Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono”
E’ nato giusto 90 anni fa, in bilico fra il Capricorno e l’Aquario, Alberto Arbasino. Una vita lunga e ricca di incontri, anche memorabili, che tratteggia in questa vecchia intervista di Malcom Pagani che vale la pena di riprendere, facendo al professore i migliori auguri.
Viene dalla laboriosa provincia lombarda, inizia una carriere universitaria come giurista, che poi abbandona per la letteratura e il giornalismo. Mente fina, palato difficile, una raffinatezza d’insieme che nei saggi raggiunge i suoi migliori risultati. Ancora oggi Parigi o cara! si legge con partecipazione.
Pur refrattario
all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso
e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni,
scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose,
che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad
alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”.
E il vento caldo delle
sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e
Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci
portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da
giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case
romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni.
Luglio è quasi a metà,
sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia
color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora
volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in
Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare
Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una
giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel
tinello.
Così si usciva in gruppo
e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi
e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque
era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il
giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta,
conosce oro, incenso e giacimenti.
Quando cerca nella
biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in
fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina:
“L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite
superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la
mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne
sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine
degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare.
Anche se i baffi di
quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del
tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930,
rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se
abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita…” e nei versi
ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese
di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò
che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi
ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”.
Lo stile nemico della
semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli
areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero,
all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua
raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi
Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di
servire i cioccolatini in coppe di cristallo”.
Il mondo dell’avvocato
come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti
per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con
i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine
alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con
imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili.
Cornici di un’età
irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero,
uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino,
in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota
Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io
mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.
Lei
arriva a Roma negli anni Cinquanta.
Avevo poco più di
vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: ‘Non permetterò a
nessuno di dire che è la più bella età della vita’. Quando si parla di Arcadia
bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci
sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta.
Sfogandosi
con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.
È un decennio di
paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera
sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo
criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi
chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in
libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il
Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia.
Glielo
disse che erano gli ultimi?
Con Alberto ce ne facemmo
e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo
dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci
rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in
trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: ‘Semo tutti peracottari’. Gli era
venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo
nell’ultima veste giocosa.
Eravate
entrambi permalosi?
Lui sicuramente. Io mai,
altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace
di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7
fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai
nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici,
confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: ‘Li conosco, a Roma li chiamano
strangolini’.
Faceva
parte degli intellettuali suscettibili?
Lui no, ma non mancavano.
C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si
adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In
supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si
prestava all’equivoco: ‘Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è
credibile’, ‘Chi non capisce è sciocco’, ‘Chi non si spella le mani è un
buzzurro’.
Di
Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.
Con intuizione corretta,
Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della
società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la
lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente
successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema,
la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La
serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette
elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e
svanito l’equivoco, in effetti, si rise.
Altro
moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.
In lui la componente
populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un
Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa
persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la
classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale
talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino,
con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli
ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico,
era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo
spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici
ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito
collettivo: ‘Che palle’.
In
“Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.
Era unico. Straordinario.
Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante,
viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo
circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della
Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da
briganti e mascalzoni. ‘Ho paura sia a ritirare che a depositare’ mi diceva e
io: ‘Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?’.
Il
denaro per lei è stato importante?
Non troppo, ma ho sempre
considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi
de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per
antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire:
‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi
trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano
regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto.
All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema
simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito
Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: ‘Un contratto con un
deputato non si fa’.
Divenne
deputato nel 1983.
Me lo chiesero due fior
di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con
Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e
diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono
che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si
incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite.
Niente
a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.
Manganelli, uno scrittore
sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata,
avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per
salutarti, poi si raccomandava: ‘Non dire a nessuno che mi hai visto’. Gadda
era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile
posteriore.
Terrorizzato dalle curve
e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando
dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte
Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro
ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che
evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un
prelato.
Gadda, l’uomo che vestiva
in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte
acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò:
‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande
albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini
non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si
lamentava: ‘Sono diventata la barbiera del Laterano’.
Di
Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano
paura”.
È vero e fu un’operazione
di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la
complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu
assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per
sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi.
Le è
simpatico?
Simpaticissimo. Anzi,
simpaticissimi. Lui e la moglie.
Il
verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.
Un decennio abbastanza
atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda.
A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In
California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di
libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in
fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei
Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che
ripetersi.
Altra
icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia
privo di cinismo.
Il cinico non perde tempo
a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro
sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il
rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il
ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena
se stesso, anche.
Se
scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?
È un altro lavoro. Va
compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al
premio Strega.
Nessuno?
Nessuno. Neanche per
sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente
nulla che valesse l’aggravio della lettura.
Perché?
Per la stessa identica
ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove
colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di
stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi
vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli
antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le
malattie del papà o l’agonia della mamma.
C’erano libri diversi.
Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano
ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche
erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di
posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di
appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che
oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di
salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido
del previsto.
È un
problema culturale?
Ma la cultura è un affare
bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo,
quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare
che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un
produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva
studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la
Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci
chiedevamo: ‘Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere
il sapere?’.
È
sparita anche la letteratura italiana?
Si è deciso a tavolino
che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta
abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della
serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna,
ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da
banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse
sono più alternativo, io.
Sull’affezione
premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in
epoca non sospetta.
Più della liturgia dello
Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo
spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per
la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a
Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un
unico premio.
L’intento era quello.
Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per
più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò
10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a
pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona.
È furba
anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?
Furba sicuramente,
pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario
della prozia? Il ‘sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?’. Vabbè, anche
se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi
poco, signora mia sarà contentissima.
LA RIFLESSIONE PARTE DALLA PENNA DI CINO ZUCCHI, ARCHITETTO MILANESE. A MILANO SI COSTRUISCE TANTO, SI COSTRUISCE BENE, MA CI SONO ANCHE TANTISSIMI PROGETTI DELUDENTI E TROPPO, TROPPO COMMERCIALI
Una “riflessione pacata” condivisa dall’architetto Cino
Zucchi via Facebook diventa l’occasione per provare ad aprire il dibattito
sullo stato dell’architettura contemporanea nel capoluogo lombardo. Visto che,
per fortuna, si costruisce tanto sarebbe meglio costruire anche bene. Sono
trascorsi sei anni da quando Cino Zucchi ha curato il Padiglione Italia alla
Biennale di Architettura di Venezia. Era il 2014 e la sua città natale, Milano,
si preparava al rush finale prima di Expo 2015. Forse anche sulla spinta
dell’attesa per il grande evento internazionale, alla kermesse lagunare il
capoluogo lombardo venne presentato come il “laboratorio del moderno”:
l’esempio più riuscito, a livello nazionale, del processo di rinnovamento e
rinascita avvenuto in Italia dal dopoguerra in poi. All’epoca, proprio
introducendo Innesti/Grafting, il progettista della Nuvola Lavazza e dell’Headquarter
Salewa aveva identificato Milano come “il luogo dove la dialettica tra
modernizzazione e permanenza della struttura urbana è stata più forte. Dopo i
bombardamenti del 1943, il moderno milanese è stato capace di intervenire per
punti nel delicato tessuto del centro, inserendo tipologie diverse da quelle
esistenti ma capaci di interagire con esse su più livelli”. Dopo Expo la città
ha intrapreso una fase di forte ascesa che ancora è in corso e che si proietta
nei prossimi decenni, suggellata da riconoscimenti e da performance giudicate
positive – tra cui quelle rilevate nella stesura dell’annuale classifica della
Qualità della vita del Sole 24 Ore – ma, nello stesso tempo, accompagnata da
timori e accesi confronti sul ruolo dei privati, sulle disuguaglianze, sul
diritto alla casa.
UNA RIFLESSIONE PACATA
Alla città e al suo contesto architettonico, lo stesso Zucchi si è soffermato in questi giorni con quella che lui stesso ha definito “una riflessione pacata”; affidata a Facebook, viene parzialmente qui ripresa. L’architetto, anche professore al Politecnico di Milano, ha messo a confronto la “qualità progettuale sempre più alta nella generazione dei giovani architetti italiani ed europei”, con i “progetti in corso a Milano” che, dal suo punto di vista, risultano “spesso molto deludenti”. Un’affermazione associata a una serie di motivazioni. “Cerco di spiegare perché: in un’epoca di diffusione virale delle immagini, esiste ormai un’architettura “commerciale” – non do a questo termine un valore così negativo – che combina con furbizia motivi copiati qua e là da progetti pubblicati da riviste, creando un linguaggio spurio, senza radici, senza coraggio, senza coerenza vera”, afferma Zucchi.
“È un linguaggio “eager to please” (ansioso di piacere) che mischia hi-tech, tetti verdi, doppie vetrate, ritmi sincopati, muscoletti, colpi di sole, tatuaggi, zazzere e Ray-ban specchiati”, scrive ancora. Provando, in particolare, ad attivare una riflessione con i “migliori esempi di architettura milanese degli anni ‘50 e ‘60”, lo scenario attuale appare meno convincente e, forse, anche meno promettente dinanzi alla sfida del tempo. “Senza mettermi in cattedra o fare il “connoisseur”, sento tuttavia come problema il fatto che pochi sembrano accorgersi della distanza o differenza tra questa produzione e gli esempi di reale valore. Parlo non dei capi d’opera di grande impatto iconico (gli edifici della Bocconi delle Grafton o di Sanaa, la Fondazione Prada di Koolhaas, La Feltrinelli di Herzog e De Meuron e pochi altri) ma delle architetture che costruiscono a piccoli frammenti i nuovi tessuti urbani della città”.
TRA “FRASI A EFFETTO E POESIA VERA”
Lo sviluppo immobiliare sembra dunque muoversi sulla scia di
una sorta di “facile ricerca del consenso”, anziché essere caratterizzato da
interventi potenzialmente in grado di divenire “esemplari”? “Diciamo che la
città è di tutti e tutti hanno il diritto di esprimere giudizi -, anche
limitati al “mi piace” o “non mi piace” -, però c’è qualcuno che sente ancora
la differenza tra esibizione e sostanza, tra le frasi ad effetto e la poesia
vera, tra Eros Ramazzotti (che pure rispetto) e Leonard Cohen?”, domanda
apertamente Zucchi, attingendo alla sua ben nota passione per la musica per una
efficace metafora. La sua valutazione, in realtà, non sembra essere così
isolata. Solo qualche settimana, nell’anteprima del campus dell’Università
Bocconi di studio Sanaa, anche Alessandro Benetti su Artribune aveva fatto
riferimento a una “Milano che negli ultimi anni ha fatto il tutto esaurito di
incubi scultorei da archistar di serie B”.
MA FARE QUALCHE NOME?
Centrata e opportuna la riflessione di Cino Zucchi. Centrata perché in architettura e in urbanistica si può sempre migliorare per cui ogni critica è una opportunità. Opportuna perché l’unico rischio dell’abbrivio entusiasta milanese di questi tempi è autocompiacersi: Milano continuerà a crescere solo se continuerà a mettersi in discussione, a criticare se stessa, a mantenere la capacità di vedere gli errori (tanti) che affiancano le cose buone (tantissime).
Il grande architetto però resta sul teorico. A quali progetti si riferisca in pratica non è dato sapere. Di più: fa esclusivamente riferimento ai progetti che gli piacciono ma non menziona quelli che non gli garbano e che, addirittura, stanno pregiudicando la città di domani. Delle due l’una. O quello di Zucchi è un monito per i prossimi concorsi (a brevissimo si decideranno i vincitori per realizzazioni importantissime, sempre nell’area di Melchiorre Gioia al posto di vecchi edifici che saranno trasformati o demoliti) oppure è una reticenza per evitare polemiche e restare nella pacatezza.
Ma forse fare qualche nome e indicare qualche progetto non particolarmente indovinato potrebbe essere utile. Qualche esempio? Ad esempio, l’ultimando Gioia22, proprio nell’area di Melchiorre Gioia ovvero nel nuovo scintillante centro direzionale a pochi passi dalla stazione centrale, a firma di Cesar Pelli. Oppure tutta l’area a sud della Fondazione Prada sviluppata dalla società Covivio sotto il brand “Symbiosis”, che sta uscendo dall’abbandono trasformandosi in appetibile quartiere per uffici all’insegna di architetture non propriamente avvincenti e inconfondibili. O ancora, non distante da qui, la nuova prevista sede-grattacielo della multiutility A2A, che ‘affaccerà’ proprio sul progetto di Rem Koolhaas e infine, sempre restando ai progetti firmati da Antonio Citterio e Patricia Viel che sembrano destinati nel bene e nel male ad essere i principali interpreti della nuova Milano, il development denominato Gioia20: qui è stato fatto un concorso, c’erano tante proposte coraggiose, è stata scelta quella più… normale. O, meglio, più in grado di tenere bassi i costi di costruzione e alte le potenzialità commerciali. A discapito – questa è la questione – della creazione di un profilo urbano immaginifico e unico?
CINQUE STORIE DI PERIFERIE ITALIANE, GRANDI E COMPLESSE. SCUOLA, LAVORO, CASA, RELAZIONI SOCIALI IN CUI OGNUNO DEVE ARRANGIARSI DA SE,’ SENZA LA POSSIBILITA’ DI ALTRO DESTINO.
“Valentina ha due enormi occhi azzurri, belli e brillanti, e
i capelli neri, lisci e lunghi. Abita con la nonna a Tor Bella Monaca, all’R4,
il comparto che si trova in fondo a via dell’Archeologia, al primo piano di una
delle stecche che si affacciano davanti alla scuola elementare. I genitori di
Valentina vivono da qualche parte della città, chissà dove. Sono entrambi
tossicodipendenti e a Tor Bella Monaca non ci tornano da quanto lei era ancora
una bambina”.
Inizia così il racconto del quartiere romano che torna periodicamente al centro delle cronache, basate su fatti colmi di tensione e, spesso, vera e propria violenza. È una delle cinque storie di periferie italiane raccolte da Adriano Cancellieri e Giada Peterle (Quartieri. Viaggio al centro delle periferie italiane, Becco Giallo, 2019) e disegnate per riportare su carta pezzi di quei mondi di cui generalmente non ci interessiamo, salvo quando, all’indomani di una tornata elettorale, ci viene spiegato che sono queste le aree delle grandi città che si vendicano di essere stati abbandonate, di volta in volta dal comune, dalla regione, dallo Stato. Mondi tutt’altro che piccoli, molto complessi e molto diversi gli uni dagli altri, certo, ma anche al loro interno. Sono vere e proprie città, con decine di migliaia di abitanti ciascuna.
In questo libro, chi ha studiato le periferie di Milano (San
Siro), Padova (Arcella), Bologna (Bolognina), Roma (Tor Bella Monaca) e Palermo
(Zen) introduce il racconto riportato dai diversi disegnatori, uno diverso per
ciascun capitolo (Elena Mistrello, la stessa Giada Peterle, Mattia Moro, Alekos
Reize, Giuseppe Lo Bocchiaro). Un piccolo viaggio, prezioso perché riesce
nell’intento di rendere in modo piano ma non appiattito alcune situazioni di
marginalità, ma anche le esperienze riuscite per ricostruire un tessuto sociale
molto frammentato, il cui peso ricade interamente su chi abita spazi a lungo
trascurati, se non completamente lasciati a sé stessi dalle istituzioni.
Dalla lettura nasce il desiderio di approfondire i singoli
casi urbani, ricercando le potenzialità che stanno mano a mano emergendo, per
provare a capire quanto le diverse esperienze potrebbero essere esportate o,
almeno, potrebbero rappresentare spunti su cui lavorare in altri contesti. Le
singole storie, che danno conto della realtà che muta davanti ai nostri occhi
ma che noi, il più delle volte, non scorgiamo neppure, ci riportano a questioni
molto concrete, che altro non sono se non – banalmente – gli incroci che ogni
individuo si trova davanti nel proprio specifico percorso di vita. La scuola,
il lavoro, la casa. La capacità di tenere in piedi relazioni sociali. La
possibilità di allontanarsi da un destino che, come si dice, appare spesso
segnato, dove le famiglie non hanno la forza né, a volte, la capacità di
aiutarti.
Che significa, alle soglie degli anni Venti del nuovo
secolo, vivere nelle case popolari di San Siro, ad esempio? Che tipo di
integrazione possibile tra italiani e stranieri segna nella realtà le scuole di
Arcella? Se hai sedici anni e stai a Tor Bella Monaca, quando ti chiedono da
dove vieni ti viene da dire piuttosto “sulla Casilina”. E questa immagine che
si cerca di dare di sé si ripercuote inevitabilmente sull’idea stessa che si ha
di sé e delle proprie possibilità.
Leggendo i racconti e le introduzioni, si ricompone un
insieme che colloca al loro posto una serie di sensazioni formatesi nel tempo,
sull’incapacità di progettare spazi urbani in base a chi li abita,
innanzitutto. Sull’impossibilità di ripensarli se non con investimenti il più delle
volte poco mirati, incapaci di riconoscere le forze di cambiamento sociale che
lavorano dal basso per modificare (di nuovo) il tuo destino. La creazione di
spazi pubblici è spesso conseguenza dell’occupazione di strutture abbandonate:
ecco l’illegalità da reprimere, priorità assoluta di gestioni profondamente
segnate da criteri di stampo neoliberista. La resilienza, come si dice, è il
più delle volte originata da iniziative private, di singoli e associazioni, che
raramente trovano il sostegno delle amministrazioni. L’idea che sembra dominare
la percezione di chi amministra è di luoghi abitati da minoranze (alla faccia
dei numeri: 28 mila persone a Tor Bella Monaca, 44 mila ad Arcella, 16 mila
allo Zen di Palermo) che non contano. “Quartieri resilienti ma allo stesso in
pericolo”, come scrivono i curatori nella loro introduzione al volume, “che si
presentano come laboratori quotidiani, decisivi campi di lotta per l’evoluzione
e la costruzione delle città del futuro”. A questo bisognerebbe guardare per costruirsi
in testa un’idea di futuro possibile per le nostre città, mettendo
definitivamente da parte l’ossessione per il degrado e la sicurezza (di chi
abita nel cuore dei centri urbani, però) che sembra dominare gran parte delle
nostre politiche urbane.
Da tutto quanto di buono (e non è poi così poco) accade in
queste luoghi a lungo abbandonati c’è molto da imparare per la città tutta. C’è
da imparare a ricostruire la comunità, a ridurre la frammentazione che ha
spezzato le catene della solidarietà trasformando il vicinato in un intralcio,
a rivedere le difficoltà crescenti nei rapporti tra individui e famiglie, a
cominciare dal rapporto con gli stranieri, nei diversi ambiti. A partire dalla
scuola, dove a lungo gli squilibri e le conseguenti difficoltà nel tenere
insieme bambini e ragazzi dalle origini famigliari anche molto diverse hanno
acuito i problemi, anziché smussarli. Per “rigenerare” (parola urbana magica
del XXI secolo) davvero le nostre città e togliere ossigeno alle
strumentalizzazioni della politica becera e violenta che oggi sembra non
trovare quasi ostacoli al suo proliferare. Perché Valentina, che abbia gli
occhi azzurri o invece due occhi neri che spiccano sotto lo hijab, possa
credere in un futuro di cui lei stessa sarà l’artefice.
Un ambiente, quello australiano, di una ricchezza grande come i suoi cieli che pare non finiscano mai. Affascinante, potente e unico. Così anche il fuoco è parte della vita
Ben di mestiere appicca incendi. È nato nel bush,
quella boscaglia talvolta fitta di alberi talaltra composta da arbusti gialli,
bassi e puntuti che contorna l’Australia; è cresciuto in una giungla in cui i
pitoni fanno compagnia agli ananas e ai bufali e ha una solida consapevolezza
del territorio. Conosce le piante, le impronte e i versi degli animali, parla
la lingua degli aborigeni, sa regolarsi con l’alternarsi delle stagioni e
con un clima che pare funzionare per estremi: estremamente umido o estremamente
caldo, a tratti secco come terracotta altre volte travolto dalle spirali
violette dei cicloni.
Ben lavora per un’agenzia governativa nel Northern
Territory, lo Stato con la minore densità abitativa d’Australia, un
rettangolone che va dal Mare di Timor, tropicale e verdissimo, fino ai deserti
centrali ventosi, pietrosi e sciapi. Lo Stato che custodisce il cuore
dell’isola, che batte rosso nella mitica Uluru, la grande roccia, il luogo dove
per millenni le famiglie aborigene trovarono riparo e acqua, dove storie e
tradizioni venivano narrate e condivise, dove ai ragazzini si insegnavano le
regole della vita.
Gli incendi in Australia ci sono sempre stati. La natura
del suolo e della vegetazione, il clima nella parte centrale da milioni di anni
in prevalenza arido, sono tra le cause principali. Da quarantamila anni gli
incendi fanno parte dell’ambiente, come sanno e dicono coloro che vi abitano da
sempre e per i quali il fuoco ha un valore concreto e, contemporaneamente,
simbolico e spirituale. Non un nemico di cui avere paura ma, al contrario, uno
strumento.
Il fuoco è parte della vita, è un elemento da
osservare, da capire e con il quale confrontarsi. Intorno a esso gli
aborigeni costruirono e trasmisero conoscenze che avevano una doppia
finalità: la prima, più evidente, era evitare che fiamme incontrollate e
incontrollabili mangiassero ettari ed ettari di terreno e che mettessero a
repentaglio la vita di esseri umani, fauna e piante; la seconda era contribuire
al mantenimento del suolo e al suo stato di salute.
Per fare questo, praticavano una tecnica di incendi
di natura preventiva: incendi bassi, delimitati e controllati che permettevano
la sopravvivenza e il rinnovamento del terreno. Affinché fossero
sicuri ed efficaci era necessario saper leggere in profondità l’ambiente, avere
una grande dimestichezza con le condizioni climatiche e naturali: aspetti,
questi, che erano parte fondante della loro quotidianità. Perché queste genti
per millenni abitarono spazi enormi e spesso difficili, per millenni tramandarono
cantandole le storie e le caratteristiche della terra, degli animali e degli
esseri mitologici: questo ne fa dei poeti e dei saggi conoscitori.
I fuochi volontari dovevano essere appiccati al momento
giusto e servivano a delimitare il propagarsi, nei mesi più caldi e asciutti,
di quelli provocati dai fulmini o dal vento. Allo stesso tempo,
contribuivano a rigenerare l’ecosistema, alla sua biodiversità. Agivano cioè in
sintonia con i ritmi della terra: attiravano animali che venivano cacciati,
arricchivano il suolo di cenere, che agiva come fertilizzante, rendevano il
terreno più ricco di minerali e di fonti di sostentamento e “pulivano” il
suolo, bruciando foglie secche e cortecce, entrambe altamente infiammabili.
Gli aborigeni hanno una bella definizione per queste
tecniche: le chiamano“fuoco culturale” (cultural
burning). “Culturale”, sì, perché basato su una somma di saperi
preziosa, fatta di consapevolezza, rispetto e volontà di preservare l’ambiente.
Ben di lavoro fa quello che le genti originarie hanno sempre fatto. Studia
tempi e spazi, analizza il terreno, percorre chilometri e chilometri,
interpella e avvisa le persone, controlla i venti, delimita e monitora le aree
di intervento.
Lo fa nello Stato con la più alta percentuale di popolazione
aborigena, che sfiora il 30% (negli altri Stati la media supera di poco il 3%).
Nel Northern Territory il governo opera congiuntamente con le popolazioni
indigene e integra le tecniche degli “incendi tradizionali” con altre
strategie, assolutamente necessarie in un Paese che ha vissuto rilevanti
cambiamenti antropici e di sfruttamento del suolo negli ultimi 230 anni, cioè
con l’arrivo e la colonizzazione britannica.
Va specificato che questi metodi sono utilizzati anche in
altri Stati australiani: sinora, però, in maniera circoscritta e locale. La
tecnica del fuoco prescritto, d’altra parte, è stata usata a partire dalla
prima metà del Novecento anche in diversi ambienti forestali, arbustivi, di
savana e prateria del Nord America, dell’Asia e dell’Africa nonché, dagli anni
Ottanta, in alcune regioni italiane.
Ben mi racconta che per dare fuoco al bush bisogna
avere una profonda esperienza del quando e del come. È fondamentale
appiccare il fuoco al momento opportuno, in modo che non arrechi danni. Il
periodo in cui si concentra questo lavoro è l’inizio della stagione secca, a
partire dal mese di aprile. Allora abitualmente le piogge dei mesi precedenti
lasciano il posto a giornate umide, ma con cieli perlopiù limpidi. Il bush è
verde ma non ancora arso. Se l’incendio volontario viene appiccato troppo
presto, c’è il rischio che gli arbusti abbiano tempo a sufficienza per crescere
e svilupparsi nuovamente, diventando un potenziale combustibile. Se, al
contrario, si arriva tardi, la vegetazione sarà assai più secca e, quindi, più
incline a bruciare.
In questo periodo capita, percorrendo le lunghissime strade
del Paese, di filare di fianco a terra nera che alita calore, sotto un cielo
spesso e acre di fumo. Capita anche di vedere un camioncino bianco con il
simbolo del Northern Territory fermo in prossimità di un cartellone a forma di
mezza luna: un uomo con pantaloni cachi e scarponi sta regolando una lancetta
gialla. La mezza luna ha spicchi di colori differenti che aggiornano sul
livello di pericolo incendi: verde vuol dire moderato, azzurro sta per alto,
giallo molto alto, rosso è estremo. L’ultimo spicchio, rosso acceso, indica uno
stato catastrofico.
Ben dà fuoco alla boscaglia utilizzando una fiamma bassa
per far sì che non brucino gli alberi, prezioso elemento ambientale oltre
che dimora di uccelli, marsupiali e altri animali. La terra bruciata crea una
barriera che impedirà agli incendi che dovessero sorgere spontanei di
diramarsi. Il “fuoco freddo” va appiccato di notte o di mattina presto, quando
di norma il vento è più lieve e non è ancora sorto il sole, che incoraggia le
fiamme. L’incendio si propaga con lentezza, non bruciano i semi delle
piante e non si distruggono né le radici né le chiome degli alberi.
Nell’isola abbondano gli alberi resinosi: i più diffusi sono
gli eucalipti, dalle foglie molto oleose. Quando prendono fuoco, queste foglie
crepitano e scoppiettano come fuochi d’artificio in miniatura, le fiamme salgono
rapide e le chiome diventano palle di fuoco: se c’è vento, queste palle si
diramano di cresta in cresta a grande velocità (anche dieci chilometri orari),
espandendosi e allargandosi per giorni. Li chiamano cacatua fire perché
in qualche modo fanno venire in mente i cacatua, grossi pappagalli bianchi con
una folta cresta gialla.
“I cambiamenti climatici e la siccità degli ultimi anni
hanno un peso rilevante nel fenomeno degli incendi”, dice Ben, l’uomo del
fuoco. Sono le cinque di pomeriggio a Katherine e la sua giornata è terminata:
ci troviamo a fare il bagno nelle pozze termali appena fuori dalla cittadina.
“Di fronte a quello che sta accadendo le tecniche tradizionali, anche se
fossero applicate in maniera diffusa, non sarebbero sufficienti né risolutive.
Per questo attuiamo i cultural burning in concomitanza con
altre politiche di riduzione del pericolo di incendi e con interventi adattati
alla vita contemporanea. Tuttavia, sono convinto che diffondere queste
conoscenze e metterle in pratica in maniera ampia ci aiuterebbe a preservare e
conservare l’ambiente”.
La linea delle gambe, lentamente definita dall’obiettivo con un filo di luce, anzi con un velo d’ombra, quasi a richiamare la carezza di seta delle calze. Il taglio dell’abito che, nel chiaroscuro, fa monumento del corpo nel momento stesso in cui lo nasconde, invitando l’osservatore a guardare, cercare, rincorrere la bellezza, sognandola oltre il visibile. Poi, il viso, disegnato nel gioco di palpebre rigorosamente chiuse a contrasto con labbra morbide a suggerire un inatteso e fintamente rubato languore.
Infine, il fumo, voluta bianca che si fa sipario, dichiarando la natura della figura ritratta, non più semplice donna, ma diva: Marlene Dietrich. È nel movimento dello sguardo, ricreato e sollecitato, la seduzione degli scatti di Helmut Newton nato Helmut Neustadter – maestro dell’obiettivo, grande firma della fotografia di moda, più in generale artefice e narratore di una bellezza emozionante, sensuale, altamente materica e al contempo intellettuale.
A sedici anni dalla morte dell’artista, di cui oggi ricorre l’anniversario è scomparso il 23 gennaio 2004 a West Hollywood e a cento dalla nascita, il 31 ottobre 1920 a Berlino, la GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino dal 30 gennaio al 3 maggio ospita la retrospettiva Helmut Newton. Works, promossa da Fondazione Torino Musei e prodotta da Civita Mostre e Musei con la collaborazione della Helmut Newton Foundation di Berlino.
Dagli anni 70 con le molte copertine per Vogue al ritratto di Leni Riefenstahl del 2000, l’esposizione, curata da Matthias Harder, direttore della fondazione tedesca, presenta sessantotto fotografie – tra i set preferiti dal maestro, il suo garage a Monaco – selezionate per illustrare la lunga carriera di Newton, nonché la sua filosofia di scatto. «Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare – diceva – tre concetti che riassumono l’arte della fotografia».
Allievo della fotografa Yva, pseudonimo di Else Simon, specializzata in ritratti, nudi e foto di moda, Newton costruisce il suo sguardo in giro per il mondo. Nel 1938 lascia Berlino per raggiungere Trieste, poi lavora come fotografo a Singapore, nel 1940 si arruola nell’esercito australiano, dalla metà degli anni 50 compie vari viaggi in Europa. Nel 1956 firma un contratto con l’edizione britannica di Vogue. Nel 1961 inizia a lavorare a tempo pieno a Parigi per l’edizione francese del magazine. In città, nel 1975 tiene la prima mostra personale. L’anno seguente pubblica il primo volume di foto, White Women. Ormai ha conquistato il successo. Internazionale.
Intanto, si è sposato, nel 1948, con l’attrice June Brunell, che, con il nome di Alice Springs, nel 1970 inizierà la carriera da fotografa, sostituendolo, mentre è malato, per una pubblicità di sigarette. Nel 1971, Newton ha un infarto a New York. Ciò non ferma, né rallenta la sua carriera, che prosegue tra mostre, libri, cover, il calendario Pirelli – nel 2014 The Cal, in occasione dei 50 anni, ha pubblicato suoi scatti censurati nel 1986 – premi, fino alla morte a Los Angeles, un anno prima della realizzazione della Fondazione a lui dedicata.
«La fotografia di Helmut Newton, che abbraccia più di cinque decenni, sfugge a qualsiasi classificazione e trascende i generi, apportando eleganza, stile e voyeurismo nella fotografia di moda, esprimendo bellezza e glamour e realizzando un corpus fotografico che continua a essere inimitabile e ineguagliabile»,spiega Harder.
Tramite il suo obiettivo, capace di donare una patina di perfezione e soprattutto desiderio a ogni soggetto, Newton invita l’osservatore a spiare il mondo. Gli presta i suoi occhi. Lo rende partecipe di momenti unici. E personalissime intuizioni. «Helmut è un gran manipolatore per June Newton – Sa esattamente quello che vuole ed è implacabile nel cercare di ottenerlo sulla pellicola. Gli piace la teatralità della fotografia. Le modelle diventano le sue creature, i suoi personaggi». Così, nei suoi scatti di moda, l’eleganza algida di alcune modelle è distacco studiato ad accendere le fantasie.
I ritratti dei personaggi noti, invece, si fanno paradossalmente più vicini. Davanti al suo obiettivo, Marlene Dietrich è il mito incarnato. Andy Warhol è il dio umanizzato, ritratto dormiente, come morto. In questo chiaroscuro di personaggi composti o scomposti ad arte, Newton racconta il 900, tra aspirazioni, fantasie e modelli. Ecco allora Gianni Agnelli, Paloma Picasso, Catherine Deneuve, Anita Ekberg, Claudia Schiffer, Debra Winger. Ed ecco anche i servizi per le grandi Maison, da Mario Valentino a Thierry Mugler. Poi, i nudi. Non sono solo immagini, ma icone del secolo, strumenti per indagarlo, documenti per raccontarlo. Elementi di narrazione del suo immaginario e spunti di costruzione di quello collettivo. «Non m’interessa il buon gusto. affermava – Mi piace essere l’enfant terrible».
Helmut Newton in mostra a Torino nel 2020. Un inizio d’anno in grande stile alla GAM di Torino con la mostra “HELMUT NEWTON. Works” a cura di Matthias Harder, curatore della Helmut Newton Foundation di Berlino, e organizzata da Civita Mostre Musei. FINO AL 3 MAGGIO.