nel mio Mediterraneo, grazie alla costante vicinanza di coste montuose e arcipelaghi. Fu quando cominciai a navigare seriamente a vela, in tarda età, grazie a un nuovo incontro casuale: Piero, lo skipper di “Moya”, una severa barca inglese del 1910 dalla storia leggendaria. Parlava greco e latino, insegnava lettere classiche in un college di Cardiff, cantava gli Shanties dei velieri britannici, suonava bene il clarinetto e aveva dedicato al suo cane il portolano del Golfo di Trieste. Con lui la percezione del mare si perfezionò. Navigare in Grecia senza apparati elettronici, alla stessa velocità degli antichi, seguire le stelle leggendo Omero, e ascoltare le voci del profondo attraverso la risonanza di quel fasciame leggendario, era un’esperienza unica. Ti traghettava nel cuore del mito.

Isola di Creta

Già, il mito. Me lo chiedevo ogni inizio estate. Cosa spinge a cercare nel Mediterraneo, e non altrove, un luogo- rifugio dalla barbarie del saccheggio e del turismo dei selfie? Cosa porta tanti europei a mettere, anche per poco, la scia di un traghetto fra sé e il mondo? Avevo cercato di darmi delle risposte. Il sogno ormai impossibile di un’isola deserta dove abbandonarsi alla voce degli elementi. La presenza degli dei antichi, il politeismo che sopravvive al totalitarismo degli dei unici. La percezione di mille diversità. L’ostinato individualismo delle isole. L’esistenza di una linea di faglia sempre attiva, dove si sfogano immani tensioni continentali. Lepanto, Salamina, i naufragi. L’intima unione tra il sismico e il fertile, Persefone e Demetra. Hai mille ragioni, ma alla fine torni sempre lì. Alla risposta che racchiude tutte le altre. Al mito. Che, spesso, dice più della politica, dell’economia e della stessa geografia.

È stato grazie al mio skipper dell’anima che ho iniziato a riflettere su tutto questo, e sul mito di Europa in particolare. La storia è semplice: Europa è la figlia di un re della Fenicia, attuale Libano, che Zeus rapisce sotto forma di mansueto toro bianco e porta via mare fino a Creta, per consumare l’amplesso che darà vita alla nostra progenie. Questo ci porta davanti a evidenze lampanti. Per cominciare, Europa non è una continentale, ma è figlia del mare: ovvietà che andrebbe rammentata ai tristi abitatori delle nebbie, illusi di poter fare a meno del Mediterraneo. Secondo: Europa è donna. La sua è un’essenza materna e di accoglienza, perché la geografia la mette al capolinea dei popoli, ne fa lo spazio terminale di una migrazione costretta ad arrestarsi sul grande nulla dell’oceano. Terzo punto, il più importante: Europa è asiatica. Sembra una contraddizione in termini, ma non è così. La nostra gente viene da Oriente, come il troiano Enea, fondatore di Roma. Come Cristo. Come San Paolo e San Pietro. Come quasi tutti i popoli fra l’Oceano e gli Urali, Italiani compresi. Il che dice che tra i due mondi non vi è confine, e che esiste un solo mondo, l’Eurasia.

Quarto punto: Europa è una terra benedetta dagli dei. Nientemeno che un dio si fa carne nel suo grembo. In fondo, Zeus avrebbe potuto possedere la ragazza restando in Libano; e invece no, se la porta in Occidente. È qui che la giovane rapita e l’approdo del viaggio diventano una cosa sola. L’erba novella che cresce sotto la ragazza abbandonata tra le braccia di Giove, e l’immenso albero che la sovrasta (il famoso platano di Gortina cui le ragazze di Creta chiedono la promessa della fertilità), dicono tutto della bellezza della nuova terra, temperata, ricca di acque, intimamente compenetrata dal mare e ben più fertile delle terre che la circondano. Benedetta, appunto. Ma c’è una quinta evidenza. La meno ovvia. In tempo di esodi di massa, colei che nella notte dei tempi attraversa il mare con paura in groppa a una bestia selvaggia, può essere considerata la capostipite dei migranti. Di tutti coloro che, da millenni, cercano là dove il sole va a morire un approdo per sfuggire alla guerra e alla miseria.

Gibilterra

Se il mito è ritmo e canto, la mappa mentale del Mediterraneo è pura polifonia, la quintessenza pelagica delle diversità concentrate in Europa. Un’esperienza acustica di prim’ordine. Ed ecco il tuono del Mare di Alboran contro i faraglioni spagnoli a Est di Gibilterra, le litanie dei monaci dell’Athos davanti alle loro Madonne nere, l’eco del temporale intrappolato nelle Bocche di Cattaro, il vento che sibila tra i ruderi delle fortezze di Caprera, il silenzio delle correnti dello stretto di Messina attorno a un misterioso punto- zero chiamato Anfidromico. Tutto ritorna: gli esametri del mio capitano e le note del suo clarinetto; la danza di Zorba sulla battigia (Antony Quinn era stato davvero su “Moya”!), l’urlo del mare indemoniato contro l’isola deserta di Lavezzi e il cimitero dei suoi seicento naufragati; la locandiera greca Irini che, sulla costa di casa mia, ascolta a giornata finita Itane mia fora di Xilouris. E ancora il canto dei galli evocati da Patrick Fermor, che si chiamano di isola in isola fino a svegliare il mondo intero; o il Meltemi che lambisce Cnido, promontorio ruggente che separa l’Egeo e dal Mar d’Oriente.

Ma c’è dell’altro. Il rombo delle eruzioni e dei terremoti. Il ronzio sinistro dei gommoni malandati delle mafie. L’ultimo richiamo di chi annega e grida al cielo il proprio nome per dire almeno “ sono esistito”. La bellezza del Mare Nostrum è compenetrata di tragedia. Puoi anche ignorarla: ma allora non ne comprenderai l’essenza, se è vero che il Tragos, il capro espiatorio, è un’intuizione greco-mediterranea. Non puoi turarti le orecchie. Devi ascoltare anche il crepitio del fuoco nei campi profughi di Lesbo, non lontano dall’isola di Patmos dove Giovanni scrisse l’Apocalisse. Sentire, nel silenzio di una sala buia dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, all’allerta sonora che su un grande schermo segnala ogni terremoto sulla spina dorsale del nostro mondo. E che dire dei rumori e delle voci sulle navi di soccorso tra Malta e Lampedusa: la babele di lingue, le liti, il tuono delle ventole e dei motori surriscaldati, l’agitazione nell’imminenza dello sbarco che si scioglie nei canti di preghiera o di ringraziamento delle donne davanti alla Terra promessa, un mantra che ti possiede per sempre.

Ma ci sono anche i suoni carichi di presagi della nave vuota, prima dei soccorsi. Ricordo le parole Alessandro Porro, anima di Sos Méditerranée Italia, la sua narrazione ad alta energia emozionale del silenzio carico di tensione che grava sulla ciurma quando scendono in acqua i gommoni di salvataggio. Attimi tesi, dove ogni sbaglio può costar caro e dove nessuno è autorizzato a parlare. I marinai conoscono quel cigolio degli argani, simile a quello di una ruspa, che si fa via via sempre più acuto, sottile, pungente. Un suono rituale, solenne, ouverture di una missione che entra nel vivo. E poi il gracidare del walkie talkie, che ciascuno dei trenta operatori a bordo deve tenere con sé per tre mesi ininterrotti, anche quando dorme, persino sotto la doccia. E le chiamate sul canale 16, quello delle emergenze, dove viaggiano la comunicazione tra navi civili e militari. Voci e richiami fra ignoti, raramente collegabili a un volto preciso. Ma quando, raramente, accade che quelle voci si materializzino in una figura in carne e ossa, ecco che la tensione rompe gli argini e libera un fiume travolgente di emozione.

Lo Stretto di Messina

Il Mediterraneo è un mitico spartito, di voci in prevalenza femminili. Con Piero, sulla vecchia “Moya”, facemmo un viaggio sulle rotte di Europa. Dovevamo farlo. C’era stata Brexit e, per polemica, egli aveva innalzato la bandiera stellata dell’Unione sopra quella britannica. Voleva poter narrare ai suoi allievi le terre del sole dalle quali Albione voleva separarsi. Mi parlò delle cartografie rinascimentali che raffiguravano l’Europa come una donna, e di quelle arabe dove le montagne, dalle Alpi all’Himalaya, erano la cintura tempestata di gioie di una veste femminile che nascondeva il premio per gli eroi puri di cuore. Ragionammo sulle Grandi Madri del Mediterraneo, su quella folla di Madonne nere, sibille, parche, menadi, prefiche, erinni, che affollano la sacralità del nostro Meridione e trovano la loro massima e vagamente inquietante espressione nelle Matres matutae di Capua. Sì, Europa era una femmina d’Oriente, e il Mediterraneo la sua culla. Quando, cinque mesi dopo, Pietro morì lasciando scritto, come Dylan Thomas, che la morte non l’avrebbe avuta vinta (« death shall have no dominion »), mi resi conto che nel Mare di mezzo egli aveva cercato nient’altro che sua madre. La madre dei popoli cui apparteneva. Sentii che avrei continuato a cercare le radici dell’Europa attraverso il mito e il sortilegio del verso che egli aveva cantato per noi. Fu come un ordine. Quel giorno, ricordo, i quattro venti si diedero appuntamento nel cielo di Trieste. Ma questa è un’altra storia.

Paolo Rumiz per Robinson di Repubblica.

RAFFA: hai ballato, hai cantato e hai danzato, adesso……

RAFFA: hai ballato, hai cantato e hai danzato, adesso……

Ad un mese dalla morte, a 78 anni, di Raffaella Carrà, passata l’onda emotiva, eccovi il suo ricordo nella bella intervista fatta da Malcom Pagani nel febbraio 2019

Caratteri: «Avrò avuto vent’anni, non ero nessuno e non avevo fatto ancora niente. Mi trovai in uno studio televisivo davanti a un dirigente loquace ed entusiasta: “Lei è fortunata. La vede quella scalinata? La scenderà ogni settimana con un abito meraviglioso e una benda sugli occhi.

«Da ragazza ero tremenda, mi sono calmata» e il suo lusso resti la libertà di dire no: «Dei soldi e dell’ambizione non mi è mai importato niente, ma  senza coraggio la mia vita sarebbe stata triste. Se a volte ho fatto delle cazzate, le ho fatte perché le avevo scelte io. Ho cercato di farle bene comunque e mi sono impegnata perché come diceva mia madre: “Se le cose non le fai bene, poi devi rifarle due e tre volte”. Non mi piace perdere tempo. I don’t want to loose time. Se però una cosa non la sento, la rifiuto. Perché non ho mai creduto nel rimmel o nel mio personaggio, ma nell’idea, nella creatività e nel destino.

Sono rimasta sempre me stessa e o ho provato a non cambiare pelle. Timida, che quando ricevo un premio o un riconoscimento smetto quasi di parlare e a disagio, un disagio profondo, quando intorno a me c’è troppa gente. Divento un’altra e alle grandi feste non vado mai. Non saprei cosa dire e cosa fare e cercherei subito un modo per fuggire. Se mi fossi specchiata nel successo sarei stata insopportabile.

Ho cercato di evitarlo, per me e per le persone che avevo intorno, ma non ho faticato perché è la mia natura. Oltre il balletto, le prove, le canzoni e tutto il resto, c’ero sempre io. Quella che dimessa e struccata va in vacanza a un’ora da Roma e d’inverno indossa il golf e la calzamaglia perché sente freddo. Amo il mio nido e le mie piccole certezze. Sono semplicissima da leggere. La Carrà mi è simpatica, ma con Raffaella Pelloni ci vivo tutti i giorni». Febbraio. Moka, sigarette e consapevolezze: «La vita è una partita a carte e a me piace avere il mazzo in mano».

Ha vinto?

«Me la sono giocata. A volte ho pagato un prezzo e altre mi è andata bene, ma non posso dire di non essermi divertita».

Chi crede di essere stata?

«Più che un’artista, un’ottimizzatrice. Dovunque sia andata, ho imparato delle cose. Ma sono nata sotto il segno dei Gemelli e quando scendo dalla giostra, ho bisogno di volare, viaggiare e andare via. Se ho tempo per me, mi alzo dalla sedia e faccio finalmente quello che mi pare».

Lo chiamiamo sano egoismo?

«La chiamiamo libertà. Io non mi annoio mai. E se faccio televisione, provo a non annoiare gli altri.  Se da spettatore vai oltre il piccolo schermo, le luci e le paillettes, capisci una cosa. La stessa che intuisci se mi guardi negli occhi».

Che cosa?

«Che io ti coinvolgo e ti porto con me sulle nuvole: fuori dalle rogne quotidiane, dai problemi, dai conti che non tornano mai».

Natalia Aspesi diceva che lei era un po’ Ginger Rogers e un po’ Jessica Rabbit.

«Ma quando mai? Lei è gentile, ma non è vero. Non ho mai avuto quel seno né quel culetto. Ma, dia retta, negli occhi ho avuto sempre un’intenzione. Una passione. È quella che disegna la vita, non il contrario».

Da bambina sognava di fare la coreografa.

«A un certo punto mi sono dimenticata dei miei desideri e mi son detta: “Sai che anche questo non è male?”.

“Questo” è la storia della tv italiana.

«Guardi che se mi vuole fare il monumento mi alzo subito e me ne vado».

Non dobbiamo?

«E non dovete no. Sono semplicissima da leggere. Lei scrive per Vanity Fair, ma deve sapere che io somiglio a tutto tranne che alla fiera della vanità. Mi sono divertita a indossare gli abiti più pazzi del mondo, ma quel tempo non esiste più. MilleluciFantasticoCanzonissima. Sa perché piacciono tanti a chi li recupera in rete o guarda Techetecheté? Perché è la fotografia di un mondo che non c’è».

Qual era il segreto di quella tv?

«I dirigenti di allora avevano il prodotto in testa, nel senso più ampio della parola. Volevano fare bellissima figura anche quando Rai Uno era l’unico canale d’Italia o quasi. Ne andava della loro poltrona o della loro reputazione. Poi c’erano gli autori».

Oggi non ci sono più?

«Oggi, quando va bene, trovi persone che fanno tre o quattro programmi contemporaneamente. I denari non sono più abbastanza. E se hai qualche fardello, oltre ad amare la tv devi amare anche la famiglia e portare lo stipendio a casa. Altrimenti poi tua moglie ti dice: “Antò, come pensi di pagarlo questo mese il mutuo?”».

Pippo Baudo teorizzava che la tv non andasse mai abbandonata e che un presentatore la dovesse occupare militarmente.

«Non ci ho mai creduto e con Pippo ne ho discusso tante volte. La mia teoria è opposta: ogni tanto, soprattutto se sei una donna, ti devi togliere dai piedi. Se sei sempre lì non ti rinnovi mai. Sempre la stessa faccia, la stessa espressione, lo stesso birignao. La tv, per farla bene, devi vederla anche da fuori. Devi capire dove vivi, chi c’è per strada, chi ha le mani sul telecomando e la sera sceglie proprio te. Se vai via per uno o due anni non succede niente».

E il rischio di essere dimenticati?

«Se si scordano di te significa che non sei stato poi così incisivo e che forse della tua presenza si poteva fare a meno».

Di lei, classe 1943, la Rai non ha intenzione di fare a meno.

«Non ho mai voluto fare a ogni costo la tv perché non ne ho mai sentito l’esigenza. Per convincermi mi devi incuriosire e poi forse, avendo affrontato molte sfide e molte curve ad alta velocità, col tempo, è cresciuta anche la paura di andare a sbattere contro un muro».

Prima di fare un programma lei ha paura?

«Una paura fottuta. Non ci dormo la notte. Ci devo fare i conti, la devo domare, devo farla passare. Prima di iniziare è sempre dura».

Tra poco, il 28 marzo, darà vita a un nuovo programma di interviste su Rai Tre ai grandi personaggi del nostro tempo.

«Stefano Coletta, il direttore, è venuto a propormi tre programmi. Mi ha telefonato: “Sono un tuo grande ammiratore” e bibum e bibam. Mi viene a trovare. Leggo quello che mi ha lasciato, aspetto poche ore e poi lo chiamo: “Non lo faccio, non lo sento, mi dispiace. Poi gli chiedo: “ma che ti frega di darmi un programma ad ogni costo? Sto bene senza fare niente in tv”. Insiste. Mi porta un secondo programma. Con le parole più gentili che riesco a pescare, rifiuto anche quello. Passa qualche mese e mi ricontatta: “Stefano” gli dico: “Guarda che passerai dall’amore all’odio perché se non mi piace, non faccio neanche questo».

La chiamano la signora del “no”.

«Ma guardi, mi ha sempre guidato l’intuito. E mi sono sbagliata di poco. Infatti dico no anche al terzo tentativo di Coletta. Quando me lo ritrovo davanti mi scappa quasi da ridere: “Siamo rovinati, Stefano”. Gli faccio la parte della fidanzata che sta per lasciare il compagno:

“Rimaniamo amici, lasciamoci così senza rancor”. Tra le dita stringe una cartellina. È il quarto programma.  Me lo allunga sul tavolo senza quasi guardarmi negli occhi. Lo leggo e come dicono in Spagna, all’orecchio sento un gusanillo. Mi sento pizzicare dalla curiosità. Mi viene voglia saperne di più, di inventarmi qualcosa. Mi dico: “Stavolta pensaci bene”.

Ci ha pensato e il programma si farà. Di cosa ha paura? Del ritorno?

«La parola ritorno mi ripugna, mi fa pensare alle melanzane che ritornano su dopo una cena. Se proprio devo tornare, visto che il mio è un eterno ritorno, mi piacerebbe farlo in punta di piedi».

Cosa teme allora?

«Che il pubblico dopo un’ora e mezza in cui non mi vede cantare, ballare e cazzeggiare dica “che palle”. Un’ora e mezza è lunga. Io e l’intervistato possiamo anche divertirci, ma mi chiedo: “Cosa arriverà a casa? Quali sensazioni?”». Coletta Mi ha rassicurato: “Dello share non mi importa nulla, voglio soltanto che sia bello”. Io, Sergio japino e Giovannino Benincasa, gli autori, ci proveremo.

Ci pare di aver trovato la chiave per creare un rapporto magico e fiduciario con l’intervistato. Trovare la chiave è il momento più bello e anche la cosa più importante. Più importante della messa in scena e dei mezzi che hai a disposizione. Carramba lo facevamo in un ufficetto di due metri per due. Ognuno dava un contributo, perché la tv è un gioco di squadra. Da solo non fai un passo».

Carramba che sorpresa, 1995 e il suo spin off, Carramba che fortuna del 2008, fecero epoca e grandi ascolti.

«Pensi che Sergio Japino me lo propose almeno due anni prima. Mi fece vedere la puntata di un format sui ricongiungimenti e rimasi fredda: “Ma stanno sempre a frignà, ma che me frega?” Non lo feci. Allora vivevo in Spagna, dove pensavo sarei rimasta almeno altri quattro anni. Da Roma, Brando Giordani, direttore di Rai Uno, mi telefonava a intervalli regolari: “Dai Raffaella, facciamo una prima serata”. “Eventualmente, Brando, dammi un programma piccolo, non di prima serata”. Non se ne faceva mai niente».

Poi cosa accadde?

«Ero in albergo a Madrid e dalla reception mi avvertono che c’è un pacco per me. Dentro la busta, un plico e una videocassetta. Accendo il Vhs, la inserisco e comincio a piangere come un agnello. Chiamo Sergio: “Ho trovato il mio programma”.

Come la prese?

«Si incazzò come una iena. “Non mi ascolti mai” diceva. Lo calmai con la dialettica: “Dai, mi avevi mostrato una sorpresa loffia”. Lavorare a Carramba fu emozionante, perché era tutto vero e le emozioni, quelle che non ho mai inseguito in nome della finzione, erano oneste».

Si potrebbe replicare?

«Oggi uno show così, uno show puro, non lo farei più, neanche per tre milioni di euro».

Come mai?

«Perché- anche se non me li porto poi tanto male- ho i miei anni e perché non mi va più di allenarmi, cantare o ballare. Lo posso fare per un progetto speciale, come il disco che ho fatto a Natale, ma non può diventare la mia condanna. C’è un tempo per ogni cosa».

  Oggi che tempo è?

«Il tempo in cui spero che chi guarderà il mio nuovo programma non si chieda ogni trenta secondi “Ma quando canta? Quando balla? Quando parte lo spettacolo?”. Potrei mettere su 3 pezzi musicali da quattro minuti? Certo che potrei. Ma mi rendo conto che non ne ho più voglia.

Lo spettacolo saranno le parole e in questo momento di omologazione anche televisiva, di show tutti uguali, di programmi fatti di nulla che portano in primo piano il niente e la superficialità, una trasmissione di parola, di scambio e di confessioni mi sembra una rivoluzione».

Sostengono spesso che lei, la rivoluzione del costume, l’abbia fatta.

«Lo dicono adesso, ma per decenni sono stata considerata quella dell’ombelico, del tuca tuca o dei fagioli. Adesso che ho 75 anni dicono che ho fatto la rivoluzione».

Troppo tardi?

«Le posso dire la verità? Non sempre sono stata raccontata bene e nello specifico ,quella storia dei fagioli mi ha fatto due palle così».

 Anche l’ombelico?

«Allora, l’ombelico. 1970. Mi portano un disegno. Ho i pantaloni bianchi, un toppino e l’ombelico scoperto. Al mare, in vacanza, con un paio di short, io mi vestivo più o meno così. Dov’era lo scandalo? Dove la provocazione? Era tutto pulito, senza secondi fini e non ho mai pensato alla censura né nessuno mi ha detto”Non si può”. Come sia nata ‘sta leggenda non lo so».

Dipendeva da lei? Dal suo aspetto?

«Non credo proprio. Sono sempre andata dritta nella vita e se c’è una cosa che ho sempre detestato fare è proprio ammiccare. Le ragazze che mi guardavano in tv lo capivano perché si vestivano esattamente come me. Mia madre, che non aveva malizia, diceva che avevo l’ombelico come quello di un tortellino. E di sicuro non pensava ai doppi sensi. Oggi in tv vedo naufraghi con un filo nel sedere o con i seni rifatti da cui spunta un capezzolo. Non giudico perché non sono mai stata moralista, però che vogliano mostrare filo e capezzolo è evidente».

Lei non avrebbe potuto.

«E chi lo dice? Ne è sicuro? Forse me l’avrebbero fatto persino passare, ma il punto è che non piaceva a me. Oggi in tv c’è più libertà, ma è una libertà soprattutto di parola. Noi parolacce non le dicevamo, oggi basta mettere una qualunque trasmissione e se non dici vaffanculo ti guardano anche male».

Una sua dote?

«Ironia e autoironia. Guardi come mi avete vestito per questo servizio. Non sono alta due metri e non sono una modella. Ma mi sono divertita e presa in giro. Non sempre gli altri l’hanno capito. Nell’ambiente non dico mi considerino una zarina, ma sicuramente una donna a suo modo potente».

E non è vero?

«Ma non è vero no. E neanche che sia stata ambiziosa. Se ho avuto il passo da carabiniere e a qualcuno sono parsa aggressiva è perché in un mondo fondamentalmente maschile, ho dovuto difendermi e farmi valere. Ma poi, quando sei dentro il progetto, il talento è ammorbidirsi e diventare un’altra. Io ho saputo farlo, ma non sempre me l’hanno riconosciuto. È il mio destino e forse, è colpa mia che non ho saputo raccontarmi o spiegarmi bene. In Spagna sono Raffaella, qui sono la Carrà».

Cosa se ne deduce?

«Che io non sono né Raffaella né la Carrà. Sono Raffaella Carrà. Questa sono. E allora, che cazzo vuoi da me?. (Ride)».

 Si è sentita invidiata a volte?

Come Gino Landi ha fatto incidere su una targa che mi ha regalato: “In Italia ti perdonano tutto meno il successo”. Vorrei un successino, così vivo tranquilla. L’invidia degli altri è dura da sopportare. C’è chi mi ama e chi devi criticarmi per farmi soffrire. Pazienza».

Cos’altro è duro?

«Una critica gratuita e cattiva. Un complimento lo dimentica, una critica feroce te la porti dietro per tutta la vita».

Ai tempi in cui si mise con Sergio Japino scrissero cose tremende, la più gentile della quali era “La bella incontra la bestia”.

«Furono cattivi, anzi mostruosi ed è inutile dire una balla: Sergio ne soffrì. Che poi posso dirle? E Con lui ho tantissime cose in comune e Sergio, tra l’altro, non è mai stato brutto. E ho con lui tantissime cose in comune, anche impensabile. Qualcuno ha mai fatto un appunto del genere su Costanzo a Maria De Filippi? Non credo».

Quante volte si è innamorata davvero?

«Lei mi è anche simpatico, ma questi sono cavolacci miei».

Cosa è importante nell’amore?

«Ridere e non farsi troppe domande. Può essere una storia di tre giorni o lunga tutta la vita, ma se inizi a chiederti quando durerà è gia finita».

Con Frank Sinatra non iniziò neanche.

«Ma senza attrazione fisica, cosa vuole che inizi? Lui era molto simpatico, ma non mi piaceva. Non volevo essere la pupa del gangster. Mi aveva fatto arrivare una collana. “Devi prenderla” mi dissero perentori.  La misi dentro un portacenere».

Mi dica almeno se ai maschi si è approcciata con slancio o con diffidenza.

«Con enorme diffidenza. Mio padre aveva lasciato mia madre e non lo vedevo mai. Non mi fidavo di nessuno, soprattutto dei ragazzi giovani, di quelli della mia età. Infatti, il mio primo grande amore, Gianni Boncompagni, aveva 11 anni in più di me».

Roma, Basilica di Aracoeli, la folla ai funerali di Raffaella Carrà 9 luglio 2021- ANSA/ANGELO CARCONI

Le manca?

«Molto. Avrei voglia di parlargli, di andare da lui. Non si può più e allora, anche se non vado in chiesa, ci parlo lo stesso pregando. Prego tutti i giorni, non solo per lui.

Che rapporto ha con la malinconia?

«È un sentimento dolce, bello e rilassante. Per indole, indietro guardo poco. Cerco di stare nel mio tempo. Non sono mai state triste o depressa per il mio lavoro, ma per i dolori familiari o per i fatti dell avita. Saper che 40 migranti stanno male o che nessuno si mobilità per l’Africa, mi fa stare male».

Nel 2013 aveva detto di credere nella rivoluzione di Beppe Grillo. Oggi?

«Si sono resi conto anche loro che criticare è più facile che fare le cose. Ora abbiamo questa cosa gialloverde e io credo che tutti dovremmo augurarci che funzioni al meglio. Spero che abbattano la burocrazia e che si facciano sentire  duramente in Europa. Non devono salire Di Maio e Salvini con i panini, ma tutto il Parlamento. E non per dire a Juncker che beve troppo, ma per far capire che di questa storia dei migranti devono occuparsene tutti».

Se ripensa agli inizi cosa le viene in mente?

«Una telefonata a mia madre. “Mi hanno invitato al Festival di Venezia per La lunga del notte del ‘43 di Florestano Vancini”. “Ti servirà un vestito”. Andammo a Rimini, in una casa di moda. Mi comprò un abito bianco e dei sandaletti sottili. Avevo i capelli ondulati e mi presentai in Laguna con un toupè altro otto metri. All’inizio della scalinata, rovino a terra e faccio un ruzzolone incredibile. Mi rialzò Gabriele Ferzetti. Iniziò tutto così».

Ha rimpianti?

«Smisi di danzare troppo presto. Quest’estate ho visto su Rai 5 la bayadère con Roberto Bolle e Zlatana Zhkharova. Mi sono commossa. Ho chiamato Sergio e gli ho detto: “Come ho potuto? Guarda questi che hanno fatto. E io?».

Lei ha cantato uno dei pezzi più venduti del mondo.

«Pensi che A far l’amore comincia tu non l’avevo neanche capita. A Bracardi dissi: “Ancora un’altra sambina?”».

A Roma c’è stata una mostra con alcuni suoi vestiti di Luca Sabatelli francamente incredibili.

«Non mi hanno avvertita, non ne sapevo niente. Un giorno ricevo una telefonata dalla curatrice che mi chiede se posso prestare un mantello pazzesco per l’allestimento».

Risposta?

«Trasecolo: “Non crede che avrebbe dovuto farmi una telefonata, almeno?”. “Ma siamo ancora in tempo, ci sono tutti i suoi vestiti dice lei”. E io: “Lei ha i miei vestiti, ma si è dimenticata la persona che era dentro a quei vestiti. Per questo non le do il mantello né voglio sapere niente della mostra”. Quella frasettina mi è venuta proprio bene. Mi è uscita bene. Mi è venuta dal cuore. (Qui Raffaella arrota l’accento emiliano nda)

Chi sente di poter diventare ancora?

«Una vecchiettina simpatica».

Cosa direbbe oggi Raffaella a Raffaella Carrà?

«Hai ballato, hai cantato e hai danzato. Adesso resta lì che io mi riposo».

Intervista di Malcom Pagani a Raffaella Carrà per Vanity Fair 

CACANIA?

CACANIA?

Le discutibili tesi del matematico “impertinente e perfido”, come si definisce, Piergiorgio Odifreddi- Fra i tanti libri scritti, una critica matematica alla democrazia politica, in cui si afferma che la democrazia non esiste e non è mai esistita. Sul filo della ironia Odifreddi torna sulla uscita di Massimo Cacciari sul tema vaccini e ricorda la “insolita” editoria di Roberto Calasso, fondatore di Adelphi, deceduto in questi giorni. I due uniti, secondo Odifreddi, avrebbero reso traballanti le basi della scienza facendosi assertori di un “umanesimo nichilista”(?) derivato da Nietzsche.

Nei scorsi giorni la cronaca ha accomunato due intellettuali di rilievo del nostro Paese, il filosofo Massimo Cacciari e lo scrittore Roberto Calasso: il primo, per un suo improvvido intervento sul supposto totalitarismo delle misure anti-Covid, e il secondo, per la sua inaspettata morte, in coincidenza con la pubblicazione dei suoi due ultimi libri di memorie.

Piergiorgio Odifreddi

Benché casuale nei fatti, il collegamento tra Cacciari e Calasso è in realtà causale dal punto di vista culturale, e non solo perché il secondo è l’editore di una dozzina di libri del primo. Ad esempio, le vite di Cacciari e della casa editrice di Calasso affondano entrambe le loro origini nel pensiero di Nietzsche. Il primo ha dichiarato a un’intervistatrice del Corriere della Sera, che gli aveva domandato come mai non si fosse sposato e non avesse figli, che “bisogna aver letto Nietzsche per capire cosa significa dire di sì o essere padre” (whatever it means, commenterebbe il principe Carlo). Il secondo ha invece fondato, insieme a Bobi Bazlen, la casa editrice Adelphi proprio per pubblicare l’opera omnia di Nietzsche, rifiutata da Einaudi, e poi ha continuato a pubblicare “solo libri che ai due piacevano moltissimo”. Ora, non c’è bisogno di aver letto l’opera omnia di Nietzsche per sapere che uno dei suoi detti più memorabili e influenti per una certa cultura, che è appunto quella di Cacciari e Calasso, è: “Non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Detto altrimenti, la scienza non conta nulla, perché si basa appunto su fatti che non ci sarebbero, e conta solo l’umanesimo, che fornisce le interpretazioni chiamate “valori”. In particolare, le opere che i due intellettuali hanno scritto individualmente, e quelle che il secondo ha pubblicato editorialmente, costituiscono le “icone della legge” della religione antiscientista “alta” che impregna il mondo culturale italiano, e poi percola fino all’antiscientismo becero della massa di coloro che di libri non ne leggono nessuno, meno che mai quelli dell’Adelphi, ma trovano in Cacciari e Calasso la copertura per le loro superstizioni. Vedere, a riprova, l’uso che delle recenti uscite di Cacciari che è stato fatto sui social negazionisti del virus. Sia chiaro che non è qui in gioco la levatura culturale di Cacciari e Calasso.

Roberto Calasso (Photo by Elisabetta Villa/Getty Images)

Personalmente, io rimango ammirato sia dalla biblioteca del primo, che lui stesso ha mostrato in un episodio del programma La banda del Book di Rai5, facilmente reperibile su YouTube, sia dal catalogo dell’Adelphi, al quale io stesso ho attinto a mani basse nel corso degli anni. Il problema, a mio parere, non sta nel leggere i libri che Cacciari e Calasso hanno scritto o pubblicato, ma nel leggere solo quelli di quel genere, come fa una buona parte degli umanisti: cioè, nel credere che oltre all’umanesimo non ci sia nient’altro, o al massimo ci sia soltanto quella caricatura della scienza che alimenta una buona parte del (peraltro ristrettissimo) catalogo scientifico dell’Adelphi. L’astuzia editoriale di Calasso, che “infiniti addusse danni” alla cultura italiana, è stata di andare a cercare con il lanternino opere scientifiche borderline, che ben si sposassero con quelle dei filosofi e dei pensatori esoterici o new age che invece costituiscono il nocciolo duro delle pubblicazioni adelphiane.

Massimo Cacciari (AP Photo/Alberto Pellaschiar)

E così, mettendo fianco a fianco di ciarlatani come René Guénon o Elémire Zolla degli scienziati in libera uscita come il Pauli di Psiche e natura, il Capra del Tao della fisica, i Barrow e Tipler del Principio antropico o lo Zellini di La matematica degli dèi, l’Adelphi è riuscita a far passare l’immagine di una scienza con fondamenti metafisici traballanti e orientaleggianti, in perfetta sintonia con il pensiero indiano frequentato e praticato da Calasso stesso. Nella citata intervista televisiva Cacciari diceva di aver letto cinquanta volte L’uomo senza qualità di Musil. Ecco, se per un ingegnere l’Austria di un secolo fa era una Cacania, per le iniziali di Kaiser e König di Francesco Giuseppe, per uno scienziato anche l’Italia di oggi è una Cacania, per le iniziali di Cacciari e Calasso. Quest’ultimo giocò lui stesso più volte sulla propria iniziale nei titoli dei suoi libri, a partire da Ka, ma l’Italia rimane seriamente una Cacania culturale. E gli effetti si vedono e si sentono, purtroppo.

Articolo di Piergiorgio Odifreddi per la Stampa

CUBA E’ UNA FINZIONE

CUBA E’ UNA FINZIONE

……. Dietro la protesta si cela anche un linguaggio dei simboli.

Cuba porta il peso dello stigma, come ha detto Slavoj Zizek, (filosofo e psicanalista sloveno ndr) di vivere intrappolata nel sogno degli altri. Se abbiamo imparato l’arte della protesta, adesso bisogna imparare anche l’esercizio della traduzione della protesta.

La sintassi è ideologia, e il linguaggio si trova ascoltando nel profondo i fatti, non girandoci intorno. Si dà un nome alle cose accedendo, entrando, penetrando nella melma delle parole scomode che ci disorientano. Il nominare confonde. Il linguaggio non esiste in funzione nostra, è piuttosto il contrario.

Non possiamo coprirci con le parole come dietro a un velo, la parola è intemperie, e la verità comincia nel momento in cui il linguaggio ti lascia allo scoperto. Il problema con la grammatica che giustifica, anche se parzialmente, ciò che avviene a Cuba è che perpetua la disciplina dell’eufemismo, l’unica disciplina esistente nell’ambito cubano del reale, l’unica che sta dietro alle istituzioni dell’Isola.

Una volta ho letto che il cammino più breve tra due punti di dolore è la poesia. Quando prolunghiamo questo cammino, tra curve e curve, girando in tondo, stiamo uccidendo la poesia e, in questo modo, uccidiamo anche l’uomo. Cuba è una finzione, i cubani no. Chi traffica con le parole, traffica con la vita degli altri.

Ancora non sappiamo dove stiamo andando ma comunque è meglio così, piuttosto che sapere che prima dell’11 luglio non stavamo andando da nessuna parte.

Estratto dell’intervento su La Stampa dello scrittore Carlos Emanuel Álvarez 

UN INSOLITO MEDICO

UN INSOLITO MEDICO

La storia straordinaria di un insolito chirurgo

Che cosa porta una grande casa editrice come Bur a pubblicare, affidandosi a una penna conosciuta del giornalismo italiano, la biografia di un medico cattolico morto 22 anni fa in un incidente stradale? Che cosa spinge migliaia di persone a comprare, leggere, regalare la “storia di un insolito chirurgo” per cui la Chiesa ha introdotto da poco la causa di beatificazione? Per “Ho fatto tutto per essere felice” di Marco Bardazzi ( Bur, 232 pp., 16 euro) si può forse scomodare l’abusata formula di “caso editoriale”: la prima edizione era andata esaurita prima ancora che il libro uscisse, lo scorso 18 maggio. Stampata subito la seconda, a giugno c’è stato bisogno di farne una terza. Adesso viaggia verso la quarta edizione, è primo nello classifica Amazon dei libri sulla professione medica e sesto in quella delle biografie e autobiografie insieme a Giorgia Meloni, Matthew Mcconaughey e Edith Bruck. La vicenda umana e professionale di Enzo Piccinini, medico all’ospedale Sant’orsola di Bologna morto in un tragico incidente stradale nella notte tra il 25 e il 26 maggio 1999, non è il santino polveroso di un uomo pio da agitare come buon esempio, ma la documentazione travolgente del fatto che un cristiano è una persona che vive con intensità ogni circostanza della vita. Nato in una famiglia di origini contadine nella Bassa emiliana nel 1951, Piccinini sfiora a Reggio Emilia l’estremismo di sinistra che sfocerà nelle Brigate Rosse a inizio anni Settanta.

Ezio Piccinini (a dx) con don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione

E’ lì che incontra un gruppo di ragazzi cattolici che lo colpisce per il modo di stare insieme e per la serietà dell’impegno, anche pubblico – “Voglio solo conoscervi”, dice a chi lo guarda male per le sue frequentazioni marxiste, “Tenetemi con voi una volta”. Quel tenetemi con voi diventa una vita, una “febbre di vita”: l’allora futuro medico chirurgo si fa conquistare e inizia a conquistare con il suo temperamento focoso e straripante molti che ne intercettano l’esistenza. Ha un’ossessione, Piccinini, vivere ogni istante più intensamente di quello prima, e sa che “non c’è niente di più anticristiano di chi cerca di mettersi a posto la vita”, e nulla di più pericoloso dell’individualismo e della solitudine. Per questo non fa un passo senza gli amici, la compagnia, con cui giudica ogni aspetto della propria vita, dal lavoro al suo matrimonio, per questo si impegna in università, nella cultura, nello spazio pubblico ( pagandone le conseguenze a livello di carriera), per questo chiede di essere continuamente corretto. Lo fa innanzitutto nel rapporto con don Luigi Giussani, il sacerdote fondatore di Comunione e liberazione che per Enzo diventa un padre. Folgorato dalla lettura di “Corpi e anime”, romanzo di Maxence Van Der Meersch sulla professione medica, Piccinini sarà un chirurgo sui generis, certo che la cura di un malato passa dall’utilizzo delle tecniche scientifiche migliori – e per questo non smetterà di studiare, approfondire, aggiornarsi viaggiando all’estero – e dall’occuparsi dei pazienti in tutta la loro umanità, dal tenere un rapporto con le persone a loro care, al dialogo costante per affrontare la paura del dolore e le domande sul mistero della morte.

Mai da solo, Piccinini ha trasmesso la sua febbre di vita a un popolo di amici e persone che gli volevano bene, a cominciare dai colleghi che hanno cambiato a loro volta il proprio modo di lavorare e trattare i pazienti. Una vita consumata alla ricerca della felicità, certo che questa fosse nel rapporto “carnale” con Dio. Una vita che ha lasciato frutti ben visibili ancora oggi in molte opere. E un invito, semplice ma decisivo: “Mettere il cuore in quel che si fa. Perché il cuore esige un orizzonte che è più grande della voglia e dell’immaginazione dei più. E mettere il cuore in quel che si fa esalta l’io”. Che cosa spinge migliaia di persone a comprare, leggere, regalare la“storia di un insolito chirurgo”, se non l’invidiosa curiosità per una vita spesa per essere felice?

E’ in libreria “Ho fatto tutto per essere felice”, di Marco Bardazzi ( Bur, 232 pp., 16 euro). Grafica di Enrico Cicchetti

Articolo di Pietro Vietti per il Foglio QuotidianoIn copertina un’opera di Tonino Guerra

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