HO FATTO GOAL CON LA MUSICA

HO FATTO GOAL CON LA MUSICA

Parlare di arie celebri come fossero calci di rigore che il pubblico aspetta, di compositori amati e detestati e di improvvisi ripensamenti può essere istruttivo per capire il modo in cui un grande direttore fa musica.

Quanto c’è di naturale o studiato in un atteggiamento che dal podio irradia verso l’orchestra e la platea?

«Nulla nasce per caso – dice Daniele Gatti – e occorrono anni di studi, di filologia accanita, di intuizioni per dare un senso a uno spartito. Prenda Verdi, lo si confina nella tradizione più vieta; pochi sanno scorgere nella sua musica un rigore e una forza che su un altro piano solo Wagner seppe esprimere».

Gatti è un direttore relativamente giovane, una promessa realizzata. In questi giorni è impegnato nei corsi di direzione d’orchestra all’accademia chigiana. Ci incontriamo a Roma, su una terrazza dove sullo sfondo è visibile Villa Medici.

Che rapporto ha con Roma?

«La città mi piace, e mi sono trovato benissimo nel triennio della mia direzione al teatro dell’Opera di Roma. Il mio contratto scadrà alla fine di quest’anno. Dalla primavera del prossimo dirigerò il Maggio Musicale Fiorentino. Altra sfida, altra città».

Daniele Gatti, attuale direttore del Teatro dell’Opera di Roma (2019-2021)

Un direttore d’orchestra ha radici?

«Le ha per quel tanto che riesce a godere dei propri affetti privati. Il resto è nomadismo, mutazioni veloci, trasferimenti. Qualcosa che somiglia a una solitudine, anche se affollata di gente».

Dove è nato?

«A Milano, famiglia modesta, padre bancario, madre segretaria. La fortuna ha voluto che amassero visceralmente la musica. Mio padre tentò perfino l’avventura della lirica. Subito dopo la guerra aveva studiato canto con il tenore Aureliano Pèrtile ma poi prevalsero le urgenze familiari. Gli restò una passione che mi trasmise. Molte sere in cucina ascoltavamo musica alla radio e, se il brano mi piaceva, il giorno dopo comprava il disco. E lo riascoltavamo con più attenzione. È stato il primo apprendistato».

Poteva anche essere l’ultimo.

«La vita di un bambino di otto anni è un mistero. Ricca di potenzialità ma a volte povera di occasioni. Ho avuto la determinazione fin da subito di sapere che cosa volevo. Ma quello che non sapevo era se possedessi il talento per dare una forma a tutto questo».

Come lo scoprì?

«C’era un pianoforte in casa e cominciai a suonarlo a orecchio. Papà mi portò in conservatorio. Feci un esame di audizione e venni preso. Avevo ormai 11 anni».

Da quell’età sono trascorsi circa cinquant’anni. Come vede e giudica il bambino di allora?

«Con una certa indulgenza».

Perché indulgenza?

«La verità è che non sapevo cosa davvero mi piacesse. Grande amore per la musica e un’eguale passione per il calcio. Ero sempre a giocare. Correre, sudare e gridare in un campetto delle periferia milanese. Tutti i pomeriggi fino a sera inoltrata. Presi a ignorare il pianoforte. Trascuravo l’altra metà di me. Così avanti fino ai 14 anni».

E poi?

«Mi dissi: sfondare come attaccante mi pare improbabile. Potrei fare gol come direttore d’orchestra. Mi iscrissi, a insaputa dei miei, a composizione, riducendo drasticamente l’impegno per il calcio».

Un direttore d’orchestra ha dei miti?

«Tutti li hanno. Anche chi prova a rimuoverli e a dimenticarli».

I suoi?

«Quelli che passavano alla Scala e andavo ad ascoltare: Abbado, Maazel, Muti. E poi Giulini e Barenboim. Ho visto dal vivo una sola volta Karajan, ma è stato sufficiente per capire cosa fosse la grandezza».

L’Italia è verdiana?

«È il compositore di riferimento, lo dico con tutto il rispetto per Bellini, Rossini, Donizetti».

Non c’è troppa enfasi patriottica?

«C’è, ma solo perché viene costantemente frainteso».

In che modo?

«Si spinge sul pedale della tradizione e lo si fa in modo pigro. Per cui, in nome della cosiddetta “tradizione”, alcune interpretazioni diventano intoccabili. La verità è che dietro certa ovvietà stilistica bisognerebbe ricercare la complessità dell’artista. Comprendere le ragioni di certe partiture».

Cosa intende?

«Va compreso perché Verdi scrivesse certe cose. Spesso nelle sue opere c’è un atto di accusa verso la società in cui vive. Porta in scena la miseria umana. Non è sociologia la sua. Ma un modo di stare dentro la musica. Se ascoltiamo distrattamente la storia di Violetta nella Traviata, sappiamo già in anticipo come verrà cantata. Questa è la pigrizia di certe ricezioni. Dietro il mondo di Violetta si muovono le forze oscure dell’economia, del denaro, di chi è privilegiato e chi no. Il comportamento di Violetta, la sua maniera di amare, sono considerati un pericolo per la famiglia ottocentesca. Questo ci racconta Verdi e ce lo dice in musica, non con le parole!».

Ma quella musica ognuno la interpreta con la propria sensibilità.

«Ogni grande interprete si sforza per arrivare a una qualche forma di verità. Ricerca un assoluto che non si può afferrare totalmente, ma sfiorarlo è possibile.

Questa storia dell’“assoluto” piaceva ai romantici. Piace a tutti e sa perché? Perché l’assoluto è il solo linguaggio che dà forma alla musica. Anche Schönberg o Shostakovitch cercavano il loro bravo assoluto, mica solo Beethoven».

Non crede che la musica sia spesso ricca di fraintendimenti?

«Cosa intende con fraintendimento?».

Alla fine tutto è interpretabile. Lei legge la “Traviata” in un modo, Muti in un altro e alla fine la partitura ci offre numerose opzioni.

«Per questo esiste lo studio. Fraintendere è umano. Occorre capire se si fraintende in buona o cattiva fede. È chiaro che se l’obiettivo è solo quello di trovare o consolidare un successo, si punterà agli effetti eclatanti, fregandosene di quello che il compositore voleva. Ma c’è anche un altro modo di fraintendere».

Quale?

«Non l’errore o l’interpretazione approssimativa che pure ci può stare, ma il lasciarsi andare al flusso della musica. Sarà essa a condurci da qualche parte. Il fraintendimento è allora toccare vertici che neppure immaginavamo. La musica è grande quando rivela la forza in grado di generare se stessa».

È questo che aspetta un direttore?

«È un attendere che la grazia si compia. Ma è raro che accada».

Conta il merito?

«Conta la libera disposizione della propria anima, a ricevere qualcosa di imprevisto».

Che posto occupa il corpo?

«Intende quello fisico?».

Sì.

«Fa parte della sintassi o meglio dello spazio musicale. Certe volte, quando alcuni passaggi sono particolarmente complicati da trasmettere all’orchestra, è il corpo a guidare il flusso musicale».

Siamo abituati a vedere corpi direttoriali tarantolati e altri al limite dell’immobilità. Perché tante variazioni?

«Ognuno ha una propria postura. Ma il movimento di un corpo sul podio non è un esercizio ginnico. Quando dirigo, non posso fermare l’orchestra e dirle in quale direzione andare. Ho solo un rapporto uditivo e visivo. Il mio corpo “parla” ad essa, dice cosa fare. In quel momento si realizza una sintonia che non era prevista e che fa compiere un salto alla musica».

È la ragione per cui certe esecuzioni sono considerate memorabili?

«Direi di sì. A me è accaduto di “forzare” senza volerlo i confini di un’interpretazione. In che modo non lo so. Ma ci sono state delle improvvise illuminazioni che non avevo previsto. Quando parlavo di verità è a questo che pensavo, al fatto che un’esecuzione non è mai definitiva. Ma i dubbi, alla fine, si sciolgono sulla scena».

Claudio Abbado

A proposito di Claudio Abbado, ecco cosa dice Gatti: «La malattia degli ultimi anni ha trasfigurato il suo modo di avvicinarsi alla musica. Ha reso il suo gesto più essenziale, più astratto e insieme più libero e credo lo abbia avvicinato alla dimensione spirituale e misteriosa della musica…L’ho sempre considerato il mio maestro aggiunto. Gli sarò sempre grato”

Parlava prima del talento. Come lo definirebbe?

«Una predisposizione che molti hanno nella vita, ma pochi sono in grado di manifestare. Poi ci sono talenti più incompresi di altri e finti talenti di cui si capisce presto il bluff. In ogni caso il talento è una pianta che va nutrita. Bisogna guardarsi da quelle esplosioni giovanili che come fiumi in piena tutto travolgono. Alla fine resta ben poco. Per questo costruire buoni argini permetterà al fiume di scorrere bene. Il talento è il contrario del caos».

Nel suo repertorio c’è molto Verdi e poco Mozart.

«L’ho diretto, anche perché adoro il teatro di musica. Ma è vero che l’ho fatto senza costanza. Sono più incline a Wagner e Verdi».

Li si è spesso visti in opposizione.

«È vero, ma entrambi mirano allo stesso scopo. Di solito si definisce Verdi un compositore di arie; in realtà è un musicista della totalità come lo è Wagner. La loro diversità è dettata dalle differenti origini del teatro. Quello italiano è molto più frammentato di quello tedesco. Poi è chiaro che le visioni di fondo si scostano».

Come?

«Wagner racconta il dionisiaco, il sovrumano, tutto ciò che è titanico; Verdi no, lui ci parla delle miserie umane. Verdi asciuga il dramma fino a tentare di spiegare caparbiamente perché qualcosa accade. Wagner dilata il dramma per liberarlo dalle incrostazioni quotidiane».

Come sceglie un compositore?

«Ci sono molti modi per accostarsi a un autore e a una partitura. Così come ci sono degli ostacoli. Per esempio non riesco a dirigere Rachmaninov. Faccio fatica a entrare nel suo mondo, anche se so che è un gradissimo compositore»

È una rinuncia definitiva?

«Non c’è mai niente di definitivo. Ricordo che quando diressi l’Ouverture del Carnevale romano, giurai a me stesso che mai più avrei eseguito Berlioz. Poi accadde che nel 2008 mi fu proposto di eseguirlo a Parigi. Ero incerto. Alla fine, per dovere istituzionale, accettai. Venivo da alcune fresche letture di storia francese. E fu quella la chiave. La sua musica attraversa tutte le tensioni dell’epoca. Bastava coglierle nella partitura. Eseguii il Romeo e Giulietta mettendo tra parentesi tutte le altre esecuzioni. Fu come trovarmi di fronte a un territorio sconosciuto da esplorare. La sorpresa fu enorme».

Che cosa era cambiato nel suo atteggiamento?

«L’aver visto Berlioz come l’ultimo grande compositore che si misura con Beethoven e non come il musicista che apre la strada a Brahms. Quello che non avevo fini lì capito è che Berlioz non è un normalizzatore».

Ama i compositori di rottura?

«Non c’è dubbio che li preferisco. Ma ho imparato ad amare l’imprevedibile che si nasconde nel prevedibile».

Vale anche per i rapporti che ha con le orchestre che dirige?

«Tirare fuori il meglio da un’orchestra è quello che ogni buon direttore si propone. Ma perché questo accada occorre che ci sia rispetto reciproco che si ottiene non attraverso le compiacenze, ma con la competenza. Il direttore è una figura solitaria. Il suo ruolo viene messo alla prova da quello che fa, non da ciò che dice».

Fuori dal mondo musicale com’è la sua vita?

«Normalissima, vivo a Milano, ho una compagna, amo le macchine e il jazz. Il massimo della distensione è affrontare lunghi viaggi in cui guido e ascolto jazz».

Altra musica?

«Da bambino Sanremo era un obbligo. Ma quella musica non fa più parte del mio quotidiano. Mi piace Pino Daniele».

Bob Dylan?

«Preferisco i Genesis. Il mio è un ascolto armonico, non sono un melodista».

A proposito di calcio è più facile affrontare una partita o una partitura?

«Si possono sbagliare entrambe nel modo di affrontarle. Ci sono direttori che aspettano l’aria di un’opera come fosse il momento dei “calci di rigore”, con il pubblico che esplode davanti all’acuto. È il prevedibile che non diverrà mai imprevedibile».

Ha visto gli europei di calcio?

«Sì, in quel caso viva i calci di rigore!».

Intervista di Antonio Gnoli, ROBINSON Corriere sera

IL MONDO SI SCIOGLIE

IL MONDO SI SCIOGLIE

Quando Erik il Rosso «scoprì» la Groenlandia nel 986, nel pieno del periodo caldo medievale, non sapeva che il nome con cui battezzò l’isola più grande del mondo sarebbe stato un – infausto – presagio. Nome omen, Grønland, Terra verde. Un paradosso per i moderni che, figli della piccola era glaciale, in quell’ammasso di ghiaccio che ricopre l’83% del suo territorio, di verde ne hanno sempre visto poco. Almeno fino a oggi.

La vasta calotta glaciale della Groenlandia si sta sciogliendo a una velocità mai vista prima. Per la precisione, mai vista da 12.000 anni. Questa settimana in un solo giorno la quantità di ghiaccio sciolto dal calore è stata abbastanza da ricoprire – calcola il Polar Portal – l’intera Florida con 5 centimetri d’acqua. Martedì 27 luglio abbiamo perso 8,5 miliardi di tonnellate di ghiaccio, due giorni dopo, giovedì 29, altri 8,4 miliardi di tonnellate. La temperatura record registrata è stata di 19,8 °C . Tutto questo ghiaccio che si scioglie in Groenlandia diventa acqua che si riversa negli oceani, che si «diluiscono» (l’acqua di disgelo è acqua dolce e diluisce il contenuto di sale dell’oceano), e provoca un ulteriore innalzamento dei mari. Una reazione a catena innescata dai cambiamenti climatici prodotti dall’uomo. Oltre a devastare interi ecosistemi, il rischio che migliaia di città e zone costiere finiranno prima o poi per «affogare» non è più un’ipotesi fantascientifica. Il ghiaccio della terra di Erik il Rosso dovrebbe interessare tutti, dai super-inquinatori del pianeta alle popolazioni che vivono vicino al mare. Ma solo in prima battuta, perché – come noto – gli effetti sul breve e medio termine avranno un impatto globale. E basta scorrere i numeri per comprendere il volume del possibile disastro: oltre un miliardo di persone vive a meno di 10 metri al di sopra delle attuali linee di alta marea, di questi 250 milioni vivono al di sotto di un metro sul livello del mare. Se, per assurdo – ma non troppo – l’intera calotta glaciale della Groenlandia si sciogliesse, il livello del mare aumenterebbe di sei metri. E le rassicurazioni degli scienziati non sono affatto rassicuranti: l’obiettivo sarebbe almeno di ritardare l’ineluttabile e dare il tempo a 600 milioni di persone che vivono vicino alle coste di spostarsi. Il fenomeno che da almeno un ventennio spaventa gli scienziati ha infatti una variabile di rischio in più: la velocità. Il ghiaccio non solo si scioglie, ma lo fa più rapidamente. …

E naturalmente il problema non riguarda solo l’isola degli Inuit e di Erik il Rosso: la crisi climatica sta riscaldando tutto l’Artico a una velocità doppia rispetto alle latitudini più basse e lo scioglimento della calotta glaciale è il principale fattore a contribuire all’innalzamento del livello del mare, che mette in pericolo le coste di tutto il mondo. Mentre il mondo si riscalda, il ghiaccio immagazzinato ai poli e nei ghiacciai si scioglie e il livello del mare si alza. Il tasso di crescita è accelerato negli ultimi decenni ed è ora stimato in 3-4 mm all’anno e la calotta glaciale si è ridotta di 532 miliardi di tonnellate in un anno…..

«Non è solo l’aumento delle temperature il problema che affligge la Groenlandia, ma anche lo sviluppo di condizioni anticicloniche che favoriscono l’assenza di nuvole e quindi l’aumento della radiazione solare in grado di raggiungere la superficie dei ghiacci accelerandone lo scioglimento».

A formulare la diagnosi è Marco Tedesco, geofisico della Columbia University e ricercatore aggiunto alla Nasa.

Cosa sta accadendo in Groenlandia?

«Ci sono due fenomeni in atto. Il primo è legato all’aumento delle temperature. Sia di quelle globali, cresciute di un grado centigrado dall’era preindustriale, sia di quelle specificamente artiche, cresciute a una velocità doppia rispetto al resto del Pianeta. Il secondo è ciò di cui mi occupo, lo studio del legame tra le dinamiche che riguardano la Groenlandia e il resto del Pianeta».

Di cosa si tratta?

«L’aumento della temperatura e l’impatto che esso ha nelle differenti zone del globo incide sulla circolazione atmosferica creando scompensi. Uno di questi è l’indebolimento del Polar Vortex, l’area di bassa pressione che staziona in modo semi-permanente sopra il Polo Nord. L’indebolimento è legato alla differenza d temperatura tra le zone equatoriali e il Polo stesso che agevola la stagnazione di alcuni processi atmosferici come accaduto alla fine di luglio. Processi che ci sono sempre stati ma che ora persistono a lungo e aumentano infrequenza».

Quali effetti hanno?

«Sono condizioni anticicloniche che favoriscono l’assenza di nuvole e l’aumento della radiazione solare che raggiunge la superficie dei ghiacci della Groenlandia aumentando il processo di fusione. Ma non è tutto, perché questi fenomeni anticiclonici, attraverso la circolazione dei venti da cui sono interessati ,incontrano aria calda che proviene dalle fasce temperate, che viene inghiotta e trasportata sul versante Est. Ed è questo che ha favorito l’aumento delle temperature che abbiamo visto con i nuovi record. Si chiamano “atmospheric blocking” e in ultima istanza favoriscono lo scioglimento dei ghiacci».

C’è dell’altro?

«Purtroppo si. Quando la neve fonde e ricongela i grani di ghiaccio diventano più grandi, questo si chiama metamorfismo costruttivo. Così anche se la neve appare bianca ai nostri occhi in realtà assorbe sempre più radiazione solare in alte frequenze e diventa più scura ai raggi infrarossi. Questo agevola impulsi di fusione estrema come abbiamo visto nei giorni scorsi e come è successo nel 2012 e 2019. Si tratta di fenomeni che si registrano all’inizio della stagione calda e agevolano l’assorbimento della neve innescando una reazione a catena assai pericolosa».

Quali sono i nodi da risolvere?

«Il primo elemento di debolezza è che i modelli climatici attuali non riescono a catturare la durata e l’intensità dei fenomeni atmosferici a lungo termine che caratterizzano questi eventi di fusione. Possiamo fare una stima a tre o quattro giorni, ma già a sei mesi risulta complicato muoversi. Il secondo elemento è che questi fenomeni favoriscono anche l’immissione di acqua dolce negli oceani andando ad alterare gli ecosistemi e le correnti oceaniche. Un altro elemento di turbativa è il fatto che si verifichino fenomeni simili anche nella parte orientale dell’Antartide, oltre che in Groenlandia. La combinazione delle alterazioni dei due giganti può avere un effetto molto incisivo sull’innalzamento dei mari con alcune zone più esposte rispetto alle altre».

Cosa si può fare?

«Occorre buon senso, ognuno di noi si deve rendere conto che l’attuale stile di vita non è più sostenibile, solo un sacrifico comune ci potrà salvare. Bisogna poi tagliare a zero le emissioni di anidride carbonica, metano e gas serra il prima possibile, senza obiettivi intermedi. Occorre agire aggressivamente. Bisogna infine investire per sviluppare tecniche in grado di catturare l’anidride carbonica già presente nell’aria. Anche se smettessimo domani di immetterla nell’atmosfera quella già presente persisterebbe comunque per alcuni decenni causando danni. Infine, bisogna sviluppare sistemi di gestione dati e puntare su educazione e istruzione per creare consapevolezza anche tra le comunità locali. Conferendo alle istituzioni che si adoperano per la difesa dell’ambiente maggiori poteri, al di là della visione politica e della necessità del momento».

Estratti dall’intervista, apparsa sulla Stampa, di Francesco Semprini e Roberto Viglianisi a Marco Tedesco, Columbia University.

Chi vede altro lo mostri

Chi vede altro lo mostri

Vent’anni dopo l’11 settembre. Al posto della rabbia e dell’orgoglio abbiamo scelto di avvilupparci in cumuli di retorica imbelle

Pubblico questo articolo apparso sul Foglio Quotidiano a firma di Giuliano Ferrara. I toni sono pessimistici, ma forse è solamente il realismo politico di una mente lucida ma inquieta, come spesso sono quelle dei vecchi. Il taglio del pezzo è insolitamente scabro, il linguaggio essenziale, i toni bruschi e sentenziosi, l’analisi su avvenimenti e anni fin troppo ampia per essere un ordinato mosaico. Cosa intenda Ferrara per ordine imperiale fondato sulla tecnologia non si sa. Ma il quadro che ne esce è suggestivo e inquietante. Quando Ferrara parla del mondo libero prosciugato dalla sua abbondanza sembra di sentire la voce di Galimberti e il suo mantra circa il tramonto dell’Occidente. Comunque sia, nessuno dei due avrà il tempo per vederlo, ma conviene riflettere sulle convulse vicende aperte dopo quel tragico settembre del 2001.

Questi vent’anni dall’ 11 settembre sono tra i peggiori vissuti dall’occidente, un viatico disperante al XXI secolo. Il Novecento fu tremendo, ma procedette infine e si concluse con la liberazione dai totalitarismi tutti in una gigantesca ondata di speranza. Ora il panorama è livido.

Giuliano Ferrara, giornalista e direttore del Foglio fino al 2015

Le bande jihadiste passano da Guantánamo al governo di Kabul dopo un’epopea vittoriosa, nel disdoro senza onore dei vinti. Le donne sono escluse dallo sport e segregate nell’istruzione, sepolte nella sharia. Se manifestano, sono frustate da teologi barbuti. I giornalisti d’opposizione battuti e torturati. Centoventimila persone in fretta e furia sono state sottratte alla vendetta dei virtuisti coranici, ma ce ne sono molte di più destinate a subirla. La ripresa del terrorismo internazionale è nell’incubatrice, dopo lo spettacolo di apertura all’aeroporto della capitale afghana. Negoziare con la barbarie è la nuova necessità per chi le ha aperto le porte abbandonando il campo e una generazione di amici.

La Cina in questi vent’anni ha fatto passi da gigante sulla strada del comunismo capitalista autoritario ed espansionista. A Hong Kong vanno in pezzi anche le reliquie di una lunga storia di democrazia postcoloniale, un paese due sistemi. Taiwan, e sono quasi cento milioni di abitanti, è sotto pressante minaccia. L’africa è largamente penetrata e irretita in un circuito cinese. L’intero arco del medio oriente allargato è in sfacelo, restano in piedi Israele e i suoi nemici giurati nucleari, oltre che le rovine della Siria, del Libano dei curdi mollati dopo la effimera campagna contro lo Stato islamico. Nel Mediterraneo fu breve e stolta guerra, quella sì, niente illusione di nation building, ora la Libia è mezza occupata da turchi e russi che si dividono le alleanze tribali del dopo Gheddafi. L’iran prenucleare alimenta le divisioni dell’occidente e intimidisce con il suo modello di Repubblica islamica matrice di terrore. Sauditi ed Emirati sono quello che sono sempre stati, alleati opportunisti di necessità e d’affari che covano in seno la serpe wahabita.

Torri Gemelle memorial

La Nato è diventata un’organizzazione buona per il coordinamento umanitario della fuga, e la Francia dichiara l’encefalogramma piatto di un pilastro dell’occidente alla mercé delle ambizioni di Erdogan e delle manipolazioni russe, tra veleni e ideologie neoautoritarie. La Crimea è di Putin. L’ucraina geme divisa e contesa, sbeffeggiata dal capo dei nuovi oligarchi e virtualmente abbandonata a sé stessa. Un pezzo d’europa è nelle mani di ideologie e pratiche dette democrature o democrazie illiberali. L’ubriacatura populista e il suo miglior amico, il mondo politicamente corretto, hanno fatto dell’america una esausta vittima illustre, passata da un demente golpista a un bravo tipo che si specializza nella rinuncia e nel piede di casa, con una torsione di sistema che ha annullato le grandi tradizioni dei repubblicani alla Reagan e dei democratici alla Truman, pezzi di una storia mai così lontana, dileguatasi negli ultimi due decenni.

Dopo il più grande attentato della storia dell’umanità, dopo la sfida orante e crudele contro il cuore dell’occidente e del suo modo di vita, al posto della rabbia e dell’orgoglio, al posto della costruzione di un nuovo ordine imperiale e di un primato democratico fondato su tecnologia, armi e denaro, abbiamo scelto di avvilupparci in cumuli di retorica imbelle sui diritti umani, litigando su qualche decina di migliaia di straccioni in viaggio verso il miraggio e facendo funerali ideali ai morti in mare. Pare che la democrazia non si possa esportare, ma tutto il resto è aperto all’importazione. Intanto smantelliamo le statue di Colombo e facciamo editing grottesco alla cultura di secoli, in nome del senso di colpa dell’occidente, e celebriamo, è la parola giusta, il processo agli assassini di Parigi e del Bataclan, aspettando il momento in cui avremo vergogna anche dello stato di diritto, eredità della filosofia bianca dei Lumi. Questo è lo stato delle cose nel mondo libero prosciugato dalla sua abbondanza. Chi vede altro, lo mostri.

DUE PER DUE A VENEZIA

DUE PER DUE A VENEZIA

Doppia mostra a Venezia di Georg Baselitz. Il maestro tedesco è protagonista in laguna a Palazzo Grimani e alla Fondazione Vedova, dove torna a “ incontrare” l’amico italiano.

È l’estate di Georg Baselitz a Venezia dove l’artista tedesco, il mito espressionista, devoto a James Ensor, Munch e Otto Dix, folgorato dalla pittura, come azione autonoma, energia primigenia, toccato dalle visioni apocalittiche medioevali, come quelle dei trionfi della morte di Pisa e di Palermo, ha ben due mostre a suggellare i suoi ottantun anni. 

Fondazione Vedova

Vedova accendi la luce, alla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova (fino al 31 ottobre), nel quattrocentesco Magazzino del Sale alle Zattere, dove c’era lo studio di Emilio Vedova, riattiva il sodalizio intellettuale e l’amicizia con l’artista italiano, che Baselitz conobbe a Berlino negli anni Sessanta e che fu per lui, ventenne, uscito dalla guerra e da una Germania distrutta, una straordinaria fonte d’ispirazione. L’artista tedesco ha lavorato a questa mostra (realizzata con Generali Italia e la Galleria Thaddaeus Ropach), con Fabrizio Gazzarri e Detlev Gretenkort, che ne hanno definito il percorso espositivo ritmico e serrato, scandito da due rigorose sequenze di quadri della stessa identica dimensione allineati a uguale distanza l’uno dall’altro che accompagnano il visitatore in un percorso di smaterializzazione del colore e dell’immagine, testimoniando quell’affinità elettiva che ha legato i due uomini per tutta la vita, e anche dopo.

Emilio Vedova

Affinità che si respira nei rosa e nei neri delle opere di Vedova accendi la luce, realizzate per questa mostra, dove l’artista, più che creare alla maniera del veneziano, entra in dialogo con lui, imprimendo nei quadri quella sensazione potente del baratro e dell’abisso, quella vertigine che ha connotato l’arte dei due intellettuali che rispondevano al conflitto mondiale con un’immensa energia vitale e un altrettanto radicato spirito critico verso la razionalità, tanto che Baselitz se ne allontana fino a distorcere e capovolgere l’immagine.

Palazzo Grimani

Immagini capovolte, dipinti, sculture, bassorilievi sono esposti in Archinto, nel magnifico Palazzo Grimani, ex residenza rinascimentale a ridosso di Santa Maria Formosa, in una mostra curata da Mario Codognato (fino al 27 novembre), prodotta da Gagosian con Venetian Heritage, ispirata all’enigma esistenziale del ritratto del cardinale Filippo Archinto dipinto da Tiziano nel 1558, ai rossi della porpora di Vecellio, a quell’intensità che si ritrova nelle opere esposte.

Realizzate con una tecnica ispirata alla stampa in cui il controllo dell’autore lascia il passo all’espressività del gesto e della pressione di due tele l’una contro l’altra, le dodici opere realizzate per Palazzo Grimani, installate nelle cornici settecentesche della Sala del Portego, dialogano con sculture lignee nere, in cui si percepisce la materia, la torsione della materia, l’incomunicabilità. Quel tormento esistenziale di Sartre, Beckett e Ionesco, autori con cui Baselitz condivide la destrutturazione dell’individuo, quella struggente, irrisolta, attuale dimensione esistenziale che qui è resa in modo ancora più potente da un contesto così storico, umanistico e a misura d’uomo come è Venezia, una delle città che Baselitz ama di più.

Quali sono i luoghi di Venezia che preferisce?

«Amo Venezia nella sua interezza. Venezia è il complesso urbano antico meglio conservato che si possa trovare, unico al mondo. Quando le magnificenze della città furono costruite, l’arte cresceva nelle chiese e nei palazzi dove lavorarono i migliori artisti di tutti i tempi».

Per lei la città è stata un punto di svolta.

«È alla Biennale di Venezia, nel 1980, che le mie opere hanno raggiunto il mondo e la mia fama è diventata internazionale. Considero tuttora Venezia il punto di riferimento più importante per l’arte contemporanea e per quanti la amano».

Georg Baselitz: Archinto ride

Oggi come influenza la sua opera?

«C’è stato un dialogo costante negli anni, con Emilio Vedova, con la città dove sono venuto spesso, qualche anno fa ho curato la mostra di Vedova proprio al Magazzino del Sale dove un tempo c’era il suo studio e oggi quest’ultima mostra».

Quando ha conosciuto Emilio Vedova?

«Comprai un quadro di Emilio, il Manifesto universale del 1957, da Rudolf Springer a Berlino come documento, il mio primo sguardo verso ovest. Era un quadro astratto, con un suo fondamento importante come Piranesi e una sua potenza espressiva. Me ne sono subito innamorato. Poi ho conosciuto l’artista e l’uomo e per me è stato un incontro fondamentale».

Com’era Berlino a quell’epoca?

«La Germania è stata completamente distrutta dalla guerra e questo dramma ha influito su ogni aspetto della vita sociale nelle città, ovviamente anche nell’arte e sulla mia arte».

Com’è stato per lei quel periodo?

«Il peggiore della mia vita e al contempo il migliore: sono ripartito da zero. Nella mia scuola a Berlino Ovest, la Hochschule für Bildende Künste, nel 1958 hanno organizzato una grande mostra retrospettiva di degli Espressionisti americani. Fantastica! L’esposizione fu sponsorizzata dalla Cia per i tedeschi a scopo educativo ed informativo. E poi ne seguì un’altra di Jackson Pollock. In quel periodo ero stato a Parigi e avevo visto l’intero scenario dell’arte contemporanea. Sono momenti che hanno segnato per sempre la mia vita e le mie opere».

Articolo a cura di JOCHEN LITTKEMANN – In copertina un’opera di Emilio Vedova.

SEDERSI SULLO ZEN

SEDERSI SULLO ZEN

L’avvento del buddismo in India circa 2500 anni fa, come leggo dal libretto La pratica dello zazen, edito dalla comunità buddista italiana La Stella del Mattino, ha la sua radice nella civiltà e nella letteratura religiosa vedica, in cui non si riscontra alcuna riflessione sulla ‘sofferenza’ nel mondo o sul ciclo delle rinascite, quanto piuttosto nel godimento (bhukti) della vita terrena.

Ma nella predicazione del Buddha non troviamo neppure accennata una dottrina della rinascita.

La questione del nascere e del morire si presenta solo parecchi secoli dopo. Scrive Mauricio Yushin Marassi:” Il motivo è legato al pragmatismo buddista: se consideriamo che all’interno del buddismo il problema è “solo” per così dire, la dissoluzione della sofferenza del vivere e del morire, non ha particolare importanza se le condizioni di nascita in questa vita siano determinate dal karman accumulato nella vite precedenti oppure no”. Inoltre, Buddha non sostiene che esista un’anima individuale (atman) di natura eterna, quindi “la credenza nelle rinascite può essere messa da parte..”.

Il significato del nascere e del morire assume nel buddismo zen un significato diverso che nella cultura Occidentale. Il binomio vita/morte nella pratica si risolve in una vita pronta alla morte. La finitudine temporale del vivere diventa vita per la morte solo se accompagnata da un percorso di consapevolezza e di liberazione dalla sofferenza che ci rende in grado di vivere nella pratica “una vita pronta alla morte” o, come scrive Marassi, una vita “nella quale la morte non ha più nulla da togliere, se non il corpo, ultimo legame con il mondo dei vivi”. Vediamo di chiarire, seguendo il ragionamento di Marassi.

La liberazione dalla sofferenza per un buddista non è, banalmente, evitare il dolore, a volte inevitabile.

E’ invece un processo di sviluppo interiore che può essere compiuto da due punti di vista: le modalità pratiche di questo cammino; il significato che per lo spirito assumono quel nascere e morire, che ogni vivente è destinato a sperimentare.

La pratica, in giapponese, è detta zazen, letteralmente “sedersi sullo zen”. Conosciamo la postura: sul pavimento, seduti su un cuscino, le gambe incrociate, la schiena dritta, i piedi sulle cosce, di fronte ad una parete, in perfetto silenzio, luce e temperatura confortevoli. Una pratica millenaria che, secondo Marassi:” è la forma nella quale il corpo diviene un tempio all’interno del quale è possibile edificare la liberazione dalla sofferenza connessa alla finitudine dell’uomo”.

Scrive Marassi: “.. non c’è nulla da toccare, da udire, da odorare, da vedere, da assaporare, i cinque sensi sono privi di oggetto.”

Ma quello che importa qui è la forma interiore del praticare lo zezen, o meglio i suoi effetti. La postura interiore è quella del lasciare, del “cessare di afferrare” ricordi, emozioni, speranze, desideri, progetti e valutazioni sul bene e sul male, sulle nostre come sulle altrui azioni.

L’obiettivo è quello di impedire il sorgere dei pensieri. Lo zazen consiste nella pratica del “non afferrare” del “lasciare” i tanti pensieri che si affacciano alla mente durante la meditazione e nello “svegliarsi” da qualunque “illusione le mente costruisca, comprese le elaborazioni metafisiche”. Il buddismo, infatti, non è una metafisica, né un tentativo di stabilire “come stiano le cose”: è “solo” la via che conduce alla liberazione dalla sofferenza”

La pratica della meditazione zazen comporta, in definitiva, che ciò che naturalmente insorge con continuità nella nostra mente si trasforma in un continuo “cessare”. “Da una parte c’è la nostra vita, i legami familiari, quelli con la comunità, le speranze e  i sogni, l’amore per la vita, il timore della malattia e della morte”, dall’altro tutto ciò non c’è.  Rinunciare a tutto ciò che chiamiamo “vivere”, staccarsene senza rimpianti, vuole dire morire. “…Ci troviamo in una terra di nessuno, un “dove” infinito nel quale vita e morte si incontrano e si invertono, si scambiano i ruoli”.

In conclusione: “Ogni volta che facciamo questo, ossia ogni volta che nasciamo, viviamo e consensualmente moriamo, non scompariamo nel nulla, non c’è l’annullamento totale in quanto la pratica buddista “..ha le caratteristiche di una morte in vita: quello che dal punto di vista del mondo è “morte”, abbandono, scomparsa, visto dall’interno della pratica diviene una continua “nascita”.

Nel Dhanmapada (Cammino religioso) è scritto: “Vedi il mondo come insostanziale, fugace, una bolla, illusorio, un semplice miraggio: il re della morte non riuscirà a scovarti”.

Mauricio Yūshin Marassi nato a Buenos Aires nel 1950, pratica e studia il buddismo.
Dal 2009 è direttore responsabile della Stella del Mattino, Comunità buddista zen italiana. Dal 2003 è professore a contratto presso l’Università Carlo Bo di Urbino dove attualmente tiene un corso sulla cultura del dialogo interreligioso.

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