NAPULE MIA

NAPULE MIA

Milioni di visualizzazioni su YouTube, ammiratori da tutto il mondo. Non serve esserci nati per scegliere la città partenopea. Basta mettere al centro la musica e vestirsi della sua lingua. Così disincanto ed enfasi hanno reso eterne certe canzoni.

Caro Jovanotti, lascia perdere Caruso e Lucio Dalla. Sì, perché le due riscritture del celeberrimo brano, presentate dal cantautore romano quest’estate, sono solo un’eco smorzata dell’originale, che fu la più compiuta parafrasi di una canzone napoletana. Riuscì per caso magico a Lucio Dalla ed è storia nota. Costretto a fermarsi una notte a Sorrento, al Grand Hotel Excelsior Vittoria ebbe la suite dove Enrico Caruso aveva trascorso gli ultimi giorni di vita nel 1921.

Sorrento, grand hotel Vittoria

Fantasticando, fumando e riflettendo nelle sparute ore insonni, Dalla abbozzò le parole e la modesta cellula melodica. Da un testo che ricombina (e scombina) Dicitencello vuje e Te voglio bene assaje, con romantica imprecisione, alle vicende biografiche del grande tenore, sortì la straordinaria operazione alchemica di una canzone che avrebbe scavalcato gli oceani.

Lucio Dalla

A oggi, 40 milioni di visualizzazioni su YouTube attestano un successo che dal 1986 ha sbriciolato ogni critica e se n’è beffato, mentre lo interpretavano anche Pavarotti, Murolo, Bocelli, Al Bano. I commenti degli internauti americani, francesi, brasiliani, romeni, spagnoli attestano Caruso fra i brani d’amore più belli presumendolo nel repertorio storico napoletano. Alle creazioni destinate a diventare un classico succede così, che, appena pubblicate la loro nascita, si smarrisce in una nuvola priva di tempo in cui la data non risulta necessaria. Al di là del pregio artistico e al di qua della filologia.

Per la riuscita, Dalla adoperò tre ingredienti tutti legati alla peculiarità di Napoli: la lingua, il protagonista della storia e lo scenario – Sorrento – dove persino il cuore di cinesi e giapponesi sa che bisogna tornare (anche se i fratelli De Curtis composero il rinomatissimo Torna a Surriento con l’intento pragmatico di salutare il presidente del Consiglio, Giuseppe Zanardelli, che terminava una vacanza nel 1902, per perorare l’apertura del sospirato ufficio postale nella cittadina). E’ al panorama delle “notti là in America” immaginate oltre il Golfo che Caruso s’era rivolto, ottenendo contratto stabile e duratura fama al Metropolitan di New York; ma è il Golfo il panorama di cui ha beneficiato la canzone di Dalla e che ha accompagnato il successo globale di incanti e disincanti della fiction negli anni più recenti, come L’amica geniale di Elena Ferrante. Anche laddove il mare si vede poco o niente perché, parafrasando un titolo abusato di Anna Maria Ortese, non bagna certi lembi della città.

C’è sempre desiderio di Napoli nel mondo, sicché vestirsi della sua lingua anche se non è la propria, a patto di amarla, ha funzionato da lasciapassare artistico per Dalla come per l’ornamentale napoletanismo di Renzo Arbore con la sua Orchestra Italiana. Filologi e puristi storcono il naso ma infine se ne fanno una ragione. E’ il destino di un’ex capitale: la bigiotteria finisce in vetrina assieme alle gemme e all’oro a diciotto carati. Non potrebbe essere altrimenti per la città che ha coltivato, anche dopo il dissolvimento del Regno, il concetto immateriale di “nazione napoletana”, come la definì Antonio Ghirelli. Napoletano pertanto s’è fatto Arbore il foggiano come napoletano si fece l’altro pugliese Domenico Modugno, cantando Resta cu’ mme o Tu sì ‘na cosa grande (reinterpretata successivamente da Renato Zero) oppure, con le parole del “partenopeo in esilio” doc, Riccardo Pazzaglia, intonando Io, màmmeta e tu, Lazzarella e ’O ccafè del 1958.

Fabrizio de André

Fu un ricalco musicale di quest’ultima l’ironica Don Raffaè di Fabrizio De André, al quale nel 1990 riuscì l’operazione alchemica sulla base dei tre ingredienti ben sposati alla peculiarità di Napoli, di cui due già usati da Dalla: la lingua e il personaggio, in questo caso non il tenore incantatore ma il disincantatore boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo; per terza cosa, invece dello scenario iconico (Sorrento), l’artista genovese sfruttò il topos della napoletanità: il caffè, secondo solo alla pizza o terzo considerando il mandolino. La differenza, notò lo scrittore Francesco Durante, è che nel brano di Modugno la musica resta in modo minore, mentre in De André “dopo il minore dell’introduzione, il ritornello si scioglie in un rassicurante maggiore”. Non sono dettagli: il marchio del neapolitan sounding ha poggiato oltre che sulla lingua su riconoscibili stilemi armonici, di cui l’accordo di sesta napoletana resta principe per chiunque voglia imprimere a una composizione coloritura vesuviana. Questa fu arte, o mestiere, dei maggiori musicisti della canzone classica, primo fra tutti Mario Pasquale Costa, tarantino di madre e di nascita come Giovanni Paisiello, ma per l’altra metà e per formazione napoletano (come il maestro Riccardo Muti, nativo di Molfetta però napoletano di madre). Costa campeggia nel repertorio fra Otto e Novecento, epoca d’oro della canzone, fosse solo per avere messo in musica Era de maggio di Salvatore Di Giacomo e Scétate (diluvio di seste napoletane e spagnolismi) dell’altro straordinario poeta Ferdinando Russo. Quando non era ancora New York ma Parigi la capitale artistica del mondo, e la metropoli che più influiva sulla cultura e i gusti napoletani, Costa seppe fare importexport di suggestioni artistiche tra i café chantant del Vesuvio e quelli della Ville Lumière, intercettando con una canzone di cui scrisse anche il testo il fenomeno imponente delle sciantose: ’A Frangesa, la francese, sapida parodia di una di queste Sirene minori e incantatrici, improbabili ma seducenti, zoccole e dive, fini e ignoranti, che scipparono cuori e portafogli della meglio gioventù (ma anche della peggior vecchiaia) napoletana fra il Salone Margherita e il Cirque des Variétés.

Napoli: salone Margherita

Incanto e disincanto che la colonia dei “napoletani a Parigi” (pittori, letterati, giornalisti) assaporava nel pendolarismo fra le due città, a dispetto del lungo viaggio in treno passando per Torino e Modane, scendendo all’alba nella capitale francese e prendendo alloggio – se le finanze permettevano – al modernissimo Hotel Terminus (oggi Hilton Paris Opera) dotato di tutti i comfort elettrici, persino il controllo centralizzato delle luci nella stanza, dove facevano il pieno di stranianti avventure che avrebbero descritto (esagerando o sminuendo) una volta tornati al Caffè Gambrinus o di cui avrebbero scritto sulle pagine del Mattino.

Caffé Gambrinus, Napoli

Quelle avventure diventavano qualche volta canzoni e le canzoni si riversavano nella vita confondendo biografia e musica, amore e disamore: nella parodia del maestro Costa sulla sciantosa o nella tragedia del maestro Carlo Mirelli, il quale riarrangiando il pezzo La regina del contado per la divetta Yvonne De Fleuriel se ne invaghì troppo e – respinto – si uccise gettandosi dal balcone. Profetici erano i versi sciapi della canzone: “La mia bocca non si bacia, no! La mia mano non si tocca, no!”. Ma Mirelli seguiva più la melodia che il testo e notava più i brillanti che lei s’era fatta incastonare nei denti che le parole pronunciate da quella bocca inespugnabile. In realtà Yvonne, proprio come la Frangesa di Costa e molte altre colleghe, di parigino aveva solo il nome d’arte. Si chiamava veramente Adelina Croce e veniva da Teano, ma francesi o italiane che fossero queste Sirene in paillettes nel loro strascico di incanti tramutati in disincanti sarebbero inciampate per prime. Come Gabrielle Bressard, infatuata del giornalista Edoardo Scarfoglio e suicida davanti alla soglia di casa sua. Come Maria De Browne, uccisa per gelosia dallo scultore Filippo Cifariello, che l’aveva sposata, dopo una lite esacerbata all’alba dallo champagne in una pensioncina di Posillipo.

Per fare scudo al cuore bisognava ricorrere a un minimo sindacale di cinismo ma meglio se era di più, come quello di cui era dotato per indole e mestiere il re dei cronisti mondani, Ugo Ricci: “Tina Perla, mal fatta e mal vestita, / gesticola, sgonnella, si dimena… / Io distolgo lo sguardo dalla scena / e m’occupo a sorbir mezza granita”. O bisognava avere l’ironia di Costa e di un altro musicista baciato dai trionfi, Francesco Paolo Tosti, il quale si struggeva di nostalgia per Napoli ma s’era splendidamente sistemato a Londra…… E non sorprende che il padre del romanziere, Antonio, anch’egli giornalista, avesse vinto nel 1958 un Festival di Napoli come paroliere di Vurria, musica di Furio Rendine, dedicata alla nostalgica rievocazione della città (e di una donna) da cui si è andati via: “Vurria turnà addo te, / pe’ n’ora sola, / Napule mia, / pe’ te sentì ‘e cantà / cu mille manduline”. Il sentimento della lontananza fu epica e retorica di un mondo migrante che neppure sognava la futura globalizzazione. Ci avrebbe ricamato ancora Paolo Conte nel suo sconclusionato pseudonapoletano di Naufragio a Milano del ’75. Ma a Conte e Dalla quasi tutto si può perdonare, come suggeriva Francesco Durante, anche se le parole di Caruso “non hanno alcun significato. Come può una catena (una catena, non una passione), ‘sciogliere il sangue dentro le vene’?” si domandava. Eppure per quei milioni di appassionati che la cercano su YouTube sembra un meraviglioso omaggio d’amore……

Estratti dall’articolo di Francesco Palmieri per Il Foglio Quotidiano

In copertina un quadro di Giuseppe Zollo

RILEGGENDO SPOON RIVER

RILEGGENDO SPOON RIVER

Fernanda Pivano con Ettore Sottass 1969

Rileggendo Spoon River ho ripensato a Fernanda Pivano, scomparsa nel 2009 all’età di 92 anni, dopo una penosa malattia. La sua vita si intreccia subito con l’intellettualità piemontese: Primo Levi è suo compagno al liceo D’Azeglio, Cesare Pavese il loro insegnante di italiano. Si diploma in pianoforte al Conservatorio di Torino, poi si laurea in filosofia con Abbagnano. Sposa Ettore Sottsass, architetto di grido, marito infedele che le rende la vita tormentata. La sua opera di traduttrice resta ancora oggi insuperabile per le opere di quegli autori americani della beat generation, a lei così congeniali e ai quali si legò in vita di amicizia e per comunanza di ideali: Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti e altri.

Per ricordare i suoi ultimi anni ho voluto riportare una pagina, la 1529, del suo Diario 2007-2009, edito da Bombiani, nella quale Fernanda Pivano, con accenti amari, ci dice di sè e della sua vecchiaia, tracciando un ritratto di quegli anni gravidi di incertezze e di minacce per l’umanità.

Nella chiusura del brano, Fernanda Pivano si ricollega alle poesie di Spoon River di Edgard Lee Master, che ispirarono un album di canzoni al cantautore Fabrizio De Andrè e in particolare al Suonatore Jones: “Finì con i campi alle ortiche, finì con un flauto spezzato, e un ridere rauco, e ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto”. Vivere i 90 anni come un gioco è viverli, appunto, senza rimpianti. Una parabola bella e struggente che pare abbia accomunato il cantautore genovese e la scrittrice, come due compagni di viaggio, come quelle anatre selvagge che vanno… vanno.. perché bisogna andare.

Il 4 settembre 2011 viene presentato alla 68ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Controcampo italiano, il docufilm Pivano blues – Sulla strada di Nanda, con Fernanda Pivano e Abel FerraraLorenzo Cherubini “Jovanotti”, Piero PelùVasco RossiFrancesco GucciniLuciano LigabueFabrizio De AndréDori GhezziMarco Castoldi “Morgan”, Premiata Forneria MarconiVinicio CaposselaJay McInerneyErica JongPatti SmithLou Reed.

Pivano con Hemingway

“..Ho sempre cercato di vivere di passioni e tutto questo non riporta solo alla disperazione dei miei anni, con le vene che non reggono alla pressione di una semplice iniezione. Ahimè. E’ difficile trovare il coraggio quando si sono superati e novant’anni, quando ti guardi intorno e ti senti perdente e sconfitta per avere lavorato una vita scrivendo esclusivamente in onore e in amore della non violenza e vedere il pianeta cosparso di sangue.

Ma c’è una cosa che mi fa sperare, che mi fa credere ancora nella pace, che mi dà la forza di aiutare i giovani. Credo che il mondo abbia voglia di ricominciare a sognare..

Fernanda Pivano con Jack Kerouac

A questi ragazzi di diciotto anni che mi mandano le loro poesie, i loro racconti, i loro auguri e mi chiedono suggerimenti per superare le tragedie della vita non so cosa rispondere.

Pivano con De Andrè

Ma per me questi giovani sono una grande, meravigliosa, consolazione. Il segno che qualcosa che io ho fatto ha lasciato un piccolo segno, un piccolo seme.

E allora dico loro di sperare. Di battersi per vivere in un mondo senza guerre… di sorridere senza rimorso di non avere aiutato nessuno.

Forse questo è il segreto per riuscire a sopravvivere anche a questa età. Forse è questo il segreto del vecchio suonatore Jones dello Spoon River caro alla mia giovinezza, che giocò con la vita per tutti i novant’anni”

A TESTA SGHEMBA

A TESTA SGHEMBA

Volumi sul comodino: «I Promessi sposi: è un libro meraviglioso, ma non dovrebbero più infliggerlo a scuola. All’epoca era un obbligo da studiare e nella mia testa di ginnasiale l’imposizione uccideva il fascino letterario. Se fosse rimasto nascosto come Jukebox all’idrogeno, ai nostri occhi Manzoni sarebbe forse diventato alternativo come e più di Ginsberg». Nel mezzogiorno di marzo, davanti a un bicchiere di bianco, in un bar a due passi da casa, Francesco De Gregori trasforma il marciapiedi nella piazza di un paese. Passa un ragazzo, lo saluta: «Lui è Stefano, il più bravo tabaccaio di Roma, mi trova le Gauloises, anche se per essere il migliore del mondo dovrebbe sforzarsi e portarmi le Senior Service».

 

Ancora tre settimane e questo fumatore compulsivo che accende sigarette e inventa capolavori con la stessa lieta indifferenza di chi ha trovato una porta segreta tra cielo e terra compirà 68 anni: «Pensare che sono su un palco da più di 50 non mi terrorizza, ma sicuramente mi stupisce. Non ho mai pensato che la mia vita dovesse essere così legata alla musica, non solo come mestiere, ma in senso intimo. Quando scrivevo i miei primi dischi, mi sentivo soltanto uno che aveva preso un treno in corsa».

Un treno da cui scendere in fretta?

«Sì e per diecimila motivi. In famiglia, da mia zia a mio nonno, la musica c’era sempre stata. Ma l’idea di farne una professione era lontanissima e l’ambiente discografico non era proprio il mio. E invece da ’sto treno – un treno che si è fermato, ha rallentato e a tratti accelerato – non ho mai trovato un motivo per scendere».

Perché?

«A bordo non stavo poi così male e intorno ai 40 anni mi sono reso conto che quello ero e che sarebbe stato inutile provare a forzare le cose per tentare di essere o peggio diventare qualcun altro».

Dove ha trovato la sua libertà?

«Nel non costringermi a fare quel che non volevo. Non ho mai avuto un prezzo, neanche quando le tasche erano vuote».

I tempi del Folkstudio.

«In via Garibaldi non c’era un cenacolo di intellettuali, ma un gruppo di amici. Era un’epoca precaria ma felice, ci esibivamo sul palco. Cantavamo canzoni che a volte non trovavano neanche la via per essere incise».

Da dove venivano?

«Dall’ispirazione del momento e dai cassetti che si riempivano di appunti, frasi, graffi e ispirazioni che ogni tanto diventavano melodie».

In rete gira un pezzo intitolato De Gregori era morto. «De Gregori era morto/ucciso dal suo ultimo Lp e dai suoi profeti».

«In qualche modo quella canzone non è più mia e anzi, forse non lo è mai stata. Era anche divertente, ma era scaciata e in fondo non mi piaceva».

Scaciato, vocabolario Treccani: «Miserello, dimesso, trascurato».

«Come quella canzone ce ne sono altre cinque o sei. Pezzi che chiunque potrebbe prendere e firmare sostenendone la paternità con qualche speranza di essere creduto. Ma è normale: un artista fa un quadro che non gli piace, lo mette da una parte e poi arriva qualcuno che dice: “L’ho dipinto io”».

Le altre cinque nel cassetto oltre a De Gregori era morto?

«Una si intitolava Roma Capitale. L’ho scritta nel 1970 per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia: una canzone sarcastica che non ho mai pubblicato. Alcuni amici mi dicono: “Possiamo inciderla noi?”».

E lei cosa risponde?

«Se vi piace tanto, prendetevela».

Non è stato mai geloso del suo ruolo?

francesco de gregori«Del mio ruolo, che non so neanche bene quale sia, proprio mai. Non sono neanche sicuro dell’efficacia di quello che ho scritto trenta o quarant’anni fa, figuriamoci del ruolo».

Rinnegherebbe alcuni dischi?

«Dal punto di vista del suono o dell’arrangiamento più di uno. Salvo solamente i primi e gli ultimi.  Se solo potessi, affronterei gli album che vanno da Terra di nessuno ad Amore nel pomeriggioin maniera completamente diversa. Andrei dritto sulle melodie di base senza creare incisi e ponti musicali che una volta risentiti, anni dopo, stancano e a volte stancano molto».

De Gregori con Lucio Dalla

Ha lo stesso rapporto con alcune canzoni?

«Ho litigato spesso con La leva calcistica della classe ’68. Fino a quando l’ho cantata pensando a me stesso nei panni del bambino calciatore mi è parsa una canzone datata e anche un po’ finta. Ora la canto volentieri perché riflettendoci credo che sul campo non vada soltanto Nino con la sua maglia numero 7, ma un nucleo di vita. Un aggregato umano».

Composto da chi?

«Dalle suggestioni di una persona che tutto desiderava nella vita tranne star fermo. Mi sono mosso e agitato, anche dentro me stesso. Sono partito, sono tornato, ho avuto i miei insuccessi come tutti e ho avuto anche le mie paranoie».

Quali paranoie?

«Scarti d’umore, alti e bassi, momenti in cui si davano il cambio euforie e tristezze».

Il primo successo clamoroso, invece, fu Alice.

«Mi ritrovavo in scena: io, la chitarra che neanche suonavo bene e il palco vuoto. Tutti volevano ascoltare i gatti morire e il sole avvicinarsi tre volte in tre quarti d’ora. Diciamo la verità, Alice era delizia, ma anche croce».

Partiamo dalla delizia.

De Gregori con Fabrizio De Andrè

«Appena accennavo due accordi piovevano applausi da 500 persone. Non posso negare che mi desse una certa soddisfazione. Alice era oggettivamente una hit e l’idea di aver composto una hit non mi dispiaceva».

La croce?

«Cantata Alice, del resto della scaletta, a nessuno fregava più un cazzo di niente. Può darsi che i concerti che sto tenendo a Roma, alla Garbatella, in un piccolo club che può contenere poco meno di 250 persone, rappresentino una rivincita a posteriori sul tempo che fu. Alla Garbatella non faccio più di 4 o 5 hit in tutto».

In questi concerti suona e canta pezzi meno noti della sua infinita produzione.

francesco de gregori claudio baglioni

De Gregori con Claudio Baglioni

«Se mi ritrovo a cantarli con gioia, anche se sono stati scritti 30 o 40 anni fa, entrano nella scaletta. Poi certo, gli anni sono passati e quell’amore a cui mi rivolgevo, quel nome o quella faccia non ci sono più. Ma in quel momento non sto interpretando un periodo, ma un disagio, una sofferenza, un istante di gioia. Bisogna togliere la biografia dalle canzoni e mettere in luce con onestà ciò che è immutabile: il sentimento. Vale anche per le canzoni politiche».

Ne ha scritte?

«La storia siamo noiViva l’Italia. Le ho scritte, certo. Prendendo però sempre le distanze da una certa mitologia della sinistra. Non avrei mai scritto una canzone su Guevara o su Carlo Giuliani».

Come mai?

«Non sono certo un reazionario, ma ho sempre diffidato della superideologizzazione. Non a caso Pablo, temendo sovrapposizioni improprie, lo avevo chiamato collega. Neruda non c’entrava niente e Pablo avrebbe potuto chiamarsi Pedro. Pablo suonava meglio».

Ha scritto Informazioni di Vincent, in cui confessava di essere sempre rimasto indifferente ad Angela Davis, e anche A Pà, dedicata a Pier Paolo Pasolini.

«Ma Pasolini è un artista, un poeta, tutto tranne che un uomo politico e, anzi, Pier Paolo con la politica ci ha sempre fatto a botte».

Anche lei?

francesco de gregori«Da ragazzo, quando mi chiedevano per chi voti, lo dicevo. Quella formula: “Il voto è segreto”, mi sembrava il manifesto del doroteismo».

Oggi?

«Non mi va più di dirlo, né ho mai anelato sostenere pubblicamente qualcuno o peggio esserne sostenuto. Non bramo per abbracciare o essere abbracciato dalla politica, non sventolo vessilli, non mi presto a un ragionamento parziale per vedere il mio pensiero sintetizzato allo scopo di fare casino, vestire una delle magliette di una delle squadre in campo. Preferisco non giocare e se non mi va, magari, evitare di vedere la partita».

La politica per lei ha ancora un senso?

francesco de gregori«Non vivo in una torre d’avorio. Leggo i giornali, vedo i talk show e guardo a quello che succede nella politica. Ho le mie opinioni, quelle che la gente può immaginare benissimo. In questo periodo storico di lacerazione e conflitto planetario, non certo solo italiano, accadono cose dolorose. Ma non mi piace parlare di politica accorciando i ragionamenti e tagliando le cose in maniera schematica come i politici di professione, anche per un ovvio ritorno elettorale, fanno regolarmente. Le ricette suggerite e gli slogan sono quanto mai semplicistici. E io alla semplicità, nella vita, aspiro davvero. Ma nella schematizzazione della politica non mi riconosco. La politica è cosa complicata e su certi temi vorrei sentire ragionare con assunti che vadano oltre lo slogan».

antonello venditti, francesco de gregori e riccardo cocciante

De Gregori con Antonello Venditti e Riccardo Cocciante

Romano Prodi definisce Salvini un razzista tout court.

«Con il massimo rispetto per i bar, luoghi che amo profondamente, nella discussione da bar non entro. La semplificazione di problemi come immigrazione o globalizzazione mi sembra sbagliata e l’uso di una parola così netta, che ha un significato così variabile nella storia del mondo, che si applica a situazioni diversissime: dal razzismo degli Stati dell’America profonda all’antisemitismo europeo del ’900, mi sembra superficiale come spesso è stato l’uso dell’aggettivo fascista o comunista attribuito al nemico politico solo per evitare di scendere sul piano della contestazione critica. Più che razzista, definirei Salvini xenofobo, che vuol dire un’altra cosa anche se i due termini vengono spesso accostati e confusi».

Cosa è per lei il conformismo?

«Volersi appiattire su quello che è un sentire collettivo. Percepire nel mondo che ti circonda una volontà comune, spesso stereotipata, magari cavalcata dai giornali, dalla tv o dagli amici che ti dicono “bisogna esse tutti così”. Desiderare di appartenere a una specie di collegio di persone che la pensano tutte nel medesimo modo e in questo modo si rassicurano. Come diceva Prezzolini, io sono un àpota: uno che non se la beve. Mi piacerebbe essere così, uno che non se la beve, uno che può avere idee difformi, anche rispetto al contesto o alla cultura politica in cui è nato. Uno che non concorda in maniera meccanica e aprioristica, ma ragiona con la propria testa anche se la tua testa è un po’ sghemba rispetto alla morale corrente. A me gli sghembi, gente come Tenco o De André, o, per restare a oggi, Francesco Tricarico, sono sempre piaciuti».

Come mai?

francesco de gregori«Perché mi pare ci accomuni un’indole di fondo. L’illusione di rispondere no a chi ci dice cosa dobbiamo essere o cosa dire o fare. Non lo sopporterei e credo neanche loro. Rimmel nasce proprio dal rifiuto nei confronti della mia casa discografica che voleva farmi fare un disco da cantautore, solo voce e chitarra, perché in quel periodo, secondo il mio produttore Lilli Greco, uno come me doveva sembrare in un certo modo».

Lei lo ha anche cantato: «C’è uno stile di vita/ e un certo modo di non sembrare».

«Infatti ai tempi di Rimmel dicevo: “Bene, allora vorrei fare un disco accompagnato dai Pooh”. Certe facce sgomente avevo davanti, avrebbe dovuto vederle».

FRANCESCO DE GREGORI 2L’avranno ritenuta il solito stronzo, come ha detto ironicamente di voler essere considerato.

«Non è che mi piaccia, intendiamoci. Se un amico mi dice “sei un vecchio stronzo”, può farmi anche bene, ma quando affermo di voler essere il solito stronzo intendo dire che rifiuto di essere innalzato a maestro. Mi sono sempre visto come un uomo normale che fa un lavoro normale: mi rendo conto che agli occhi di chi osserva il mondo di chi fa spettacolo come un’accolita di marziani calati dall’alto la cosa appaia poco credibile, ma a me pare di svolgere quasi un servizio pubblico».

Un servizio pubblico?

«Nella storia, da sempre, l’artista lavora per la gioia degli altri. Quando mi chiamano maestro dico: “Chiamatemi bidello oppure preside”. Di essere considerato un mostro sacro non me ne frega niente. Non ho niente da insegnare a nessuno, anzi, mi capita di imparare ancora molto dagli altri».

francesco de gregori nicola piovani

De Gregori col maestro Nicola Piovani

Ha mai pensato di ritirarsi dalle scene?

«Sono sempre le scene che si ritirano da te. L’idea del gran rifiuto non mi ha mai sfiorato. È capitato anche a me: avvertire fatica o attraversare frangenti in cui il mercato non ha risposto succede, ma non ho mai drammatizzato. Ho sempre pensato fosse un passaggio transitorio e che facesse parte del gioco».

È vero che provò a fare l’attore?

«Ma no, ero amico di Paolo Pietrangeli e un giorno mi propose di fare un provino con Fellini. Al maestro, lui sì che si poteva chiamare così, avrei portato l’acqua con le orecchie. Ma lui cercava un ragazzo bruno e non tanto alto per il suo Roma e invece si presentò questo spilungone roscio. Fellini fu gentile, ma poi si rivolse a Pietrangeli: “A Pà, che ci devo fare con questo bel giovane?”. Fine della storia con il cinema».

Sempre a quegli anni risale una delle sue prime apparizioni televisive.

«Vincenzo Micocci, non so come, aveva trovato a me e a Venditti un passaggio in Rai. Il programma si intitolava Tutto è pop. Io e Antonello arrivammo a Torino dove passai i tre giorni peggiori della mia vita. Per esigenze di scena avremmo dovuto travestirci e giravano abiti che andavano dalla divisa da cowboy a quella di paggio del Settecento. Lo scenografo intimava “te devi vestì così”. E io rispondevo: “Non ci penso neanche, io ho scritto Signora aquilone, lo sa?”. Temevo di sputtanarmi con i miei amici del Folkstudio e volevo andar via. Mi fermarono e vedendo il mio smarrimento mi consolarono, paterni, Claudio Villa e Gino Paoli: “Ma dai Francesco, resta qui, che te frega?”».

LUCIO DALLA E FRANCESCO DE GREGORI

Lucio Dalla e Francesco De Gregori giovani

Che anni erano quelli della giovinezza?

«Anni ribaldi. Vivevo a Trastevere ed ero solo un ragazzo che cercava di emanciparsi anche economicamente in fretta, non tanto per smania libertaria quanto per poter mettere mille lire di benzina in più nella R4 verde mela. Tiravo tardi, conoscevo gente che beveva e fumava, anche se le canne non mi hanno mai appassionato. Ne avrò fumata una in tutta la mia vita».

 

Articolo di Malcom Pagani per Vanity Fair

 

Fuochi d’artificio

Fuochi d’artificio

Fernanda Pivano con Kerouak

Fernanda Pivano con Kerouak

Mi sono accorto che da qualche tempo le mie letture si sono via via spostate verso autori della seconda metà’ del secolo scorso, in quegli anni che hanno coinciso con la mia formazione di adolescente e poi di giovane adulto. E’ una maniera per rivivere le esperienze personali, ma anche per capire cosa è rimasto di valido in quelle idee di allora.

Trovo, ad esempio, nelle Memorie di Fernanda Pivano scene e episodi oppure considerazioni sue o da lei riferite che confermano quanto capriccioso e superficiale sia il giudizio che diamo delle cose che accadono attorno a noi.

Le mode ideologiche e i paraventi di classe sono stampelle interpretative di assai dubbia solidità’, anzi sono spesso la strada certa per giudizi sommari e inconsistenti.

Porto l’esempio del giudizio, ricordato dalla Pivano ( e certo da lei condiviso), espresso da Bob Dylan in una intervista del 21 giugno de l1984 sulla politica in generale e, in particolare, su Reagan.

“Il diavolo, la politica è il diavolo, uno strumento del diavolo. Credo che sia ciò che uccide, non porta con s’è mai niente di vivo. La politica è corrotta, lo sanno tutti.”

Susanna Sontag, Gregory Corso, ritenevano, come molti degli intellettuali di allora secondo un cliché in voga fra i radical- yuppie, il governo Reagan come pericoloso, verso il quale occorreva fare qualcosa!

Fernanda Pivano con Fabrizio De Andrè

Fernanda Pivano con Fabrizio De Andrè

 

In realtà, gli artisti a cavallo fra anni 60-80, genericamente compresi nella beat generation, fatta esclusione per chi si è bruciato con la droga o l’alcool per intrinseca debolezza, hanno avuto comportamenti quotidiani assai borghesi, e scelte di perfetta integrazione con la classe dominante e l’establishment..

Anche per questo la letteratura di allora, così altalenante fra sogni psichedelici e realtà disperante, sembra avere oggi perso molto del suo appeal.

Certo, rimarrà qualcosa, anche per la generosa attività di diffusione nella quale la Pivano si è prodigata per tutta la vita.

La Pivano finì per sposare un credo poetico distruttivo e disperato che però non fu mai realmente suo, lei moglie borghese, tradita e separata, allieva di Pavese, compagna di classe di Primo Levi nel mitico liceo D’Azeglio di Torino, azionista timida, innamorata dell’America come forse un critico obiettivo non dovrebbe essere.

Il credo è quello che Kerouac riassume meglio di altri nel suo Sulla strada:

“L’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi di parlare, pazzi di essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi artificiali che esplodono attraverso le stelle”. La vita come un bel fuoco di artificio: c’è tanta tristezza in questa immagine, ma quanta verità?

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