LA PIAZZA

LA PIAZZA

Avevo postato tempo addietro questa poesia, quasi quattro anni sono passati. Oggi la rileggo per caso, trovandola segnalata fra i pezzi più letti del blog. Uso il termine “pezzi” con timore, quasi per evitare un (involontario) impoverimento. Non la ricordavo così bella, a riprova che, se cambia l’occhio e il cuore di chi legge, cambiano anche i versi, che si rivestono di nuovo, svelano aspetti riposti o sfumati, col loro sottofondo chiaroscurale o l’agrodolce di una vita passata.

La rileggo lentamente, assaporandola, guardando la piazza vuota dalla soffitta da cui scrivo, anch’essa ora deserta per il Covid. La città deserta di oggi non può essere un luogo di incontri; anzi sei pronto ad evitarli se mai dovessero succedere.

Raboni, in questa poesia, la popola nella maniera più bella, la ricostruisce come un set cinematografico. La ricrea con la stessa maestria che Fellini usava per la sua piazza di fronte al Grand Hotel di Rimini. Là le immagini, qui le parole, lo stesso fascino, ultimo e stupefatto, che la poesia porta con sè.

Ecco i personaggi, “altrimenti introvabili”, apparire nella memoria e nel ricordo del poeta, per animare portici, affollare caffè, negozi e pensiline, con quel brusio e quell’animato va e vieni che oggi manca e fa spettrali, nelle ore del coprifuoco, le nostre città.

Là il padre che fuma lentamente al tavolino di un bar (ma le Turmac col filtro le fanno ancora?).

Lì la madre, immaginata come si immaginano la madri: giovane e bella, con i vestiti di elegante femminilità dell’anteguerra, quelle vesti forse ancora conservate in un armadio, magari portate alle narici ogni tanto per sentire la traccia di un profumo. Chissà perché me la immagino somigliante ad Alida Valli.

Poi il fratello, bello, giovane sportivo, forse un poco invidiato, chissà. Sfuggevole come tutte le cose belle: “ci vediamo più tardi”, una bellezza vagabonda e capricciosa, un miraggio di afa o di neve cui nemmeno la memoria riesce ad aggrapparsi.

Poi l’amore adolescente, che viene per ultimo, ma ruba la scena, e per sempre. Arriva sulle orme di un paio di gambe snelle e luminose, sul ritmo indolente di una sedicenne. Che fatica tenere il passo, come pesa quella “delizia”, quella “smodata tenerezza”. E’ l’aprirsi per la prima volta alla bellezza del mondo. Che non si abbandona più, che non si ferma più se non si ferma prima il battito del cuore.

Infine, con quanta incredibile leggerezza e semplicità Raboni ci parla della morte. Sulle orme della bellezza la nostra vita insegue la sua ineluttabile meta, fino là “dove non c’è più traccia né di me né di voi”.

Ma, sembra di sentire Raboni, chi conosce la bellezza “sbanda” ma essa è “vittoriosa”. Una maniera per indicare che non muore mai e noi con essa? Perché siamo fuori dal tempo?

L’ultima sua raccolta (2002), contiene questa poesia dal titolo Barlumi di storia

«”Si farà una gran fatica, qualcuno / direbbe che si muore / ma a quel punto /ogni cosa che poteva succedere / sarà successa e noi / davanti agli occhi non avremo / che la calma distesa del passato /… ./ E tutto, anche le foglie che crescono, / anche i figli che nascono / tutto, finalmente, senza futuro”.»

Come Montale, che parecchio influenzò Raboni, vale la domanda: è la vita che sfugge dalla poesia, o è la poesia a sfuggire dalla vita? E se il nostro tempo si consuma lungo quella muraglia che ha in cima cocci di bottiglia, è pur vero che il muro ci separa dall’ignoto, che va solo scoperto.

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LA PIAZZA di Giovanni RABONI

Mi piace questa piazza. Più è deserta
e più mi piace. Posso popolarla
di chi voglio, incontrarci, camminando,
gli altrimenti introvabili.
C’è mio padre che pure, a quanto so,
da queste parti non c’è mai venuto
ma sembra contento di passeggiare
(lui diceva, mi ricordo, flâner)
sotto i portici, o di scrutare
l’interminabile crepuscolo
seduto a un tavolino del caffè
fumando lentamente
una delle sue Turmac con il filtro.
C’è mia madre, molto più giovane
di quando m’ha lasciato (dai vestiti
si direbbe persino che la guerra
debba ancora scoppiare):
sta aspettando l’autobus, forse,
o forse invece guarda i manifesti
della stagione di prosa, stupita
da tutti quegli attori e quelle attrici
che non ha mai sentito nominare.
E c’è, appena in ritardo, mio fratello
al volante d’una vecchia MG
(sì, per lui si può fare un’eccezione,
aprire per un attimo al passato
l’isola pedonale),
così magro, così bello, un ragazzo
di cinquant’anni! e vedo che sorride,
che mi fa segno con la mano
come a dire “ci vediamo più tardi”
ma con l’aria di volersene andare,
di voler proseguire già stasera
per dove fa più caldo o c’è più neve.

2.

Oppure ecco di colpo le tue gambe
meravigliose sui primi tacchi alti
della tua adolescenza.
Ti spio fra una colonna e l’altra, è fuori,
è alla gran luce che cammini, svelta
e indolente, dandoti arie
d’avere i sedici anni
che non avrai che a maggio. Come sbanda
per tenere il tuo passo vittorioso,
con che delizia s’affatica
di decennio in decennio
a inseguirti fin dove non c’è traccia
né di me né di noi
la mia smodata tenerezza.

Giovanni Raboni (Milano, 1932-Fontanellato, Parma, 2004), prima di dedicarsi alla letteratura, studia legge ed esercita la professione di avvocato. La sua carriera di poeta inizia nel 1961 con Il catalogo è questo  (Lampugnani Nigri) presentato da un’introduzione di Carlo Betocchi. Tra le raccolte successive si ricordano Le case della Vetra (Mondadori, 1966), Economia della paura (Scheiwiller, 1978)

MILANO, IN MANO AD ARCHISTAR DI SERIE B ?

MILANO, IN MANO AD ARCHISTAR DI SERIE B ?

  LA RIFLESSIONE PARTE DALLA PENNA DI CINO ZUCCHI, ARCHITETTO MILANESE. A MILANO SI COSTRUISCE TANTO, SI COSTRUISCE BENE, MA CI SONO ANCHE TANTISSIMI PROGETTI DELUDENTI E TROPPO, TROPPO COMMERCIALI

Gioia 22, Porta Nuova, Pelli Clarke Architects

Una “riflessione pacata” condivisa dall’architetto Cino Zucchi via Facebook diventa l’occasione per provare ad aprire il dibattito sullo stato dell’architettura contemporanea nel capoluogo lombardo. Visto che, per fortuna, si costruisce tanto sarebbe meglio costruire anche bene. Sono trascorsi sei anni da quando Cino Zucchi ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia. Era il 2014 e la sua città natale, Milano, si preparava al rush finale prima di Expo 2015. Forse anche sulla spinta dell’attesa per il grande evento internazionale, alla kermesse lagunare il capoluogo lombardo venne presentato come il “laboratorio del moderno”: l’esempio più riuscito, a livello nazionale, del processo di rinnovamento e rinascita avvenuto in Italia dal dopoguerra in poi. All’epoca, proprio introducendo Innesti/Grafting, il progettista della Nuvola Lavazza e dell’Headquarter Salewa aveva identificato Milano come “il luogo dove la dialettica tra modernizzazione e permanenza della struttura urbana è stata più forte. Dopo i bombardamenti del 1943, il moderno milanese è stato capace di intervenire per punti nel delicato tessuto del centro, inserendo tipologie diverse da quelle esistenti ma capaci di interagire con esse su più livelli”. Dopo Expo la città ha intrapreso una fase di forte ascesa che ancora è in corso e che si proietta nei prossimi decenni, suggellata da riconoscimenti e da performance giudicate positive – tra cui quelle rilevate nella stesura dell’annuale classifica della Qualità della vita del Sole 24 Ore – ma, nello stesso tempo, accompagnata da timori e accesi confronti sul ruolo dei privati, sulle disuguaglianze, sul diritto alla casa.

UNA RIFLESSIONE PACATA

Alla città e al suo contesto architettonico, lo stesso Zucchi si è soffermato in questi giorni con quella che lui stesso ha definito “una riflessione pacata”; affidata a Facebook, viene parzialmente qui ripresa. L’architetto, anche professore al Politecnico di Milano, ha messo a confronto la “qualità progettuale sempre più alta nella generazione dei giovani architetti italiani ed europei”, con i “progetti in corso a Milano” che, dal suo punto di vista, risultano “spesso molto deludenti”. Un’affermazione associata a una serie di motivazioni. “Cerco di spiegare perché: in un’epoca di diffusione virale delle immagini, esiste ormai un’architettura “commerciale” – non do a questo termine un valore così negativo – che combina con furbizia motivi copiati qua e là da progetti pubblicati da riviste, creando un linguaggio spurio, senza radici, senza coraggio, senza coerenza vera”, afferma Zucchi.

Università Bocconi, arch.. Grafton

“È un linguaggio “eager to please” (ansioso di piacere) che mischia hi-tech, tetti verdi, doppie vetrate, ritmi sincopati, muscoletti, colpi di sole, tatuaggi, zazzere e Ray-ban specchiati”, scrive ancora. Provando, in particolare, ad attivare una riflessione con i “migliori esempi di architettura milanese degli anni ‘50 e ‘60”, lo scenario attuale appare meno convincente e, forse, anche meno promettente dinanzi alla sfida del tempo. “Senza mettermi in cattedra o fare il “connoisseur”, sento tuttavia come problema il fatto che pochi sembrano accorgersi della distanza o differenza tra questa produzione e gli esempi di reale valore. Parlo non dei capi d’opera di grande impatto iconico (gli edifici della Bocconi delle Grafton o di Sanaa, la Fondazione Prada di Koolhaas, La Feltrinelli di Herzog e De Meuron e pochi altri) ma delle architetture che costruiscono a piccoli frammenti i nuovi tessuti urbani della città”.

TRA “FRASI A EFFETTO E POESIA VERA”

Lo sviluppo immobiliare sembra dunque muoversi sulla scia di una sorta di “facile ricerca del consenso”, anziché essere caratterizzato da interventi potenzialmente in grado di divenire “esemplari”? “Diciamo che la città è di tutti e tutti hanno il diritto di esprimere giudizi -, anche limitati al “mi piace” o “non mi piace” -, però c’è qualcuno che sente ancora la differenza tra esibizione e sostanza, tra le frasi ad effetto e la poesia vera, tra Eros Ramazzotti (che pure rispetto) e Leonard Cohen?”, domanda apertamente Zucchi, attingendo alla sua ben nota passione per la musica per una efficace metafora. La sua valutazione, in realtà, non sembra essere così isolata. Solo qualche settimana, nell’anteprima del campus dell’Università Bocconi di studio Sanaa, anche Alessandro Benetti su Artribune aveva fatto riferimento a una “Milano che negli ultimi anni ha fatto il tutto esaurito di incubi scultorei da archistar di serie B”.

MA FARE QUALCHE NOME?

Centrata e opportuna la riflessione di Cino Zucchi. Centrata perché in architettura e in urbanistica si può sempre migliorare per cui ogni critica è una opportunità. Opportuna perché l’unico rischio dell’abbrivio entusiasta milanese di questi tempi è autocompiacersi: Milano continuerà a crescere solo se continuerà a mettersi in discussione, a criticare se stessa, a mantenere la capacità di vedere gli errori (tanti) che affiancano le cose buone (tantissime).

Fondazione Prada

Il grande architetto però resta sul teorico. A quali progetti si riferisca in pratica non è dato sapere. Di più: fa esclusivamente riferimento ai progetti che gli piacciono ma non menziona quelli che non gli garbano e che, addirittura, stanno pregiudicando la città di domani. Delle due l’una. O quello di Zucchi è un monito per i prossimi concorsi (a brevissimo si decideranno i vincitori per realizzazioni importantissime, sempre nell’area di Melchiorre Gioia al posto di vecchi edifici che saranno trasformati o demoliti) oppure è una reticenza per evitare polemiche e restare nella pacatezza.

Fondazione Feltrinelli

Ma forse fare qualche nome e indicare qualche progetto non particolarmente indovinato potrebbe essere utile. Qualche esempio? Ad esempio, l’ultimando Gioia22, proprio nell’area di Melchiorre Gioia ovvero nel nuovo scintillante centro direzionale a pochi passi dalla stazione centrale, a firma di Cesar Pelli. Oppure tutta l’area a sud della Fondazione Prada sviluppata dalla società Covivio sotto il brand “Symbiosis”, che sta uscendo dall’abbandono trasformandosi in appetibile quartiere per uffici all’insegna di architetture non propriamente avvincenti e inconfondibili. O ancora, non distante da qui, la nuova prevista sede-grattacielo della multiutility A2A, che ‘affaccerà’ proprio sul progetto di Rem Koolhaas e infine, sempre restando ai progetti firmati da Antonio Citterio e Patricia Viel che sembrano destinati nel bene e nel male ad essere i principali interpreti della nuova Milano, il development denominato Gioia20: qui è stato fatto un concorso, c’erano tante proposte coraggiose, è stata scelta quella più… normale. O, meglio, più in grado di tenere bassi i costi di costruzione e alte le potenzialità commerciali. A discapito – questa è la questione – della creazione di un profilo urbano immaginifico e unico?

Articolo di Valentina Silvestrini e Massimiliano Tonelli per https://www.artribune.com/

GILLO RACCONTA LA SUA AVVENTURA

GILLO RACCONTA LA SUA AVVENTURA

 

In fondo c’eravamo tutti convinti che fosse diventato immortale e che, in qualche modo, avesse trovato il segreto della vita eterna.

Poco più di un mese ci separa della morte di Gillo Dorfles. Avevamo in serbo di ricordarlo ancora in vita con questo articolo.Ma non gli dispiacerà leggersi da lassù in questa bella intervista, rilasciata da Gillo a Corrado Beldì nel febbraio del 2016. Buona lettura. 

(AP Photo/Alberto Pellaschiar)

“…. la data che abbiamo atteso di più, è quella di oggi: il 12 aprile 2016 Gillo Dorfles compie centosei anni. Non lo scriviamo in cifre per pudore, ma soprattutto perché non li dimostra affatto. Nato nel 1910, Dorfles è il gran giovane della Milano creativa, l’allegro fustigatore, l’amico di Fontana, il pittore senza macchia, il cantore del kitsch piccolo borghese, l’immancabile presenza alla Scala, l’uomo che ha attraversato il secolo breve con incredibile vigore, tra mille incontri che hanno dell’incredibile, da Italo Svevo alla redazione di Zero.

Quali sono i suoi primi ricordi di Milano?
Risalgono a più di 100 anni fa, effettivamente. Quando avevo tre anni e la mia bisnonna era proprietaria di quel palazzo con quattro colonne in corso Venezia, al numero 36. L’edificio era stato costruito dal mio prozio. Venivamo a trovarla da Trieste e restavamo ospiti a Milano per qualche giorno. Ricordo le passeggiate sulle sponde del Naviglio.

Cosa ricorda della Prima Guerra Mondiale?
Quando scoppiò la guerra avevo cinque anni. Ricordo il giorno in cui partimmo da Trieste, con mia mamma, per riparare a Genova. Tutta la città era imbandierata a festa, con drappi e stendardi asburgici, color giallo e nero. Da quel giorno, sono due colori che mi piacciono moltissimo!

Quando si è trasferito a Milano?
Sono arrivato nel 1928 per iscrivermi all’Università Statale, corso in Medicina e specializzazione in Psichiatria. Mi sono laureato però, per fortuna dei pazzi, non ho mai professato…

Ernesto Nathan Rogers

Com’era la Milano di allora?
Era una Milano molto più piccola, direi più famigliare. Solo successivamente Milano è diventata una metropoli, senza tuttavia diventare mai troppo aggressiva. Milano ha una sua eleganza. Un suo rispetto per le persone. Fin dal principio mi sono sentito a mio agio, grazie ai parenti ma soprattutto all’amicizia con Ernesto Nathan Rogers.

Conosceva Rogers fin dall’infanzia, vero?
Rogers era triestino e ci eravamo conosciuti da bambini: aveva solo un anno più di me. Il padre aveva trasferito la famiglia a Milano qualche anno prima. Grazie a lui conobbi subito il giro degli architetti milanesi a partire dai fondatori di BBPR, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peresutti, Gian Luigi Banfi e poi Luigi Figini e Gino Pollini.

Teatro Alla Scala, scorcio con palco reale

Che personalità aveva Rogers?
Era un uomo simpatico e molto, molto socievole. Aveva anche cercato di imparare a dipingere prendendo qualche lezione da Anselmo Bucci. Purtroppo Ernesto era piuttosto negato e per fortuna ha decise di dedicarsi anima e corpo all’architettura.

Lucio Fontana, di spalle nel suo studio a Milano

Come è entrata l’arte di Milano nella sua vita?
Innanzitutto andando al Cenacolo. Il Cenacolo è Milano. Poi ricordo che mi colpì moltissimo il Castello Sforzesco, non parlo delle collezioni ma dell’architettura. Però, soprattutto, sono stato molto fortunato perché conobbi subito Lucio Fontana e Fausto Melotti, tra i più importanti artisti della Milano tra le due guerre e non solo.

Lucio Fontana, concetto spaziale, la fine di Dio

Lucio Fontana è stato l’amico di una vita.
Ci vedevamo molto spesso. Quando lo conobbi studiava con Adolfo Wildt all’Accademia di Brera. Eravamo molto amici. Mi ha anche regalato tre quadri. Vede quello rosa? Anche quello nero nell’angolo. Fontana aveva una personalità molto esuberante: era l’esatto contrario di Fausto Melotti.

Melotti aveva una grande passione per la musica
Certamente: sua sorella Renata era musicista e anche il marito Gino Pollini suonava il violino. Fausto Melotti aveva vasti interessi ed era un uomo molto più sofisticato di Fontana. Insieme abbiamo visto tantissimi concerti. Fausto poi era attivissimo con la sua piccola industria di piastrelle di ceramica disegnate e prodotte da lui.

Dove andavate ad ascoltare musica?
Mi sono subito associato al Giardino ma soprattutto alla Società del Quartetto e poi ovviamente andavo alla Scala. Mio suocero Giuseppe Gallignani, compositore e direttore d’orchestra, nato a Faenza nel 1851, era direttore del Conservatorio di Milano, era stato molto amico di Verdi ed era amico fraterno di Arturo Toscanini. Morì quando mia moglie Lalla era molto giovane e Toscanini divenne il suo tutore. Con Lalla, diventai subito uno della famiglia e andavo spesso dai Toscanini nella casa di via Durini.

Che personalità aveva Arturo Toscanini?
Era un uomo molto gentile, Lalla era la sua figlioccia. Spesso andavamo a trovarlo all’Isolino di San Giovanni sul Lago Maggiore che era della loro famiglia. Si andava in motoscafo e si faceva il bagno nel lago. Erano delle bellissime estati.

Che ricordi aveva suo suocero di Giuseppe Verdi?
Certamente moltissimi episodi, è un po’ come se lo avessi conosciuto anch’io. In particolare aveva una enorme quantità di lettere scritte dal Maestro, lettere che poi mia moglie ha regalato al Conservatorio. Molte del tempo in cui Giuseppe Verdi era ancora a Parma. Peccato: ora nessuno le vede, invece se le avessimo conservate potrei fargliele leggere proprio qui, ora, su questo tavolo.

Che concerti ricorda di quegli anni?
Degli anni trenta ricordo il ciclo di concerti wagneriani diretti da Toscanini alla Scala, soprattutto I maestri cantori di Norimberga e poi il Sigfrido e Lohengrin. A quei tempi Richard Wagner era piuttosto di moda, diciamo in piena fioritura. Poi ricordo molto bene i concerti di Vladimir Horowitz non solo al Quartetto ma anche a casa Toscanini, per chiudere in bellezza delle belle cene in compagnia. Sempre con Verdi e Wagner al centro di ogni cosa.

H. Matisse: nudo disteso di schiena

Henry Matisse

Quali sono invece i due artisti visivi del Novecento di cui non si potrebbe proprio fare a meno?
Pablo Picasso e Henri Matisse. Sono stati i veri maestri. Tutti gli altri li hanno un po’ copiati, in un modo o nell’altro. Hanno messo fine, finalmente, alla pittura di ritratto e di paesaggio.

In quegli anni, si sentiva ancora l’influsso dei futuristi?
Non molto: Umberto Boccioni era morto negli anni della guerra e altri avevano cambiato pittura. Ho avuto modo di conoscere molto bene Fortunato Depero ma soprattutto Giulia Villa, la madre di Mario Sironi, una signora assai vivace che nella sua casa aveva moltissimi mobili futuristi. Ovviamente, ho conosciuto bene il vecchio Giacomo Balla.

Giacomo Balla

Cosa facevate la notte?
Si usciva molto ma spesso ci ritrovavamo proprio nello studio BBPR con Ernesto Rogers e gli altri. Era un po’ un punto di ritrovo dove si invitavano architetti, storici del design e letterati da tutta Europa. Ricordo Sigfried Giedion da Zurigo ed Herbert Read da Londra. In quegli anni, ho conosciuto anche Giuseppe Terragni.

Andavate anche per locali e trattorie?
Certamente! Ho sempre frequentato moltissimo Brera. Ricordo un ottimo ristorante in via San Simpliciano, che ora purtroppo non c’è più. Poi mi piacevano moltissimo le trattorie che affacciavano sul Naviglio, per delle belle serate in compagnia. Devo dire, tuttavia, che la vita notturna in quegli anni a Milano era piuttosto scadente.

Ora è cambiata, secondo lei?

Giacomo Balla: compenetrazione irridescente

Beh, certamente è migliorata… Che ricordi ha della Seconda Guerra Mondiale?
Lasciammo da Milano per rifugiarci nelle nostre campagne, in un borgo vicino a Volterra. Passai tutta la guerra in campagna. Ci furono vittime e feriti perché il villaggio fu bombardato e distrutto per due volte: prima dai tedeschi, che lo conquistarono e stabilirono il comando militare in una parte della nostra casa, poi dagli inglesi che presero posto negli stessi locali. Alla fine della guerra il villaggio era completamente scoperchiato. Mio padre, che era ingegnere, riavviò una fornace abbandonata e contribuì a ricostruirlo. Allora, finalmente, tornammo a Milano.

Gualtiero Marchesi

Come è cambiata Milano nel dopoguerra?
Finalmente è diventata una metropoli e non più solo una brigata lombarda. Dal punto di vista artistico, Milano ha presto superato un gusto un po’ rétro per la pittura fin de siècle e post impressionista. Penso ad Arturo Tosi e Alberto Salietti, che in fin dei conti erano dei pittori mediocri, eppure piacevano molto alle famiglie borghesi.

Cosa le piaceva o le piace mangiare?
Guardi, io sono sempre stato molto ghiotto e mangio tutto, ad esempio mangerò con molto piacere quello che mi ha portato (n.d.r. salame e cioccolatini). Ieri sera ho cenato con Gualtiero Marchesi (morto nel dicembre del 2017 ndr) e gli ho raccontato che mi piace molto la pastasciutta con lo zafferano. Dice che presto mi inviterà a cena da lui…

Dove andavate in quegli anni la sera e cosa vi piaceva bere?
Si andava molto per gallerie ma il vero porto di ritrovo era il bar Jamaica, sempre in compagnia. Si bevevano diverse cose a seconda delle occasioni. Io ho sempre preferito il vino, in particolare mi piace molto il Cannonau, un vino della Sardegna che ha una personalità molto specifica. Ne vuole un bicchierino?

Perché no. Però non vorrei esagerare…
Ecco qui, si serva. Avanti: non è pericoloso… Un gusto molto personale, vero? Vuole anche del liquore?

Ad esempio? Cosa potrebbe offrirmi?

Bar Jamaica e scorcio di via Brera

Non so, io talvolta bevo whisky o Slivovitz, un ottimo liquore jugoslavo, un’acquavite ricavata dalle susine…

Magari più tardi, grazie! Ho un’altra curiosità ora: cosa farebbe se avesse ancora 25 anni?
Con modestia rifarei quello che ho fatto, una vita compiuta e divertente in cui ho cercato di seguire l’eclettismo, facendo cose diverse l’una dall’altra. Rifarei una laurea in Psichiatria e mi iscriverei a un corso di nudo, per imparare il disegno dal vero.

Se potesse fare un viaggio all’estero, dove andrebbe?
Vorrei rivedere i musei di New York. Ora al Guggenheim c’è appena stata una grande mostra di Alberto Burri. Grande artista. Il suo cretto è stato un momento rivoluzionario della storia dell’arte. Poi vorrei tornare alla National Gallery di Londra. Che bella collezione!

Museo Guggenheim N.Y.

Se potesse rubare un quadro in un museo di Milano che ama particolarmente, quale si porterebbe a casa?
Senz’altro andrei dritto dritto all’Accademia di Brera. Certo che poi sarei molto indeciso e forse dovrei rubarli tutti!

Milano, lungo il naviglio Martesana

Se avesse la bacchetta magica, cosa cambierebbe di Milano?
Non cambierei moltissimo: Milano resta sempre una città di grande fascino. Certo, secondo me bisognerebbe ripristinare ed allargare i Navigli, per renderli navigabili nel modo più completo. Toglierli è stata una grande sciocchezza. Il sistema dei Navigli possono essere una rete idrica formidabile, dalla Martesana fino a Porta Ticinese e poi al Lambro e al Naviglio pavese. Si immagina lei quante attività potrebbero affacciarsi sull’acqua. Pensi ai vantaggi per i trasporti e alle gite in vaporetto!

Che legame ha con la religione?
Non se ne può parlare in modo approfondito in un incontro colloquiale, tuttavia devo dire che ho sempre avuto un interesse culturale per la religione. Nel periodo di guerra ero stato anche organista la domenica mattina in una chiesa nelle campagne di Volterra e così ho anche imparato un mucchio di cose sulla liturgia. C’era un coro molto approssimativo ed io suonavo negli intervalli. Il parroco, che da quelle parti chiamano pievano, era fascista e mi invitava sempre a pranzo. Quando gli alleati sfondarono la linea gotica sparì e non se ne seppe più niente. Arrivò un altro prete, questa volta antifascista, ed io continuai a suonare.

Cosa pensa delle battaglie di questi giorni per i diritti civili?
Le unioni civili, di cui si parla in questi giorni, sono una cosa talmente ovvia che non occorre nemmeno discuterne.

Fausto Melotti, installazione a Gibellina

Chi sono oggi gli amici più cari di Gillo Dorfles?
Direi nessuno! Sono tutti amici recenti, conosciuti negli ultimi anni. Gli amici storici non ci sono più. Penso agli artisti e agli architetti che frequentavo. Anche Vittoriano Viganò e Franco Albini. Purtroppo sono tutti scomparsi, una cosa incredibile.

Giuseppe Capogrossi

C’è un amico che le manca particolarmente?
Certamente Lucio Fontana: il fatto che non ci sia più, mi spiace davvero perché discutevamo moltissimo. Poi tanti altri amici come Emilio Scanavino e Fausto Melotti. Mi piaceva molto frequentare Giuseppe Capogrossi, molto intelligente e vivace, una personalità distinta. Aveva un talento pittorico limitato, così ha inventato un alfabeto personale di genio che lo ha reso immediatamente riconoscibile.

Ci sono artisti del dopoguerra secondo lei ancora troppo sottovalutati?
Qualche anno fa le avrei detto gli artisti del Movimento Arte Concreta e poi anche Luigi Veronesi e Mauro Reggiani. Tuttavia negli ultimi anni è stato fatto molto per riscoprirli.

 

Fondazione Fausto Melotti

Tra gli artisti dell’ultima generazione ha visto qualche talento interessante?
Ce ne sono due o tre piuttosto interessanti. Li ho anche presentati non molto tempo fa. Tuttavia preferisco non nominarli perché non vorrei che si montassero troppo la testa!

E com’è nata l’idea di costruire una mostra sull’approssimazione?
È un tema centrale da sempre. Nel 1951 ci fu un convegno fondamentale alla Triennale, La divina proporzione, con Le Corbusier superstar e Wittkover, Ackermann, Giedion, Rogers, Fontana: e lo stesso Le Corbusier diceva che il numero aureo, fondamento del Modulor, era solo apparentemente razionale. Senza l’approssimazione non ci sarebbe vita, tutto resterebbe perfettamente immoto.

Mi scusi professore, quando è il suo compleanno?
Non mi ricordo… (n.d.r. sorride).

Opera di Gillo Dorfles

C’è un’opera d’arte che associa a una grande emozione?
Difficile: sono piuttosto refrattario alle emozioni portate dai capolavori artistici. Forse mi emoziona di più la musica.

Quali sono i compositori del Novecento che le interessano di più?
Certamente Luciano Berio, un musicista molto raffinato. Eppure credo dovremmo avere più attenzione per Riccardo Malipiero che ha scritto, tra le altre cose, Minnie la candida, una bellissima opera dedicata a una lavandaia. Malipiero era un musicista notevole. Certo, secondo me, non c’è nessuno che abbia saputo raggiungere le vette di Giuseppe Verdi e Richard Wagner.

Cosa le piace suonare quando si siede al pianoforte?
Mi piace suonare qualsiasi cosa, soprattutto la musica che improvviso: molto più comodo di leggere uno spartito, come può immaginare.

Le istituzioni milanesi fanno abbastanza per gli artisti e per la diffusione della cultura?
Oggi a Milano c’è moltissimo, sia per l’arte sia per la musica. Credo però che i grandi artisti emergano comunque, a dispetto delle istituzioni. A volte il genio nasce ai margini. Quanto alla diffusione della cultura, i giovani devono vedere l’arte moderna e contemporanea, fin da bambini, nelle scuole. Quando abbiamo fatto la mia mostra a Palazzo Reale con i bambini abbiamo costruito anche una piccola mostra di riproduzioni delle mie opere. I bambini erano molto interessati e creativi. L’arte apre la mente.

C’è una zona di Milano che ama particolarmente?
Mi piacciono molto le vie dietro Corso Venezia: via Serbelloni, via Mozart, via Vivaio. In quella zona non c’è grande architettura ma ci sono molti edifici di grande dignità civica: è una zona che ha una personalità molto milanese.

Villa Necchi-Campigli, in via Mozart a Milano. Gioiello da visitare

Ci sono tre opere che vorrebbe portarsi nel aldilà?
Portarmi dei quadri sarebbe d’intralcio, preferirei dei libri con tante riproduzioni a colori. Quelle dei pittori che amo di più.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?
In queste settimane c’è una mostra di mie opere al MACRO di Roma. Una mostra che spero di portare presto in Francia e in Germania. Insomma, ho ancora molti progetti.

Come vuole essere ricordato Gillo Dorfles?
Certamente per la mia pittura.

Grazie professore, è stato bellissimo incontrarla.
Grazie a lei. È sicuro di non volere un altro bicchierino di Cannonau?

Altri articoli su Gillo sono (qui) e (qui)

 

 

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