LA CURA DELLA VITA

LA CURA DELLA VITA

La cura della vita: Cechov, Céline e Carlo Levi. La letteratura come medicina nel libro di Filippo La Porta

Uno dei pregi più evidenti della saggistica di Filippo La Porta è la sua fluente leggibilità. Sia che l’autore ragioni di Dante, di Nicola Chiaromonte o di patrie e radici da costruire, la sua prosa mai si incricca e mai si impaluda, rinsaldando ogni volta la certezza che il linguaggio esoterico resterà, per fortuna, fuori dalle sue pagine, ovviamente a tutto vantaggio del lettore, che potrà gustarsi in pace le polpe essenziali che costituiscono la miglior saggistica: una costruzione accurata ed ergonomica del discorso, un’amabilità colta e divagante, un’invidiabile capacità sintetica di emblematizzare l’essenziale.

“L’impossibile ‘ cura’ della vita – Cechov, Céline e Carlo Levi, medici scrittori coscienziosi e senza illusioni” (Castelvecchi, pagg. 84, euro 12,50) è un testo la cui agilità non impedisce di intravedere la complessa elaborazione – “durata anni”, racconta La Porta, per lo meno nell’idea di affrontare questi tre autori, “i miei più amati” –, che avvia una collana pubblicata in collaborazione con l’associazione scientifica e culturale no profit Sagen (Salute, Ambiente, Genoma) e che ha l’obiettivo di prendere per le corna l’indocile toro delle questioni essenziali della vita, certamente in relazione al rapporto medicina e vita, medicina e scrittura, medicina e mortalità, ma, più in generale, mirando a stimolare il lettore a farsi domande sul modo – individuale e collettivo – di concepire il proprio transito nel mondo.

“Il Fedro,” racconta La Porta, “dice che il corpo è multiforme, e io ho pensato che anche le nostre narrazioni dovessero esserlo. La collana ospiterà diari, romanzi, memorialistica, saggistica, sia di medici, sia di pazienti”. Un saggio, dunque, che parte da una passione letteraria ( tre autori amati), attraversa una necessità filosofica fattasi editoriale ( la multiformità come approccio e risposta) ed è innervato da un’esigenza anche personale. “Con l’età”, dice La Porta, “aumenta la contezza del limite. Da giovane, alla domanda sulla morte, rispondevo con Orson Welles ne ‘ La ricotta’: ‘ Come marxista, è un fatto che non prendo in considerazione!’”. Un testo che farà la gioia di coloro i quali credono che alla letteratura spetti, come alla medicina, il compito dei compiti: saper guardare, svelare e curare, partendo sempre dall’assunto sveviano che è la vita, la vera malattia incurabile.

Durante il recente lockdown, la nostra reazione con la clausura forzata e quella che abbiamo chiamato “la sospensione della vita” ci ha messo in mano uno specchio. Lì dentro c’era, c’è, il ritratto impietoso della nostra relazione con la mortalità – il tema dei temi, l’inaggirabile tormento, l’ele – fante nella stanza, se non, addirittura, la stanza stessa. Ecco, questo saggio di La Porta – vitalissimo – sembra tener conto di tutto questo, e sprizza volontà intellettuale, voglia di farsi domande e di ritrovare, se è possibile, quel filo che, un tempo, compaginava la cultura scientifica e quella umanistica. Convinto che ai libri sia necessario chiedere una ragione di vita e che l’in – guaribile infermità della condizione umana incomba su Utopia e Politica, La Porta esplora il nesso tra la cultura medica di Cechov e la sua narrazione, tra quella di Céline e il degrado e la corruzione ( ideologica, storica, umana), fino a ribadire la centralità novecentesca del non abbastanza indagato Carlo Levi ( bellissimo il capitolo sugli Allergici e i Diabetici, sintesi dell’esi – stenza).

Ma ciò che, qui e altrove, distingue sempre La Porta da altri saggisti è tanto l’orizzonte ( sempre collettivo), quanto la domanda ( continua) su come portare avanti un’eredità e dar nuova vita, nel presente e nel futuro, ai capisaldi di un passato che ha vissuto il proprio culmine nell’umanesimo. La domanda cui è interessato è sempre “come trasformare un libro in un’azione della vita?”, sicuro, insieme a Flaubert, che “se una cosa è scritta male è falsa; se è scritta bene, contiene una verità”. E che la salute non è eliminare il male, ma dargli un significato.

Articolo di Marco Archetti per il Fatto Quotidiano

NON VOGLIO ANDARE OLTRE

NON VOGLIO ANDARE OLTRE

«Soffro troppo, lo Stato mi lasci morire»: l’appello di Mario, 43enne marchigiano, tetraplegico dal 2010 dopo un incidente. Ha chiesto di accedere al suicidio assistito. «L’ho detto ai miei familiari e hanno capito».

«Se io potessi prenderei tutti i medicinali della sera, li metterei in un bicchiere e li manderei giù, ma non posso farlo da solo. Se un uomo dice una cosa del genere è perché è arrivato al limite. Come fanno a non capirlo?».

Come fanno chi? La Asl?

«Sì, la Asl. Prima la Corte Costituzionale e poi il Tribunale di Ancona hanno detto che devono farmi questa benedetta visita medica e invece loro non la fanno».

E se non la fanno non innescano i passaggi verso il suicidio assistito.

«Esatto. Se non la fanno e non mandano l’esito al Comitato etico non si può stabilire se ci sono o no i requisiti per il suicidio assistito, di conseguenza nessun medico può prescrivermi il farmaco letale. In pratica la Asl mi sta dicendo: puoi soffrire ancora. Anzi, di più, mi indica la strada che dovrei percorrere».

Che sarebbe?

«Secondo loro se proprio voglio morire posso sempre accedere alle cure palliative. Ma perché? Quella morte è dignitosa? Fine dei trattamenti e sedazione profonda: potrei durare giorni, incosciente e disidratato, consumarmi sotto gli occhi di mia madre, mio fratello, i miei amici… Perché non darmi la pozione letale? Facciamo questa visita, vediamo se ho i requisiti per morire (e io sono sicuro di sì), prendo il farmaco e muoio in pochi minuti, con dignità».

Maglietta azzurra e gambe immobili infilate in un paio di jeans, quest’uomo parla di dignità e fine vita con la dolcezza di un innamorato che parla della sua amata. Non c’è niente di disperato, non c’è depressione e non c’è lamento in quel che dice. Solo la consapevolezza di aver assaporato ogni frutto possibile della sua vita, di «averle provate tutte per vedere fin dove potevo arrivare», come dice lui, «e ora non posso e non voglio andare oltre». In questo racconto si chiamerà Mario ma non è il suo nome. Vive nelle Marche, 43 anni. Era un trasportatore.

Luca Cappato

Mario, com’è diventato tetraplegico?

«È stato una sera d’autunno del 2010, tornavo a casa in macchina. Su un rettilineo un’auto che veniva dall’altra parte ha invaso la mia corsia e io ho sterzato d’istinto, ho preso il palo della luce, l’albero, il casottino dei bagni pubblici…».

Quando ha capito di essere paralizzato?

«Subito. Ricordo che provavo a prendere il marsupio per chiamare casa e ho realizzato che non muovevo più niente. Sono arrivati due ragazzi a soccorrermi e io capivo che stavo per morire, mi mancava l’aria. Gli ho detto: non mi toccate, credo di essermi rotto l’osso del collo. E poi ho chiesto una sigaretta. Per me era l’ultimo desiderio, e mentre quei due mi tenevano la sigaretta per farmi fare i tiri io dicevo: dite a casa che gli voglio bene».

E invece l’hanno salvata.

«Dicevano tutti che sarei morto, ero in condizioni molto critiche. Sono stato in coma farmacologico. Sa quando gli infermieri ti aprono l’occhio e ti chiamano per nome? Forse in quel momento il cervello si attiva perché quando mi sono svegliato avevo in testa un miscuglio di situazioni che erano un po’ quel che sentivo dire e fare attorno a me e un po’ no. Ho vissuto giorni di semirealtà, surreali».

In che senso?

«Chiedevo di essere addormentato ogni volta che mi svegliavo, sognavo che ero morto, tumulato, il funerale. Qualcuno chiudeva il coperchio della bara e io attraversavo il centro della terra ed entravo in un mondo meraviglioso: sole, animali, natura, momenti bellissimi. Poi riaprivano il coperchio e tornavo indietro nella realtà. Vedevo i miei e non capivo. Sono morto? Lo sono anche loro? Ero intubato, non parlavo, sono stati giorni davvero strani. Sono tornato a casa a luglio del 2011, fra i ricoveri successivi ci sono tre mesi di riabilitazione in cui ho ottenuto questo».

Muovere il braccio destro.

«Sì, lo alzo con la forza della spalla e questo mi serve per usare il mignolo. Si solleva il braccio e quando lo lascio ricadere il mignolo batte sulla tastiera del computer, del telefonino, del telecomando. È il mio unico movimento».

Quando ha deciso di voler morire?

«Nel 2015. Una domenica pomeriggio ero con babbo, in cortile. Mi ha chiesto che intenzioni avessi per il futuro e gli ho risposto: finché riesco vado avanti, poi faccio di tutto per avere il suicidio assistito in Italia, se non ci riesco vado in Svizzera. Io so che lui ha capito, è morto l’anno dopo».

A sua madre come l’ha detto?

«Quando è morto in Svizzera Fabiano (dj Fabo, ndr) tutti parlavano di lui e io le ho detto: è la fine che andrò a fare io, mamma. So che poi starà male ma nessuno più di lei sa come sto io, quello che patisco. Dolori, contrazioni, umiliazioni del corpo, fatica, infezioni, problemi al catetere…».

Quindi ha abbandonato l’idea di andare in Svizzera?

«Mi ero dato una scadenza: dovevo mettere da parte 13 mila euro che servivano e poi sarei partito. Mi sono informato, iscritto, ho mandato i documenti, ho ottenuto il primo semaforo verde. A settembre 2020 ero pronto».

E poi ha rinunciato?

«No. Ho cercato Marco Cappato per ringraziarlo per quello che fa per gente come me. E lui mi ha detto: dopo la sentenza della Consulta hai una possibilità anche in Italia. E così mi sono legato all’Associazione Coscioni, ho iniziato

Le giornate a letto

Chi pensa che io abbia torto a non voler vivere? Venga a casa mia una settimana, poi capirà

a sentire Filomena Gallo, avvocata e segretario dell’Associazione. Insomma: ho cominciato a sperarci, mentre le difficoltà fisiche crescevano».

Chi altro sa della sua scelta di morire?

«Mio fratello, i 3-4 amici di sempre e le persone più care che mi hanno aiutato in questi 11 anni. Li ho chiamati uno ad uno e ho spiegato perché. Ho detto a tutti la stessa cosa: io non piango, non urlo di dolore, non mi lamento, a volte scherzo perfino, ma voi mi vedete un’ora e poi tornate alle vostre vite, le altre 23 sul letto ci sto io e le giornate sono lunghe, con la sofferenza addosso sono infinite».

Cosa vuol dire a chi nella Asl le nega quella visita?

«Che sta facendo una cosa grave, sta negando un mio diritto. Filomena Gallo ha inviato una notifica e una diffida: hanno pochi giorni per darsi da fare, poi mandiamo avanti la denuncia penale per omissione di atti d’ufficio. E c’è un’altra cosa che farei: inviterei a casa mia chi pensa che io abbia torto a non voler vivere. Chiunque tu sia ti invito: stai accanto a me per una settimana. Poi capirai».

Articolo di Giusi Fasano per la Stampa

SOGNATORE ERRANTE

SOGNATORE ERRANTE

Il padre della corrente alternata, che ha trasformato il corso del progresso, visse solitario tra un albergo e l’altro in compagnia dei suoi unici amici: i piccioni. Storia di una mente eroica

Nell’arco della sua carriera, tra il 1886 e il 1928, depositò circa 280 brevetti in 26 paesi ( Wikipedia)

L’inizio, è proprio il caso di dirlo, è folgorante. Sulla piccola cittadina di Smiljan, in Croazia, la notte del 10 luglio 1856 si abbatte un fragoroso fortunale. Non è il classico temporale estivo, sembra un flagello biblico, con raffiche di vento e muri d’acqua e grandine. Nella sua casa, distesa sul letto, una donna si contorce per i dolori del parto imminente. L’atmosfera non è delle più propizie per un evento del genere: rumore infernale, porte che sbattono, vetri che scoppiano, candele che si spengono, buio totale. A mezzanotte in punto le urla della puerpera vengono inghiottite dal rombo di un tuono e sovrastate dalla deflagrazione di un fulmine che si è abbattuto nel bosco vicino: illuminato dal riflesso della saetta, il suo bambino appena nato. La prima luce che gli occhi di Nikola Tesla vedono, è una formidabile scarica elettrica in cielo. Per il resto della sua vita, inseguirà quel prodigio.

Nikola Tesla

Sin dall’infanzia il piccolo Nikola soffre di una strana sindrome che gli consente di vedere, al buio, gli oggetti. Di sentirli. E’ lui stesso a spiegarcelo, nella sua autobiografia: “Durante la mia giovinezza ho sofferto di un particolare disturbo dovuto alla comparsa di lampi di luce che compromettevano la vista degli oggetti reali e interferivano con i miei pensieri e le mie azioni. Erano riproduzioni di cose e situazioni che avevo visto realmente, e mai solo immaginato. Avevo circa dodici anni quando per la prima volta riuscii intenzionalmente a scacciare una delle mie immagini dalla vista, ma sui lampi di luce non ho mai avuto alcun controllo. Sono stati, probabilmente, l’esperienza più strana e inspiegabile della mia vita”. I lampi. Se crediamo alla predestinazione, è ovvio che il “disturbo” sia frutto di quel battesimo di fuoco, ma forse più attendibile sarebbe un’eziologia neurologica, seppur mai diagnosticata. Certo è che quel ragazzino non assomiglia a nessuno. Innanzitutto è dotato di una memoria prodigiosa che gli permette di archiviare nel cervello centinaia di volumi letti voracemente, sette lingue imparate alla perfezione insieme a un’infinità di calcoli effettuati in automatico e dei quali non può fare a meno: il volume degli oggetti, la loro circonferenza, il peso, la misurazione delle distanze. Ma anche il numero di passi, i gradini di una scala, le posate sul tavolo… A ogni oggetto o evento corrisponde un numero. In questa selva di cifre, l’ossessione regina è il multiplo di tre. Tutto ciò che può dividersi per tre gli dà sollievo: “Ogni atto o azione reiterata che compissi doveva essere divisibile per tre e se fallivo sentivo di dover rifare tutto da capo, avessi dovuto metterci delle ore”. Il cervello di Nikola Tesla è una fornace sempre accesa, un ingranaggio complesso a moto perpetuo. Il problema è riuscire a star dietro a tutte le idee che zampillano dalle meningi e che si affastellano una sull’altra. Alcune emergono e si concretizzano, altre permangono nel suo immaginario ed esistono solo per lui.

Sarà la sua forza e la sua condanna. Molte delle invenzioni partorite dalla sua mente, decisive per il progresso umano, verranno realizzate da altri. Qualche esempio? I raggi X, la radio, il telecomando, internet, il wi- fi…

Ma andiamo per gradi.

Nikola non ha tempo per le amicizie e men che mai per l’amore. La sua mente punta all’ultraterreno, gli elementi con cui si confronta sono le forze primigenie della Natura, i movimenti tellurici, il cosmo. L’interesse per la matematica e la fisica cresce a dismisura, come il suo corpo del resto, che ben presto raggiunge i due metri di altezza. E’ tutto troppo piccolo quel che lo circonda, il mondo intero lo aspetta. Ottenuto il diploma in Matematica e fisica al Politecnico di Graz, Nikola si trasferisce a Parigi per studiare Filosofia. Nel frattempo ha già ideato una quantità inverosimile di progetti, ma sembra concentrarsi soprattutto su uno: lo studio della corrente alternata ( sarebbe più corretto dire l’invenzio – ne, poiché nessuno l’aveva ancora concepita), una di quelle cose che hanno il potere di cambiare il destino del mondo. A Parigi il giovane scienziato viene assunto alla Continental Edison Company, dove realizzerà il primo motore a induzione di corrente alternata: la costruzione del macchinario non viene preceduta da alcuno schizzo o disegno tecnico preparatorio: le immagini vivono nitide nella sua mente, e dunque, per lui, già esistono. Basta solo riprodurle, la fase progettuale sarebbe un inutile dispendio di energie ( cosa che renderà difficile ogni futura collaborazione con altri inventori, e il rapporto con i committenti).

Sin dall’infanzia il piccolo Nikola soffre di una strana sindrome che gli consente di vedere, al buio, gli oggetti. Di sentirli:

“Ogni atto o azione reiterata che compissidoveva esseredivisibile pertre e se fallivo sentivo di dover rifare tutto da capo, avessi dovuto metterci delle ore”

Ottenuto il diploma in Matematica e Fisica al Politecnico di Graz, si trasferisce a Parigi per studiare Filosofia. L’orizzonte si amplia, Nikola lascia l’Europa e si imbarca per gli Stati Uniti. Si presenta da Thomas Edison, l’indiscusso padrone dell’elettricità, e gli sottomette timidamente il suo curriculum. Il ricco e potente inventore americano, fautore della corrente continua, non sembra dar molto credito a quel giovane allampanato, ma si palesa subito un’occasione per metterlo alla prova: le dinamo di un piroscafo fornite dalla sua società hanno avuto un guasto, a Tesla il compito di ripararle. Problema risolto in men che non si dica, il ragazzo è assunto. La causa del guasto rafforza la convinzione che i limiti della corrente continua risiedano nella sua unidirezionalità: secondo Tesla le elevate tensioni non sopportano la lunga distanza, e i grossi cavi che la veicolano rischiano di incendiarsi. Da qui la proposta di sostituirla con una corrente che cambia la sua direzione, invertendola. Ciò garantirebbe una diminuzione di dispersione e un notevole risparmio. “Mi lasci provare”. “Intanto provi a migliorare le prestazioni del sistema esistente. Se ci riesce, cinquantamila dollari tutti per lei”, garantisce Edison con una stretta di mano. E Tesla, dopo mesi di lavoro stremante, ci riesce. L’intervento sul generatore ha mantenuto le promesse. Chi non le mantiene è invece Edison, che da questo momento in poi ricoprirà un ruolo per cui l’attore ideale sarebbe Edward G. Robinson, avete presente? “Davvero ha creduto al premio di cinquantamila dollari? Si vede che non conosce l’umorismo americano”. Un vero bastardo, insomma.

Thomas Edison

Nella storia del progresso c’è sempre un inventore idealista che viene travolto da un omologo affarista, pensiamo alla puttanata che Bell fece al nostro Meucci. Se nella mente di ognuno di noi la parola elettricità viene automaticamente associata al cognome Edison lo si deve a una delle più grandi imprese commerciali di tutti i tempi, giacché l’americano, una volta subodorata l’im – mensa potenzialità della corrente alternata comprò la quasi totalità degli impianti. Ma il nome che ciascuno di noi avrebbe dovuto mandare a memoria è invece quello di Nikola Tesla. Pensateci quando accendete una lampadina ( ma anche quando usate il cellulare, collegate il wi- fi, vi fate una lastra…)

Tesla continua a lavorare al suo progetto malgrado la fine dei rapporti con Edison. Va in cerca di finanziatori che a loro volta si approfittano di lui senza riconoscergli il dovuto. Sbatte di nuovo la porta e si ritrova senza un soldo. Per sbarcare il lunario accetta di lavorare per un’impresa edile e lì, inaspettatamente, arriva la svolta: il capo cantiere lo mette in contatto con il direttore della Western Union Telegraph Company, chissà che non sia interessato alle sue invenzioni? E’ l’interlocutore giusto, gli mette a disposizione un laboratorio per continuare i suoi studi. Fioccano brevetti, conferenze e dimostrazioni pubbliche che accrescono la fama dello scienziato e catturano l’attenzione di George Westinghouse (un altro nome associato ad apparecchi che noi tutti conosciamo), storico rivale di Edison, che intuisce le potenzialità della corrente alternata e dà fiducia all’immigrato serbo. Si tratta dell’incontro decisivo.

Tesla passa dunque alla concorrenza in qualità di consulente, la qual cosa scatena le ire di Edison che contrattacca nel suo stile infingardo, promuovendo una campagna diffamatoria nei confronti delle pretese virtù della corrente alternata. Ogni mezzo è lecito. Prima mossa: dimostrare pubblicamente la pericolosità del sistema. Le cavie saranno cani e gatti che cittadini senza cuore sono disposti a procurargli per pochi dollari. Dopo aver attaccato degli elettrodi alle povere bestiole, Edison e compari azionano il dispositivo e le friggono davanti agli occhi sorpresi (ma anche divertiti) degli astanti. L’idea è efficace ma non basta. Bisogna inventarsi una dimostrazione più eclatante. La seconda mossa la offre una notizia apparsa sul giornale: il vecchio elefante del lunapark di Coney Island dovrà essere abbattuto per aver calpestato e ucciso tre domatori abusivi (uno dei quali gli aveva lanciato una sigaretta accesa in bocca). Se anche un gigantesco animale soccombe alle scariche, pensa Edison, la discussione si chiude. Quindi si offre come boia, e già che c’è decide di riprendere lo spettacolo con le cineprese appena inventate, a beneficio dell’intero paese. Una scarica da seimila volt, e il pachiderma si affloscia a terra come un canotto bucato. Non contento, punta più in alto (forse sarebbe meglio dire più in basso): saputo della condanna a morte inflitta a un detenuto nella prigione di Sing Sing, propone “l’innovativa” sedia elettrica in alternativa alla consueta impiccagione. La pubblica tortura (l’uomo avrà bisogno di due scariche da 2.000 volt, e ciò che gli “spettatori” vedranno sarà terrificante) rappresenterà, secondo lui, la prova definitiva che annienterà, oltre al condannato, i sogni di gloria di Tesla. ….

Nonostante i tentativi per delegittimarla, la corrente alternata si rivela comunque al mondo, che da quel momento non potrà più farne a meno. Tesla organizza una “tournée” dimostrativa negli Stati Uniti e in Europa. Il suo penchant istrionico, in opposizione con l’indole solitaria è una delle caratteristiche più affascinanti del suo carattere ( e anche la più dileggiata dai suoi detrattori). Gli spettacoli di Nikola Tesla sono una straordinaria manifestazione di genio e follia: si presenta in scena indossando un elegantissimo frac. E’ sottile come un giunco, la tuba sul capo lo fa apparire ancora più alto. Scarpe di vernice con suola in sughero isolante, cravatta bianca e baffi impomatati: un Mandrake ante litteram. E proprio come un mago, Tesla produce incantesimi mediante i misteriosi strumenti che lo circondano sul palcoscenico: lampade fluorescenti, tubi luminosi (i futuri neon), ingranaggi prodigiosi capaci di generare lampi che attraversano il suo corpo, vibrante sotto una pioggia di scintille. L’uomo è vivo e vegeto, è questo lo scopo del suo show. La corrente alternata non uccide. Terminato lo spettacolo, Tesla si dilegua per evitare l’assalto del pubblico che vuole stringergli la mano. Maneggiare correnti che superano i 200.000 volt è molto meno spaventoso di germi e batteri. Le sue fobie, malgrado il successo e i riconoscimenti, sono aumentate: odia i gioielli (le perle in particolare), ha il terrore dei microbi, i capelli altrui gli fanno senso, idem le persone sovrappeso. Gli unici esseri viventi dei quali brama la compagnia sono gli uccelli, soprattutto i piccioni ( tanto per non smentire la sua indole contraddittoria, essendo quei volatili un ricettacolo di batteri…). Una passione che nel corso degli anni diventerà sempre più ossessiva e problematica….

Appena possibile si rifugia nella sua suite al Waldorf Astoria ( per tutta la vita ha vissuto negli alberghi) dove dorme da solo, mangia da solo (sul suo tavolo esige ventuno – multiplo di tre – tovaglioli, con i quali strofinerà meticolosamente posate, piatti e bicchieri, naturalmente dopo averli contati). La sola cosa che non conta (e non solo in senso figurativo) sono i soldi. Esemplare il suo nobile ( e folle) distacco in questo episodio, che più di ogni altro rivela la personalità di un essere più unico che raro: nel riordinare i fascicoli, i contabili di Westinghouse (con il quale Tesla collabora ormai da anni) scoprono l’esistenza di un vecchio contratto stipulato quindici anni prima e mai onorato, secondo il quale Tesla avrebbe dovuto percepire la modesta somma di due dollari e mezzo per cavallo vapore di potenza elettrica venduto. I poco lungimiranti tecnici non avevano previsto che nel giro di pochi anni le vendite avrebbero raggiunto cifre vertiginose. Secondo questi calcoli la Western Union di George Westinghouse sarebbe debitrice di un totale di dodici milioni di dollari (dell’epoca!) per i diritti maturati da Tesla e mai riscossi. Un esborso che avrebbe gettato l’azienda sul lastrico e reso Tesla uno degli uomini più ricchi del mondo. Westinghouse, per signorilità, ma anche per timore di una causa legale ancora più temibile, mette al corrente il suo dipendente ( fosse stato Edison avrebbe fatto sparire il vecchio contratto, magari in un incendio…), forse per tentare una mediazione. E qui la grandezza dell’uomo supera quella del geniale inventore: “Signor Westinghouse, voi siete l’unico che abbia creduto in me, vi chiedo solo di permettere al mondo di usufruire della mia invenzione”. Ciò detto, strappa il contratto, e con la mano guantata stringe quella del suo benefattore. Non parliamone più. Per l’acquisizione di tutti i suoi diritti accetterà la somma di 198.000 dollari senza nulla pretendere su eventuali interessi futuri….

George Westinghouse

Così come appare scontato lo scontro fra il genio puro, disinteressato, e quello proteso al profitto, altrettanto prevedibile è il discredito seguito all’imperdonabile successo. Malgrado l’ammirazione di illustri personalità quali Mark Twain o Rudyard Kipling (i quali ne avevano senza dubbio colto la statura da grande personaggio letterario), i detrattori di Tesla, molti dei quali membri della comunità scientifica, puntano il dito sul comportamento eccentrico del – possiamo dirlo? – nostro eroe. Le pubbliche esibizioni, la vita ritirata, l’assenza di presenze femminili, le fobie e la megalomania lo rendono un facile bersaglio. Imprevedibile, di difficile classificazione, è uno fuori controllo, e dunque pericoloso. Se da un lato lo scherniscono, dall’altro lo tengono d’occhio giacché le sue strampalate teorie nascondono segreti che potrebbero valere un patrimonio se il monopolio americano dell’elettricità fa capo a Westinghouse, il merito è di Tesla…). Ma lui se ne infischia e continua a depositare brevetti straordinari (ne colleziona oltre trecento) che vanno dal motore elettrico agli aerei a decollo verticale, dall’orologio elettronico al tachimetro delle automobili. Ma l’obiettivo principale, verso cui Tesla dirige tutte le sue forze, è quello di riuscire a fornire all’umanità energia elettrica illimitata. A costo zero. Sarà la natura stessa a dispensarla attraverso la crosta terrestre: si tratta solo di veicolarla. Un progetto che comincia a prendere corpo in Colorado, dove Tesla si rifugia a seguito dell’incendio del suo laboratorio ( sarà difficile dimostrarne l’origine dolosa e molto più semplice imputare la colpa allo “scienziato pazzo”…). Sulle montagne del Colorado, gravide di elettricità statica, Tesla mette in campo esperimenti sulle onde elettromagnetiche presenti in cielo e in terra. Per diffonderle fa costruire un enorme trasmettitore (the Magnifying Transmitter), la versione amplificata della famosa Bobina di Tesla, un congegno in grado di generare milioni di volt di tensione, in pratica un simulatore di temporali. Eccitato dalla prospettiva, si fa prendere la mano e una notte che gli abitanti del luogo faranno fatica a dimenticare, scatena un putiferio di fulmini che fa saltare per aria il generatore di corrente di Colorado Springs. Un colossale black out che mette fine agli esperimenti.

Allo scoccare del nuovo secolo, il 3 gennaio 1900, Tesla torna a New York: ha in mente un nuovo, avveniristico progetto. Una torre alta sessanta metri che consentirà la trasmissione transatlantica di energia e segnali radio a beneficio della telefonia commerciale e della radiodiffusione. I fondi necessari alla realizzazione della Wardenclyffe Tower sono ingenti, si fa avanti J. P Morgan (altro nome familiare…), allettato dalla prospettiva di un monopolio delle comunicazioni, il solo campo che ancora non ha conquistato: è il finanziere più potente al mondo, un impero costruito su petrolio, carbone, gas, trasporti, immobili e molto altro. Morgan mette a disposizione 150.000 dollari, la colossale impresa ha inizio, Tesla ci lavora giorno e notte per quattro anni. In tutto questo tempo omette di rivelare al magnate finanziatore il vero scopo, o meglio il chiodo fisso che lo ha spinto a ideare la torre, vale a dire l’utilizzo gratuito dell’impianto, che per tale ragione non prevede un contatore. “L’energia deve essere regalata, non venduta”. Come pensate abbia reagito lo squalo della finanza? Fine delle sovvenzioni. L’utopistica visione del mondo di Tesla s’infrange contro la realtà che nel frattempo va avanti con le sue regole ferree, relegandolo sempre più ai margini. C’è da dire che la torre mirabolante crolla anche per via dell’annuncio del brevetto di Guglielmo Marconi che proclama l’invenzione della radio. In quanto connazionale tale conquista ci rende fieri, lo saremmo un po’ meno sapendo che uno dei brevetti di Tesla fu inviato all’inventore italiano in forma anonima qualche anno prima, e certamente non consola il fatto che quarantadue anni dopo, a sette mesi di distanza dalla data della sua morte, la Corte suprema abbia riconosciuto il primato cronologico dello studio sulle onde radio a Nikola Tesla.

Nel 1917 la torre venne abbattuta dai Marines con la dinamite, e i rottami venduti durante la Seconda guerra mondiale. E’ la consacrazione di un fallimento.

Il già provato equilibrio psichico di Nikola Tesla si sfascia. Gli “esaurimenti nervosi” che lo affliggono ciclicamente da quando era bambino sono ormai più potenti della “forza di volontà” che dispiegava per contrastarli. Deve risanare una montagna di debiti e nessuno è più disposto a finanziare le sue idee che si rivelano sempre più deliranti. La convivenza con i piccioni si fa sul serio morbosa, li nasconde nelle stanze degli alberghi che a turno è costretto ad abbandonare per insolvenza, e per evidente disobbedienza al regolamento interno. E’ sempre più magro, si nutre solo di verdure bollite e latte tiepido. Parla da solo.

Il 7 gennaio del 1943, sulla stampa americana, esce la seguente notizia: “Nikola Tesla died quietly and alone in room 3327 on the 33rd floor of the Hotel New Yorker in New York City. The coroner would later estimate the time of death at 22.30. He was 86 years old”.

Soltanto il nome. Non è un caso che nessun titolo preceda il nome di Nikola Tesla, l’uomo indefinibile, inclassificabile. Scienziato, inventore, mago, ciarlatano, pazzo, visionario, veggente. Personaggio grandioso che ha ispirato scrittori e registi (anche se un grande film su di lui non è ancora stato realizzato. Io ci vedrei Nole Djokovic nel ruolo del protagonista, e non soltanto per le origini serbe). Il visionario regista americano Christopher Nolan ha avuto la giusta intuizione di offrire il ruolo di Tesla a David Bowie nel suo film “The Prestige”, ma si tratta solo di un cameo, Tesla non è una figura centrale del film.

Un’unità di misura dell’induzione magnetica porta il suo nome, e un cratere lunare, situato nella parte nord occidentale della faccia nascosta della luna. Ma ciò che forse si avvicina maggiormente al suo spirito e che di certo lui avrebbe apprezzato, è una statua in bronzo con le sue fattezze, dispensatrice di wi-fi gratuito. Si trova a Palo Alto, nella Silicon Valley.

Francesca D’Aloia per Il Foglio

LA TV A MILLELIRE

LA TV A MILLELIRE

Quando si incontrano due persone come il giornalista Domenico Iannacone e l’editore Marcello Baraghini la scena si fa allettante e la televisione pubblica riesce a far apprezzare la sua vera natura di servizio culturale, ben diversa da quella commerciale. Ma chi sono costoro?

Domenico Iannacone è da parecchi anni in RAI, dopo un apprendistato in terra molisana. Noto come autore e conduttore, è attualmente impegnato nel programma Che ci faccio qui io, storie di persone, spesso esemplari, quasi sempre visionarie, o testimoni di resistenza civile. A Iannacone piacciono i tipi curiosi, bordenline. Le persone, ama farle parlare, la fa con garbo, ma senza remissione, con un metodo che lui chiama socratico, incentrato sull’ascolto. E la gente si apre, parla e parla senza reticenze, perché si sente compresa, incoraggiata. La sua testa lucida, lo sguardo accondiscendente, l’espressione assorta ne fanno l’ideale confessore, se non proprio un confidente.

Domenico Iannacone

Quanto a Marcello Baraghini non è uomo che per parlare delle tante cose che ha fatto nella vita abbia bisogno di essere incoraggiato.

Oramai vecchietto, ma sempre lucido e indomabile, porta su di sé le cicatrici del mondo e il carico di tanti ricordi. Lasciata la casa in Romagna ancora minorenne, prende a vagabondare per l’Italia. Dagli anni ’60 risiede a Roma, il clima è quello della contestazione studentesca, della lotta per i diritti civili, in particolare divorzio e aborto. Prima socialista di unità proletaria, poi radicale, si unisce a Pannella con il quale fa un sodalizio lungo e fecondo, diventandone stretto collaboratore. Nel 1976 viene condannato come obiettore di coscienza a 13 mesi di galera. Lo salva l’amnistia, si rifugia in Maremma, a Elmo di Sorano, vicino Pitigliano, che rimarrà la sua residenza fino ad oggi.

“Marcello Baraghini è stato l’ideatore nel 1989 della collana Millelire. I Millelire, libri che hanno rivoluzionato il mercato editoriale, come si legge nella Piccola Enciclopedia Garzanti del 1993, si presentano come opuscoli con una veste scarna e priva di orpelli, al prezzo di 1000 lire (circa 0,52 euro). Il successo editoriale è enorme: nel solo decennio novanta vengono vendute 20 milioni di copie, di cui 2 milioni soltanto di Lettera sulla felicità di Epicuro a Meneceo” (fonte Wikipedia).

La sua casa editrice ha sede nel suo soggiorno, l’archivio come un’edera rampicante ha tracimato ovunque: in camera da letto, in bagno, sul pavimento, negli armadi fra i vestiti, dappertutto. Un disordine in cui si muove con disinvoltura, sventolando i suoi smilzi libretti, che continua a vendere on-line, a offerta libera. Mi dai quello che hai, che vuoi, purché tu legga.

Marcello Baraghini

Ora Marcello si è accorto che i giovani non hanno voglia di prendere libri in mano. Il sapere, la storia, le idee devono servirsi per circolare di altri mezzi. Ha inventato delle magliette con delle scritte, pensieri concisi, detti popolari, epigrammi, aforismi. I famosi 140 caratteri, anche meno. Dice che funziona, ed è felice, si sente che intravvedere il futuro lo riempie di orgoglio, lo fa sentire ancora sul pezzo, come si dice.

La galleria dei personaggi che hanno confidenzialmente aperto il loro cuore a Domenico sono oramai tanti: da colui che in Calabria si indebita per dare un pasto agli emigrati; all’insegnante che fa suonare il violino ai sordomuti totali; all’imprenditore veneto che compra i terreni per impiantarvi alberi, senza scopo di lucro, ma solo per il riequilibrio ambientale; a chi nell’inferno di Scampia apre un centro di lettura, ecc. Dice Iannacone all’ANSA: “i protagonisti sono “I Visionari”, uomini e donne che resistono provando a disegnare un domani migliore, a sorridere delle avversità che il destino ha riservato loro. Persone – spiega – che hanno deciso di andare controcorrente, senza considerare i giudizi e i pregiudizi altrui”.

Questi personaggi sono l’Italia più vera: dove ti aspetti di trovare un’umanità arresa, trovi la voglia di lottare; dove pensi che la solidarietà si sia inaridita, scopri delle risorgive inaspettate di altruismo e attenzione; laddove ti aspetti una astiosa rassegnazione, un fatalismo disarmato, trovi un entusiasmo inaspettato che supera e vince le realtà più brutte.

PER SENTIERI, NEL SILENZIO

PER SENTIERI, NEL SILENZIO

«LA MIA CORTINA SI RACCONTA NEL SILENZIO DEI SENTIERI» Michele Da Pozzo, direttore del Parco delle Dolomiti d’Ampezzo: meno mondanità e più voglia di natura. Ecco i percorsi migliori

Nella natura Michele Da Pozzo, 60 anni, da trenta direttore del Parco naturale delle Dolomiti d’Ampezzo, lungo un sentiero nella sua Cortina

«Il primo spot pubblicitario lo ha fatto l’ingresso delle Dolomiti nel patrimonio mondiale dell’Unesco, il secondo la pandemia, con la conseguente voglia di natura, di spazi aperti, di libertà, di aria pura. Vedo che sempre di più la gente si avvicina alla montagna». A dirlo è Michele Da Pozzo, sessant’anni, da trenta direttore del Parco naturale delle Dolomiti d’Ampezzo, che di Cortina conosce anche gli angoli più reconditi, e che fa parte del famoso gruppo alpinistico degli «Scoiattoli».

Rifugio Faloria

«Le Dolomiti d’Ampezzo hanno una bellezza e una varietà straordinaria — continua il direttore — che è difficile riscontrare concentrate in uno spazio così piccolo, e uno stato di conservazione del paesaggio molto buono, merito in gran parte delle Regole d’Ampezzo, istituzione millenaria costituita dalle famiglie originarie, il cui patrimonio indivisibile ha impedito che villaggi turistici e hotel sorgessero nei boschi o a ridosso delle montagne». Continua Da Pozzo: «C’è un dato che mi colpisce: nelle giornate belle i biglietti di sola andata sugli impianti di risalita sono anche 5000. Questo significa che tutte queste persone poi scendono a piedi lungo i sentieri dal Cristallo, dal Faloria, dalle Cinque Torri o dal Lagazuoi. E si aggiungono alle altre migliaia di escursionisti che gli impianti non li prendono proprio».

Monte Cristallo

In realtà negli ultimi anni Cortina ha visto trasformare la sua immagine più blasonata di capitale della mondanità (che pur trova ancora il suo spazio), con l’asse che si è spostato dai salotti alla vita sportiva e all’aria aperta. Non solo le affollatissime ultramaratone di corsa o in bici, ma anche l’alpinismo e l’escursionismo classici e la voglia di silenzio.

«Cortina è stata scoperta turisticamente nella seconda metà dell’Ottocento, dai primi viaggiatori inglesi in cerca di romantiche avventure e da quel grande pioniere dell’alpinismo che fu Paul Grohmann, rampollo di una famiglia benestante viennese, cui Cortina, allora parte dell’Impero Asburgico, deve molto. Ha “inventato” le guide alpine di Cortina salendo per primo sulle cime più alte e facendosi accompagnare da valligiani forti e tenaci, che prima erano soltanto cacciatori di camosci. C’è un ritorno a questa voglia di “esplorare” — continua Da Pozzo — vedo una grande domanda di cultura, sia ambientale che storica, e in questa chiave il Parco ha allestito dei sentieri tematici. Molto suggestivo è il percorso botanico delle cascate di Fanes, dove si impara a riconoscere le piante. Dopo mezzora di cammino lungo una stradina immersa nel bosco si può raggiungere la bellissima radura di Pian de Loa. D’altra parte pochi sanno che qui sono presenti circa 1500 specie florali, cioè un quarto di quelle italiane. A queste se ne sono aggiunte una trentina, non segnalate sul finire del secolo scorso. Sono specie mediterranee arrivate dalle quote più basse in seguito al riscaldamento globale».

Cinque Torri

Tanto interesse per gli aspetti naturalistici e storici ha fatto sì che alle tradizionali guide alpine, un cinquantina, si sia aggiunta una ventina di guide di media montagna. «Prima da noi non esistevano, sono guide che accompagnano le persone lungo percorsi più facili e spiegano la storia, la geologia, la flora e la fauna della nostra valle». E per meglio capire proprio l’origine delle Dolomiti Ampezzane il direttore del parco suggerisce di visitare il Museo Paleontologico «Rinaldo Zardini». «Qui ci si rende conto delle vicissitudini geologiche che hanno interessato le nostre montagne. Con questa consapevolezza poi le escursioni diventano più interessanti. Un eccellente campionario di formazioni rocciose si può avere percorrendo in discesa la lunga, aspra e selvaggia Val Travenanzes, dai 2700 metri del Lagazuoi (possibile la salita in funivia) fino a Cortina. É nascosta dietro la Tofana, fuori dal tempo, non ci sono strade, solo un sentiero, nessun impianto di risalita, nemmeno un rifugio, solo i ruderi del rifugio von Glanvell, che i colpi dell’artiglieria italiana distrussero nell’agosto del 1915».

Monte Lagazuoi e rifugio Funes

Un’altra proposta è un sentiero storico: «Quello che sale alla rupe di Podestagno — spiega il direttore — dove sorgeva un antico castello di cui restano alcune tracce messe in luce da recenti scavi archeologici. Con la sua conquista l’imperatore Massimiliano d’Asburgo lo sottrasse alla Repubblica di Venezia e diede una svolta alla storia di Cortina che dal 1511, passò sotto la casa d’Austria per 400 anni».

Articolo di Massimo Spampani, Corriere della Sera

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