LA MEDICINA DELL’IMMORTALITA’

LA MEDICINA DELL’IMMORTALITA’

La medicina per anni ha promesso immortalità, proibito la sofferenza. E oggi la morte è oscena, inguardabile proprio quando è ovunque. E’ il tempo della decrescita sanitaria?

Rileggere la Nemesi medica di Ivan Illich, dando un’occhiata a Tolstoj e anche a Philip Roth di Everyman.

…. Ivan Illich scrive: “La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute”. La medicina causa malattie e un consumismo che “inventa” malattie come l’industria inventa bisogni, trasformando i malati in rapaci e incapaci consumatori di salute. La brama di salute individuale poi, non coincide con la salute collettiva. Per Illich la nemesi/iatrogenesi è di tre tipi: clinica, sociale e culturale. La iatrogenesi clinica incombe in ogni gesto medico: complicanze di interventi, effetti collaterali di farmaci, infezioni ospedaliere. Un tema più che doloroso oggi: molti contagi della Covid sono occorsi in luoghi di cura (sale d’attesa, camere, operatori sanitari e visitatori infetti).

Ivan Illich

La iatrogenesi sociale, deriva dall’industrializzazione degli ospedali che vendono il prodotto salute. Se le aziende guarissero i pazienti, fallirebbero. Il malato è succube, è paziente perché deve aspettare la clemenza dell’oligarchia medica. Ivan Illich parla di imperialismo diagnostico, un regime pervasivo che detiene un codice esclusivo, perché la diagnosi, anche solo le parole che si usano per comunicarla, cambiano il destino. A questa deriva Illich contrappone la decrescita sanitaria: “La società che riduce l’intervento professionale offre la migliore salute”. Ma cos’è la salute?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 la definiva “stato di benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, una definizione che l’Ivan filosofo contesta perché si presta all’ipermedicalizzazione e all’abuso di risorse. L’Oms nel 2011 ha aggiornato la formula in “la capacità di adattamento e di autogestirsi nelle sfide sociali, fisiche ed emotive”. Questa sarebbe piaciuta di più Illich perché intende un malato dinamico, in grado di attingere a risorse individuali e sostenibili anche in malattie croniche e inguaribili. Infatti, l’Ivan malato vede la luce e prova gioia, l’unico momento di salute secondo la definizione Oms, proprio mentre muore e per il contatto della mano del figlio: in quel momento, un’equipe medica piovuta in casa con un drone non avrebbe potuto farlo sentire più sano. Il risparmio medico oggi si chiama e il suo slogan è Secondo Illich le cure, diverse dalla guarigione a tutti i costi (inguaribile e incurabile non sono sinonimi), devono essere alla portata di persone non specializzate e a basso costo. Proprio quello che accade a Ivan Ilic: essere (non guarito) non da un medico ma da un servo analfabeta capace di empatia.

La iatrogenesi culturale riguarda dolore, fine vita e fede. Per Ivan Illich la medicina, spacciando immortalità, inibisce la capacità di soffrire. Illich applica la stessa visione edificante del dolore alla morte, verso la quale saremmo impreparati. I nostri avi ballavano sulle tombe dei cimiteri e delle chiese. Si ballava con gli scheletri anche nelle danze macabre, l’incontro tra il popolo e l’elite, la livella di Totò. In un noto morality play (teatro allegorico dell’Inghilterra del XV secolo), “Everyman”, l’uomo viene visitato dalla morte; offrirà denaro invano e quando sarà davanti a Dio, tra le tante virtù gli resteranno solo le Buone Azioni. Oggi la morte è oscena, inguardabile proprio quando è ovunque, sempre mediata da uno schermo. Abbondano i neonatologi che tengono vita chiunque pesi almeno tre etti e che sarà probabilmente figlio unico, e anche per questo non deve morire: se accadrà sarà colpa di una complicanza medica. Mancano i tanatologi che de-tengono in vita. Per Illich, l’uomo moderno viene espropriato della libertà di morire mentre “nessuno senza il consenso, dovrebbe essere ricoverato o molestato in nome della salute”. Illich come Basaglia, ospedali e manicomi, deospedalizzazione come antipsichiatria. Infatti, fragilità e individualità consapevoli rendono la malattia e la morte parte integrante della vita soggettiva. La medicina può irrompere in questo santuario con la brutalità di un elettroshock.

Ivan Illich muore il 2 dicembre 2002 di tumore, come Ivan Ilic. Un male vissuto con coerenza: un deturpante cancro del viso lo ha consumato senza che lui si facesse operare, ricorrendo solo ogni tanto all’oppio.

Se si parla di nemesi, morte e non possiamo aggirare uno scrittore prolifico quanto Tolstoj e al pari di lui interessato alle passioni e alla morte. Uno che all’età in cui Ivan Ilic si ammala scopre di aver ereditato i geni della coronaropatia che lo porterà a 56 anni a un quintuplo bypass coronarico e poi all’impianto di 16 stent coronarici, per morire il 22 maggio del 2018 a 85 anni. Lo scompenso cardiaco è come un tumore che prima o poi prende tutto, polmoni e reni per primi. Medici fanatici hanno permesso a Roth una lunga vita, ma il 20 maggio 2018, in una stanza del Presbyterian Hospital di New York, lo scrittore ha chiesto che sulle sue arterie metallizzate non ci si accanisse più. Due giorni dopo è morto. Proprio “Nemesi”, dopo il “Teatro di Sabbath”, “Pastorale Americana”, “La macchia umana”, “Everyman”, ha chiuso un ciclo reso possibile dalla protervia della medicina cardiovascolare, che quindi non è stata per l’uomo Roth la Nemesi Medica paventata da Illich.

La Nemesi, titolo e destino, tocca invece a un giovane istruttore d’atletica. Siamo a Newark nell’estate del ’44, Eugene Cantor vorrebbe partire per la guerra ma un difetto alla vista verso il quale la medicina è impotente glielo impedisce. Intanto, un’epidemia di poliomielite investe gli Stati Uniti. Cantor segue la fidanzata in un campo estivo dove scoprirà di aver contagiato diversi ragazzi: è l’untore. Lascerà la fidanzata e si isolerà. Per lui la nemesi sarà la rinuncia a qualsiasi legame.

Philip Roth

Roth conosceva gli errori diagnostici e l’abuso di tecnologie mediche, descritte in “Patrimonio”, la “storia vera” della sua esperienza di figlio accanto al padre morente di cancro. Se “Nemesi Medica” di Ivan Illich sembra ispirato a “La morte di Ivan Ilic” di Tolstoj, il romanzo più biografico di Roth sembra ispirato dal saggio di Illich. Dalle pagine emerge la medicina pervasiva, la sua pressione paternalistica, la burocrazia che rende l’individuo un fenomeno di assistenza sanitaria e arroganza medica. Non si muore più come una volta. Herman Roth morirà un mercoledì dell’ottobre 1989 a 88 anni. Il doppio degli anni in cui è morto Ivan Ilic, grazie alla nemesi medica, e anche lui come il giudice, toccando per ultima la mano del figlio, il figomane onanista capace di scrivere “Il lamento di Portnoy”.

In “Everyman” Roth parla di un uomo qualunque, di sé. E’ un racconto lungo più o meno quanto “La morte di Ivan Ilic”, ma il protagonista è senza nome. Everyman non viene visitato dalla morte, ma dalle malattie e dai medici. Gli verranno messi stent ovunque e un defibrillatore cardiaco. “Nulla si fa senza rischio, nulla, nulla… nulla che non si ritorca contro, nemmeno dipingere stupidi quadri”, dice Everyman: è quello che pensa anche la signora Dalloway un mercoledì di giugno “è pericoloso vivere anche un giorno soltanto”. Everyman proverà la “rabbia e la disperazione di un triste malato incapace di evitare la trappola più micidiale della lunga malattia, il peggioramento del carattere”, la stessa rabbia che cambia Ivan Ilic. Il corpo malato prende tutto. Roth sale sull’albero genealogico per ballare coi suoi morti e parlerà col becchino che si dovrà occupare delle sue ossa. Si ricovera, un mercoledì, per mettere uno stent alla carotide destra (a sinistra l’aveva già). L’anestesista mascherato gli chiede se vuole l’anestesia locale o generale. Lui sceglie quella generale. E mentre il suo corpo, la macchina desiderante, sogna, non si sveglia più. Entra nel nulla per un arresto cardiaco, complicanza dell’anestesia generale che aveva scelto. Una volta si credeva in Dio morendo di stenti, adesso si muore di stent credendo nella cardiologia.

Cosa c’entrano le coronarie di Roth col coronavirus? Everyman muore solo e l’ultima persona che vede è un anestesista mascherato: un fato sinistro e familiare in questi giorni. Philip Roth oggi avrebbe 87 anni e sarebbe il fragile cardiopatico che vede coetanei e no morire come insetti boemi tra Manhattan e Bergamo. La pandemia ci ha reso tutti in un modo che neanche Philip K. Dick o un James G. Ballard potevano prevedere.

Certo Defoe, Manzoni e Camus avevano parlato di peste ma per la prima volta abbiamo vissuto tutti, globali e connessi, una guerra dove il nemico ci ammazza senza un foro di ingresso e ci priva anche di una via d’ uscita dignitosa. Ci è stato detto che l’esito sarebbe dipeso da noi, soldati semplici acquattati e poi dalle difese della politica (in fondo la politica è medicina su larga scala), da quelle immunitarie e infine, da una buona dose di culo, quell’essere al posto giusto al momento giusto che per qualcuno pertiene al darwinismo e all’eugenetica. La politica si è occupata del nostro corpo, come fa da sempre, ma ora si è trattato di un esperimento di biopolitica planetario e sincrono. Le statistiche sanitarie, serotine come la febbre, e le ordinanze governative, sono i simboli di una rivoluzione: suonavano come la sirena antiaerea che annunciava “Pippo” e faceva rintanare ancora di più.

Questo tempo di Covid-19 è stato un esperimento di slow medicine: per malattie non- Covid 19 gli ambulatori erano chiusi, le sale operatorie aperte solo a urgenze e pazienti di ogni tipo son rimasti a casa anche con sintomi gravi, temendo il contagio. Infarti e ictus sono stati trattati tardivamente o mai, vaccinazioni e screening oncologici sono saltati. Con calma si dovrà studiare l’ impatto su mortalità e morbidità di tanta forzata astensione sanitaria. Si pensi che per sostenere la politica, la scienza. Per un filo di RNA siamo tutti inconsapevolmente diventati epistemologi, e ora, uccidendo il Minotauro comportandoci da pecore, usciamo dall’asfittico labirinto vile attaccati a un filo d’aria. Una lezione di empatia e Medicina Narrativa impensabile due mesi fa, specie per coloro che non si sognavano nemmeno di convincere un medico su dieci a leggere “La morte di Ivan Ilic”…..

La didattica a distanza hanno fatto rimpiangere fabbriche e scuole. Anche i ragazzi di Don Milani, quelli della “Lettera a una professoressa” non rigettavano la scuola tout court, volevano migliorarla perché non fosse “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Gli istituti non saranno il manicomio paventato da Illich, se verranno aggiornati al tempo digitale: il nostro corpo, gli strati dell’io e dell’inconscio collettivo non sono solo forgiati dalle istituzioni, ma dalle tecnologie mediche, dalla biopolitica e dalla sorveglianza digitale. La salute non dipenderà dai muri, né dalle isole, ma da una scienza sovrana senza ismi, una consapevolezza che abbracci l’intera vita animale e vegetale del pianeta.

La mascherina serve. Ci fa tenere la bocca chiusa e con gli elastici ci apre bene le orecchie. Sopra la mascherina ci saranno occhi nuovi. Attivi e creativi come prismi e non passivi come specchi, che infatti Borges temeva più della Cecità, per Saramago la più contagiosa delle pandemie. In Africa dicono “se vuoi andare forte vai da solo, se vuoi arrivare lontano vai in compagnia”. Anche un uomo fermo può seminare i geni dell’uomo nuovo.Il Foglio Quotidiano

Sintesi dell’articolo apparso su http://www.ilfoglio.it del 16 maggio 2020  

PORTNOY E DINTORNI

PORTNOY E DINTORNI

 

I ROMANZI CORPORALI DI PHILIP ROTH NELLA LUCIDA ANALISI DI AURELIO PICCA. SESSO E EBRAISMO,COMUNISMO E PSICOANALISI, TUTTO SI RIDUCE ALLA FINE ALLA PRATICA MASTURBATORIA DI UN MONDO CHE PIU’ PUZZA PIU’ PIACE. CON IN APPENDICE UNA NOTA DI CAMILLO LANGONE.

 

 

philip roth

Philip Roth

È più che una mattana vedere nelle lamentazioni di Alexander I dolori del giovane Werther (qui). È come abolire la distinzione nevrotica e barzellettistica in Roth tra un goy (non ebreo) e un ebreo. E se malsana è l’ idea di tirare in ballo l’ eroe romantico di Goethe, lo è pure quella di interpretare i personaggi di Philip Roth «tragici». La tragedia, e chi la indossa, quasi non ha corpo.

Aurelio Picca, autore dell’articolo. Il suo ultimo libro è stato pubblicato da Einaudi e si intitola Arsenale di Roma distrutta.

Vola troppo in verticale. La terra e le viscere possono fargli da sfondo o trampolino ma poi tutto se ne va dal mondo. Solo gli ideali e la loro sconfitta restano stramazzati al suolo. Anche quando nell’ Iliade Achille trasforma in sangue le acque dello Xanto, per la carneficina che vi compie, sappiamo che ben presto gli Dei provvederanno a rigenerare le acque. Solo nell’ Inferno di Dante (appunto la Divina Commedia è una «Commedia») le creature vivono nel loro insindacabile destino vestite di corpi, organi e immerse nei liquami. Invece, nel frattempo, Lamento di Portnoy (qui) assesta un colpo all’ intera letteratura americana epica e on the road e si fa plesso per poi diradarsi e invadere l’ intera opera, anche quando costruisce il canto stonante della Pastorale americana.

Ecco: il corpo. La stessa famiglia dell’ infante e poi adolescente e infine trentatreenne Alex è un concentrato asfissiante, deterso, grasso, incastrato, trapiantato di sensi che fanno una famiglia, cioè un perfetto e incancellabile corpo che fonda ogni origine e fine.

Quella famiglia con il padre che sulla tazza del cesso sbraita: «Perché non riesco a smuovere gli intestini! Ho le prugne che mi escono dal culo!», con il figlio che si masturba compulsivamente per eiaculare nei cappelli, negli zaini, in mezzo a una fetta di carne di fegato, perfino nel guantone del tanto divinizzato baseball – contro lo sciocco football dei cristiani – ecco, quella famiglia è una tana animale: è il ceppo fondante e imprescindibile della cultura ebraica (così palesemente europea in Roth).

Dalle ferree Leggi alle ossessive attenzioni della madre che ingenerano bestiali complessi di colpa, ma anche spinte sensuali nel mentre Alex la guarda quando si tira su le calze di naylon; dal padre, promotore finanziario che sgobba quanto Il commesso viaggiatore di Miller, che però non paga il dazio della frustrazione e della sconfitta, questa famiglia così animale che si racconta per bocca di Roth nella enclave ebraica di Newark, è un vero mescolio di organi e cibo, sesso e ebraismo, comunismo e psicoanalisi che mai più Philip potrà ricacciare indietro per proseguire in avanti.

Per gioco, rileggendo Lamento, ho pensato a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (qui). Anche là c’ è una famiglia ebraica, i Levi, che si rintanano e rincorrono tutto il santo giorno. Ma la loro famigliarità è così saldata alla finezza e al controllo del vocabolario e dove quindi sarebbe inammissibile raccontare dello shlong (pene del padre) come fa Alex, che «richiama alla mente le pompe antincendio arrotolate lungo i corridoi della scuola».

lamento di portnoyCome è così distante la fantasia che ci riporta a Il giovane Holden (qui). Holden è un disarticolato, brufoloso, imploso, in rivolta contro il mondo degli adulti. Invece il Lamento di Portnoy è una compulsione di corpi che vivono su un confine esplosivo. Alexander vorrebbe scindersi e tagliare il cordone ombelicale: non ce la farà mai.

Andrà avanti ripetendo, come nella sfrenata passione masturbatoria: «Ebreo ebreo ebreo ebreo ebreo ebreo!».

Solo quando raggiungerà la Terra Promessa, in Israele, a Tel Aviv, e proverà le sue esibizionistiche, predatorie e ossessive attività falliche – prima con una soldatessa e poi con una ragazzona colona e spartana – farà cilecca. Come se il sesso della Terra Promessa fosse unico e insuperabile.

Rileggendo Lamento di Portnoy mi è tornato alla mente la follia del membro che agitava un compagno randagio del Miller parigino di Tropico del Cancro (qui). Quel tipo al quale si era gonfiato l’ organo e a ogni angolo di strada lo tirava fuori dalla patta per controllarne lo stato. Anche Alexander, a Tel Aviv, ricorda che a Roma (anche lui in via Veneto) con la Scimmia si è lasciato andare a un accoppiamento a tre, con la terza puttana pescata sulla strada famosa. Il sesso della famiglia interamente ebraica, senza alcuna interferenza di altre culture e mondi, lo sovrasta, gli acceca l’ unica e definitiva molla che possiede: il corpo e dunque il sesso. Mi è venuto di pensare che come Honoré de Balzac scrive La commedia umana, così per tutta la vita Philip Roth scriverà La commedia del corpo.

philip roth barack obama

Roth con Barac Obama

Mollerà di narrare, infatti, proprio quando avvertirà che il corpo, cioè il sesso non può più sostenere la scrittura. Infine, nell’ intera esplosione di nervi, sangue, sperma, contestando «la famiglia» e quindi la famiglia per antonomasia, quella ebraica, Roth, in tutti i suoi dinieghi e aborti ha preteso di rimanere solo. Sorge allora il dubbio che egli volesse rappresentare fino alle estreme conseguenze la condizione dei Patriarchi, dei capi delle Tribù.

Non nella proliferazione della famiglia, bensì nella fedeltà comunque alla sua famiglia, simbolo della grande famiglia ebraica. Egli non ha concimato, però si è tenuto in grembo il seme. Incredibile, Roth, da Lamento di Portnoy in poi, non ha ammassato figli nell’ Arca. Li ha dispersi nell’ ossessione dell’ orgasmo. Ha preteso di creare in solitudine, da Patriarca, la sua Tribù. E in ciò si custodisce il segreto della sua vita e della sua opera.

Aurelio Picca per il Corriere della Sera 

LANGONE , DA NON LETTORE NON PENTITO SI SCHIERA CON CHI NON SCOPA, CONTRO IL PENSARE DA BECCHINI

 

Non ho mai letto nulla di Philip Roth, in questi giorni ho letto molto su Philip Roth. Devo dire che nessuno dei millanta necrologi è riuscito a farmi pentire, a convertirmi, a convincermi che fosse necessario correre a comprare un qualsiasi libro dello scrittore americano. Ma ho capito il problema, cosa di preciso mi tiene lontano dall’illustre defunto, soltanto quando ho letto un pezzo di Vanni Santoni. “Solo scopando si è vivi”: ho scoperto essere questa l’idea alla base dell’opera rothiana.

Camillo Langone è scrittore e giornalista. Nato a Potenza, vive a Parma. Ultimo suo libro è Pensieri del lambrusco, edito da Marsilio

Non mi sembra un’idea originalissima (non l’aveva già espressa Henry Miller?). Non mi sembra un’idea da promuovere. Forse, qualora ci si riferisse esclusivamente al coito vaginale completo, non interrotto, praticato con donne fertili che non usano anticoncezionali, sarei tentato dall’acconsentire. Ma a parte che l’accezione rothiana della parola “scopare” potrebbe essere diversa (chiederò lumi a Santoni che invece Roth lo ha letto), vorrebbe dire che i casti, gli impotenti, i disinteressati, gli infecondi, gli impossibilitati sono quasi morti. E’ un pensare da becchini. E da artisti deboli: ritengo grande colui che anziché ribadire le gerarchie esistenziali più ovvie riesce a mostrare la vita dove non sembra essercene molta. Prego affinché sorga un nuovo scrittore munito della seguente idea: “Si è vivi sempre”.

Camillo langone Il Foglio, 29 maggio 2018

IL TEATRO DEL BURATTINAIO

IL TEATRO DEL BURATTINAIO

IL TEATRO FRA VITA E MORTE DI PHILIP ROTH– LA VITA TRASFORMATA IN FEROCE OSSESSIONE, L’EROTISMO PERVERSO IN MEZZO DI ESPIAZIONE- QUANDO L’UNICO DIALOGO POSSIBILE E’ CON I MORTI. 

Philip Roth, forse il migliore fra gli scrittori americani oggi, nel 2012 ha annunciato che non avrebbe più scritto una riga. Un atto di onestà più che di impotenza. L’eterno ritorno del medesimo romanzo, in cui cambia solo la copertina e viene dissimulato a stento il solito titolo, non è nelle corde di Roth, il quale ha detto: “scrivere è avere sempre torto”. Roth ha già detto e scritto molto, e ci vorrebbe una seconda vita, esaurita o quasi la presente, dato il carattere claustrofobicamente autobiografico del suo narrare. L’idea della morte, del decadimento e dell’impotenza verso il dissolvimento finale è perennemente presente nei suoi romanzi, spesso con toni rassegnati o ironico fatalismo, più spesso con rabbiosa insofferenza o sorda ribellione. La descrizione di un funerale è nell’esordio di Everyman. Il teatro di Sabbath sembra topograficamente girare come un moscone impazzito attorno al cimitero dov’è sepolta Drenka, una che a letto era memorabile. Pastorale americana ha come presupposto la morte del suo protagonista Seymour, del quale viene ricostruita la vita. Il Teatro di Sabbath si chiude con questa dissacrante epitaffio: Morris Sabbath / “Mickey” / Amato Puttaniere, Seduttore, / Sodomizzatore e Sfruttatore di Donne, / Distruttore della Morale, Corruttore della Gioventù / Uxoricida / Suicida / 1929 – 1994»

Nel pezzo che voglio riproporvi, tratto appunto da Il teatro di Sabbath, la morte diventa assenza, vuoto incolmabile, eppure dotata di una disperata, assoluta capacità, di sconvolgere la vita ordinaria, banale, attraversata da manie, idiosincrasie, tic, eccessi, morosità sessuali che tutti i personaggi di Roth si portano appiccicati addosso.

Altro topos rothiano è il confronto del protagonista con un essere perfetto, più bello o migliore, da imitare piuttosto che da invidiare. Nel brano è Morty, fratello di Michey, cioè lo stesso Sabbath. L’edizione è quella Mondadori 1996, nella traduzione di Stefania Bertola.

Philip Roth nel 1984

 

“ Poi Morty andò in guerra, e tutto quanto cambiò. Avevano sempre fatto tutto insieme, la famiglia unità. Non si erano mai separati. Non erano mai stati così poveri da dove affittare la casa durante l’estate, come facevano la metà delle famiglie che vivevano altrettanto vicine alla spiaggia, ma erano comunque una famiglia povera, secondo gli standard americani, e nessuno di loro se ne era andato da nessuna parte. Ma adesso Morty se n’era andato, e per la prima volta in vita sua Michey aveva dormito da solo nella loro cameretta…

Morty aveva una brutta carnagione e non era particolarmente bello, né particolarmente bravo a scuola- appena sufficiente, fra B e C in tutte le materie meno che in ginnastica e il lavoro manuale- e non aveva nemmeno un grande successo con le ragazze, eppure tutti sapevano che con la sua forza fisica e il suo carattere deciso sarebbe stato in grado di affrontare e superare tutte le difficoltà della vita. Alle superiori era entrato a far parte dell’orchestrina scolastica come clarinettista. Era un grande atleta. Uno splendido nuotatore. Aiutava il padre sul lavoro. E aiutava la madre in casa. Era bravissimo ad usare le mani, ma del resto tutti loro lo erano: la delicatezza e la forza di suo padre con le uova, la precisa abilità di sua madre nel rassettare la casa: quella maestria digitale dei Sabbath che un giorno anche Michey avrebbe mostrato al mondo [il burattinaio come mestiere, n.d.r.] Avevano la libertà nella mani. Morty sapeva riparare qualsiasi cosa, era idraulico, elettricista, tutto. Dallo a Morty, diceva sempre la mamma, che lui lo aggiusta. E non esagerava quando affermava che in tutta la scuola non esisteva un altro fratello maggiore gentile come lui. Era entrato in aeronautica a diciott’anni, un ragazzino appena uscito dalle scuole superiori di Asbery, piuttosto di aspettare di essere chiamato. Si era arruolato a diciotto anni ed era morto a venti. Abbattuto nel cielo delle Filippine il 12 dicembre 1944.

Philip Roth (1933)

Per quasi un anno la madre di Sabbath non si alzò dal letto. Non poteva. Nessuno mai disse più di lei che aveva un paio d’occhi sulla nuca. A volte si comportava come se gli occhi non li avesse neanche sul davanti, e, per quel che poteva ricordare quel figlio sopravvissuto mentre ansava e inghiottiva come se volesse prosciugare Drenka [il brano è un’intercalare di un scena erotica fra Sabbath e Drenka, la sua amante, n.d.r.], nessuno l’aveva mai più sentita fischiettare la sua sigla personale. Adesso la casetta lungo il mare era silenziosa quando lui tornava a casa da scuola e, finchè non entrava, non riusciva neanche a capire se sua madre fosse in casa o no. Niente torta al miele, niente pane con i datteri e le noci, niente sformati: tornando da scuola non trovava più niente a cuocere in forno. Quando il tempo era bello, la mamma se ne stava seduta sul lungomare e guardava la spiaggia dove un tempo era solita correre con i suoi bambini per comprare il pesce direttamente dai pescatori e pagarlo la metà di quel che costava al negozio. Dopo la guerra, quando tutti tornarono a casa, lei andava lì a parlare con Morty. Col passare degli anni, gli parlava sempre più spesso, e nella casa di riposo di Long Branch dove Sabbath dovette metterla a novant’anni, parlava soltanto con Morty. Non aveva idea di chi fosse Sabbath, quando lui si faceva quattro ore e mezzo di macchina per andarla a trovare, nei due anni di vita che le rimasero. Non riconosceva più il suo figliolo vivente. Ma tutto era cominciato già nel 1944.

E adesso Sabbath parlava con lei. E questo non se lo sarebbe mai aspettato. A suo padre, che non aveva mai abbandonato Michey, nonostante la sofferenza per la perdita di Morty, che lo aveva sempre sostenuto visceralmente, anche quando la vita di quel figlio era diventata incomprensibile per lui, ad esempio quando si era imbarcato appena finite le superiori, o quando aveva cominciato a fare spettacoli di burattini per le strade di New York, al suo defunto padre, un uomo semplice e ignorante che, a differenza della moglie, era nato in Europa ed era venuto in America tutto solo a tredici anni e , nel giro di sette anni, aveva guadagnato abbastanza da mandare a chiamare i genitori e i due fratelli minori, a lui Sabbath non aveva mai rivolto la parola da quando era morto a ottantun anni, quattordici anni prima, già pensionato e ridotto ormai ad un filo. Né aveva mai sentito la presenza della sua ombra accanto a se. Questo non solo perché suo padre era sempre stato il componente meno comunicativo della famiglia, ma anche perché nessuno aveva mai tentato di dimostrare a Sabbath che i morti fossero qualcos’altro oltre ad essere morti. Per comune ammissione, parlare con loro significava indulgere ad uno dei più imperdonabili tra i comportamenti irrazionali umani, ma era comunque qualcosa di estraneo a Sabbath. Lui era realista, ferocemente realista, tanto che a sessantaquattro anni aveva quasi rinunciato ad entrare in contatto con i vivi, figuriamoci a discutere i suoi problemi con i morti.

Eppure ormai faceva proprio questo, giorno dopo giorno. Sua madre era lì con lui ogni giorno, e lui le parlava, e lei comunicava con lui. Mamma, quanto sei esattamente presente? Sei soltanto qui o sei dappertutto? Se avessi la capacità di vederti, ti vedrei con la tu solita faccia? L’immagine che ho in mente cambia senza sosta. Sai soltanto le cose che sapevi quando eri viva, oppure adesso sai tutto, o magari “sapere” non conta più niente? Come vanno le cose? Sei ancora così disperatamente triste? Che bella notizia sarebbe, se tu fossi di nuovo quella di una volta, allegra e fischiettante, perché Morty è con te. E c’è, lui? E papà? E se ci siete voi tre, perché non anche io? O invece la vostra è una esistenza incorporea, come tutto il resto, secondo la natura delle cose, ed Dio non è più necessario lì di quanto lo sia qui? O non indaghi sulla tua condizione di morta proprio come non indagavi sul tuo stato di creatura vivente? Essere morta è qualcosa che fai con la stessa naturalezza con cui mandavi avanti la casa?

Philip Roth sul terrazzo dell’appartamento nell’Upper West Side N.Y.

Inquietante, incomprensibile, ridicola, la visitatrice era comunque reale: per quanto tentasse di costringersi a ragionare, Sabbath non riusciva a mandar via sua madre. Sapeva che lei era presente proprio come sapeva che era al sole o all’ombra. C’era qualcosa di troppo naturale nel modo in cui la percepiva perché questa percezione svaporasse di fronte ad un’opposizione ironica. Sua madre non saltava fuori soltanto quando lui era disperato, non succedeva solo nel cuore della notte quando si svegliava in preda al lancinante bisogno di qualcosa che sostituisse tutto ciò che andava scomparendo: sua madre era nel bosco, era su alla Grotta con lui e Drenka, sospesa sui loro corpi nudi come quell’elicottero.[si tratta del luogo degli incontri amorosi con Drenka, sorvolato una volta da un elicottero]. Forse l’elicottero era sua madre.

La sua mamma morta era con lui, lo osservava, lo circondava. Gliela avevano sguinzagliata dietro. Era tornata per accompagnarlo a morire.”

 

Tre donne, una sconosciuta

Tre donne, una sconosciuta

Amalia Earhart indomita aviatrice

   Amelia Earhart indomita aviatrice

Philip Roth, nel suo Lamento di Portnoy, ricorda tre donne memorabili: Mariella Curie, Anna  Karenina e Amelia Earhart. Un tris assai poco assortito, ma di donne vere.

Di Amelia Earhart non sapevo nulla, se non che è stata una avventurosa pilota, misteriosamente  scomparsa alla guida del suo aereo. Lo sapevo per averlo letto in un articolo solo pochi giorni  prima, curiosa coincidenza!

Mi è bastato ciò per entrare subito in wikipedia, dove puntualmente è comparsa la pagine a lei dedicata.

 

Nata nel centro degli USA, in quel Kansas dove pionieri avventurosi vanno a caccia di bisonti, sul  finire del 1800, Amelia scompare nel Pacifico nel 1937. Sono gli anni ardimentosi in cui l’aeronautica scopre di potere superare ogni limite. Amelia è una protagonista, una delle poche donne aviatrici dell’epoca. Ben presto diviene famosa col nomignolo di Lady Lindy, si cimenta in attraversate che fanno epoca ma, soprattutto, in vertiginosi voli di altura, supera il muro dei 5 mila metri, con un biplano e senza ossigeno. Scompare il 2 luglio del 1937 nel Pacifico, dopo concitati allarmi, probabilmente per mancanza di carburante. Doveva essere l’ennesimo record, finì dispersa in mare, le ricerche si protrassero senza esiti per oltre 15 giorni, mentre l’opinione pubblica americana tratteneva il fiato commossa.

Da allora Amelia entra nel mito: libri, films, canzoni, un museo nella cittadina natale di Atchinson, pavesata con le bandiere dell’orgoglio americano. Il mito si autoalimenta fino ai nostri giorni: con la scoperta di resti d’ossa a lei attribuiti in un’isoletta del Pacifico; l’apparizione di una misteriosa Irene Craigmile Bolam, rediviva e sedicente Amelia; testimonianze giurate di soldati giapponesi e decorati di guerra americani che giurano di averla vista ancora in vita anni dopo, ecc.

Non poteva mancare un sito a lei dedicato: vi appare in numerose foto, scattate in diverse epoche. Alta, un ciuffo di capelli ribelli, la bocca ben disegnata, gli occhi grandi e distanti. Ti immagini la grazia flessuosa di una antilope, ti colpisce il sorriso un poco spavaldo e, nell’insieme, la scorza da maschiaccia, come si conviene ad un’avventuriera. Una, insomma, che scorda il rimmel, ma non il rancio di caserma.

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