MORGAN

MORGAN

Prologo. Dopo aver letto questa intervista Morgan mi ha scritto il seguente messaggio: «Mi dispiace molto ma non sono attratto da questa adolescenziale costruzione del mito sregolato. Te lo ho detto chiaramente: questo atteggiamento è ciò che contribuisce a rovinarmi gratuitamente l’esistenza, e tu vuoi far parte di ciò.

Fai finta di aver compreso ma la realtà è che facendo così dimostri di non aver compreso nulla. Avresti potuto essere totalmente diverso nell’impostazione, maturo, ma hai fatto, come troppo spesso mi accade, una cosa grottesca, che non riporta me tra gli intellettuali d’oggi e tantomeno tra i musicisti e piuttosto che raccontare al mondo quanto è intelligente quanto è bravo quanto è diverso dai coglioni, sa solo dire quanto è folle». 

Intervista a un fantasma

Devi entrare nel suo flusso. Lasciarlo parlare, seguire i giri della sua mente e il battito delle parole, passare anche tu dalla paranoia all’ironia, dalla depressione alla genialità, dal terreno al filosofico con la sua stessa disinvoltura, fregartene se invece di rispondere alle tue domande va avanti con il proprio ragionamento, zittirti e ammirarlo quando nel mezzo di un discorso si gira e suona il piano per minuti, minuti e minuti, impazzendo e scuotendo dita e testa e capelli. E poi, dopo che sei entrato nel suo flusso, nel suo mondo, nel suo essere, solo allora, forse, puoi capirlo.

Dovrebbe comporre e scrivere poesie, Marco Castoldi in arte Morgan, e basta. Vorrebbe misurarsi solo con l’Arte, con i grandi maestri, quelli che ha conosciuto come Battiato ed Eco, e quelli che lo hanno ispirato, come Baudelaire e Rimbaud, purtroppo si ritrova invischiato in polemiche, spesso è lui stesso a crearle per amore della provocazione e per bisogno di attenzione, ma, mi scrive sempre dopo aver letto l’intervista, “le mie non sono polemiche ma risposte ad un mondo sterile che dovrebbe finalmente cogliere che nessuno più di me si dedica all’arte anziché perdere tempo”. 

Morgan è figlio e vittima del palco, per lui causa di slanci, dipendenze e cadute. Il palco lo deve ringraziare e maledire. Quello di Sanremo, per esempio. Si presenta con cappello da pirata e un sacchetto di gommose zuccherate, te le offre, poi chiede un trucco tipo vampiro, o meglio «fantasma», e un po’ di vino. Gli offrono del Moscato da pochi euro, lui si accende una sigaretta. La prima. 

Sei sparito per quattro giorni e quando ci siamo sentiti e ti ho chiesto come stai, mi hai risposto: «Male, molto male».

«Sì, che dovevo dire? A te non capita mai di stare male?».

Sempre.

«E allora? Il problema è dirlo. Oggi ci sono dei problemi con le parole. Io amo le parole. Sono importantissime. Io ho scoperto la violenza delle parole in concomitanza col suicidio di mio padre».

Avevi 16 anni…

«Il suicidio di mio padre mi ha fatto elaborare un senso profondo del comunicare, dell’esprimersi, del liberarsi. Ho cominciato a lavorare sulla sensibilità, che è un’anima dolce, gentile, femminile, che dà il senso del creare un’opera d’arte, che sia pittura o una canzone. È il gesto dell’amore. Quindi la poesia, la parola, in questa dimensione, diventa il senso della vita, è un aggancio, è la salvezza. “Dì solo una parola ed io sarò salvato”, non è così? Dal vangelo di Giovanni. Quella parola non ho mai capito quale fosse…».

Oppure: «Nel principio era il verbo». 

«Wow. Però Davide Rondoni, il poeta, mi ha spiegato che il verbo non è una parola ma un movimento, un vento, un magma circolare da cui si genera tutto. Oggi la parola è un fantasma, è sotto assedio. Ma io voglio parlare del ghosting…».

L’arte di annullare una persona.

Io lo sto subendo dalla persona che più in assoluto mi faceva sentire stimato e rispettato. Il nostro era uno specchiarsi meraviglioso e vedersi belli negli occhi dell’altro, era una relazione con una compatibilità naturale, totale. Per me è stato spaventoso, traumautico che per ragioni incomprensibili tutto questo si sia improvvisamente tramutato in un disprezzo tale da annullarsi completamente. Sfido chiunque a reggere una cosa simile, è inspiegabile, logorante».

Ne parli spesso di questa donna. Ma chi è?

«Ho provato ogni modo per sentirla, le ho scritto tanto».

Anche negli ultimi 5 inediti respinti da Amadeus parli di lei…

«Ma è tutto. Io la amavo… Lei deve aver subito qualcosa che non so, un incantesimo, è inspiegabile quello che è successo, è un incubo. Nessuno è riuscito a raggiungerla. Paradossale che lei guardi quello che scrivo io e io non possa farlo e che sia stato denunciato per stalking. Ma non sono mai andato sotto casa sua, le ho solo scritto, ma dov’è l’insistenza? Mai avuto risposte.

L’ORDINE E’ UN CONCETTO RELATIVO – CARTELLO IN CASA MORGAN

Questa cosa mi ha scatenato un’inquietudine gigantesca, perché improvvisamente non posso più parlare con la persona con cui parlavo sempre. Lei era il cento per cento delle mie conversazioni, le nostre chat su Whatsapp erano diventate un romanzo di 500 pagine a settimana. Abbiamo fatto dieci anni così, scrivevamo e componevamo insieme, con naturalezza».

Morgan con Noemi

C’era anche un rapporto d’amore?

«C’era tutto, era la mia migliore amica, eravamo amanti, in libertà. Poi un graduale allontanamento, fino a quando mi ha bloccato. Ho provato a chiamarla ma lei, subito: “Ti denuncio”. Ho pensato anche che abbia affrontato un percorso terapeutico indotto, forzato, che l’ha portata a disinnamorarsi. E dal 25 aprile del 2020 io per lei sono diventato angoscia».

Quasi un anno…

«Ora vivo in questa distanza romanzesca, in questa idealizzazione folle che io costruisco dentro il mio racconto, che è un’assenza assoluta, e ho costruito un’opera gigantesca che è narrazione, fiaba, dialogo elettronico, ambient, voci, esperimenti, canzoni… Tutte queste cose messe insieme sarà Morgangel, credo di aver superato dieci ore di musica. Dovrò farne un serial a episodi, è la mia autobiografia. Ma devo stare attento perché io non sono autorizzato a parlare di lei, come se Petrarca non avesse potuto parlare di Laura o Dante di Beatrice. Io sono lo stalker della musa, non è moderna questa cosa? Ho pure interpellato Francesco Alberoni, grande conoscitore di queste dinamiche».

VIETATO QUALSIASI SOCIAL NETWORK – CARTELLO IN CASA MORGAN

Il sociologo. Cosa ti ha detto?

«Ho passato un agosto tristissimo, totalmente silenziato a Milano e con l’angoscia nel cuore, consolato da Alberoni, che mi spiegava:  “L’innamoramento consiste in tre dati di fatto: l’idea del futuro, il pensiero ossessivo, il sogno a occhi aperti”.

Bellissimo e verissimo.

«Ha capito che stavo soffrendo, il ghosting è un’uccisione psicologica, è protratto, è un insulto costante, allucinante, ti fa mancare il fiato».

«La follia è l’unica via per la felicità» hai detto una volta. Adesso quanto sei folle e quanto sei felice?

«La mia è una follia divertente e creativa, è bizzarria, euforia, ma non ho alcuna turba psichica. Ho fatto spesso test psicologici, perché in occasione di affidamento di minori mi è capitato, e sono sempre, tragicamente, risultato privo di turbe psichiche. Non sono aggressivo, non sono istrionico, non sono bipolare, non sono narcisista né maligno… Se io sono sano, cazzo c’è un problema! Sono gli altri che si adeguano, che resistono, che sono tutti fuori come delle mine».

Resilienza…

«Ecco, ma che parola è?»

Resistere in condizioni avverse, l’anticamera del controllo sociale. Perché resisti e non ti ribelli. Ti adatti.

(Si accende un’alta sigaretta) «Adattamento è una parola importante, perché l’adattamento è gravissimo, non bisogna vantarsi dell’adattamento. Il disadattato è quello sano. L’adattato è uno che è stato frustato talmente tante volte che non sente più il dolore, il disadattato no! Il disadattato protesta, si lamenta. Il disadattato è una persona libera. Pensa che deformazione ha la parola adattamento quando parli di un bambino: “Ah è così bravo, lo metti lì e non fa niente”, oppure: “Ah io mi so adattare benissimo!”. Non ci si deve vantare di adattarsi».

Hai preso il nome Morgan da un pirata, un corsaro. 

«Il libro su di lui me l’ha regalato Dori Ghezzi quando è morto De André, La Santa Rossa di Steinbeck, in cui si parla di Henry Morgan, e dentro c’erano le note scritte a matita da De André stesso, io ero giovane, e da giovane sono stato sempre in mezzo a una generazione di narratori fantastici. La Pivano, Battiato… Con lui mi sono divertito a fare pranzi e cene di parole».

Meraviglia.

«Una volta sono andato a pranzo in una giornata bellissima al Buon Convento in Corso di Porta Romana con Battiato e il filosofo Manlio Sgalambro, autore di molti suoi testi. Io ero a palla. Appena ho guardato la porta d’ingresso del ristorante ero emozionato, sono entrato e da lì ho visto le sagome di Battiato e Sgalambro arrivare al di là della porta a specchio del locale. Ci si dava del lei, erano ironici di brutto… (Fa la voce di Battiato e la imita molto bene).

Franco mi diceva: “Dove andremo con questi nuovi cibernetici,viviamo nel neoprimitivismo, ma che ci importa della letteratura gotica, che ci importa della svastica…”, poi si rivolgeva a Sgalambro: “Lei Manlio trascura il fatto che la simbologia è molto più antica perché dobbiamo risalire ad un altro tipo di cultura”. Poi mi chiedeva (lo imita ancora): “Ma di questo Lou Reed che ne pensa?”. Non mi faceva nemmeno rispondere (ne continua a imitare la voce): “Lou Reed è uno che sputa quando canta, trascina sé stesso dentro la canzone, diventa un fantasma di sé, però ci sono almeno due pezzi dei Velvet Underground come Sunday Morning che sono illuminanti».

Per te era un parco giochi.

«Dopo è uscito il brano Shock in my town. Nel brano firmato da loro due ci stava tutta la conversazione di quel giorno. Sono andato da Battiato a Catania per l’album Gommalacca, dipingeva con un grembiule da venditore di frutta e stivali da pescatore, sul balconcino, io lavoravo a fare gli arrangiamenti.

Ogni tanto cambiava due tre note, spostava un semitono, (imita la sua voce) “questo più su, no più giù, no più su, un poco più giù, ecco, ecco, così”. E con noi c’era anche il cantautore Juri Camiscasca, faceva le dorature dei quadri, era uscito dal monastero dopo 11 anni di clausura ed era un’altra presenza allucinante. Amava tutto quello che facevo. Gli facevo un accordo e gioiva. Gioiva per ogni cosa. Quel momento fu storico. Battiato mi manca tantissimo adesso».

Ma come ci sei arrivato a lui? La tua adolescenza è a Monza.

«Ho iniziato a scrivere musica a 5 anni. Un giorno telefonò il maestro di musica in prima media a mia madre, e disse che era preoccupato per me: “Suo figlio è troppo dissonante”. E mio padre: “No, mi piace molto di più quando è dissonante”. Mia madre allora mi ha portato da un’inquisitrice giapponese per farmi esaminare e che mi ha detto di suonare i pezzi dei Beatles in chiave moderna. Un’allucinazione dietro l’altra. Quindi ho fatto opera di composizione. E nel 1995, Battiato, dopo il concerto del primo maggio, entrò nel camerino dei Bluvertigo e disse: «Volevo conoscerti perché quando canti mi sembro io».

Tuo padre che faceva?

«Il falegname. Pinocchio».

E la mamma?

«La maestra».

A 16 anni facevi l’uncinetto con tua madre.

«Ma questa l’ho detta su Clubhouse?»

No, ma lì ho sentito che giocavi a tennis.

«A 16 anni ho fatto i campionati nazionali, ero forte, sono arrivato terzo. Poi ho dovuto scegliere se suonare il piano o continuare, non ce la facevo a fare 8 ore di piano e 4 di tennis».

Primo ricordo?

(Si accende un’altra sigaretta, si chiude su se stesso, pensa) «È audio, sono nel grembo e c’è un suono calmante, rumore di pioggia ovattata. Un primo ricordo vero non ce l’ho, potrebbe cambiare sempre, ricordi di gatti, di angoli della cameretta, odori, la moquette anni 70, la moquette in Italia non c’è più, io le adoro, vorrei vivere in una casa nel bosco, alla Tolkien, freddo fuori, caldo, caldissimo dentro. Legno e fuoco. Pinocchio. Bel romanzo, tosto, Pinocchio eh?».

Morgan con Philippe Daverio, di recente scomparso

Cosa stai leggendo adesso?

«Un libro sulle marionette che ho comprato a un euro in una bancarella. Non ha un autore, è graficamente fantastico. Ci sono le storie di vecchie famiglie di Milano che avevano le marionette».

Parli di Pinocchio, leggi un libro sulle marionette, tutte cose che hanno a che fare proprio con il lavoro di tuo padre…

«L’ho visto che mi salutava dalla finestra, e poi non l’ho più visto vivo, ma morto in un bosco. Era il 1981. L’esistenza mi è piombata addosso, pesantemente». 

Morgan nella casa di Giuseppe Verdi a Busseto

TI senti decontestualizzato dal 2021?

«Mi sento un fantasma, lo sono in tutto. Discograficamente, sentimentalmente. Il grande escluso. Amadeus pure ci ha messo il suo. Posso avere un altro po’ di Moscato?»

Fiorello ti ha citato nella pubblicità di Sanremo.

«Non mi hanno avvisato né pagato, boh».

Ti faccio dei nomi e mi rispondi secco. Fedez.

«Lo vedo bene con un’Ibanez. Se Ibanez fosse una modella… invece purtroppo è una chitarra».

Fulminacci.

«Fulminacci non è malissimo».

Madame.

«Pare che piaccia».

Willie Peyote.

«Bravissimo, è un mio amico».

Ora ti leggo una poesia: “E io mi sono convinto ormai che se una donna fa giravolte allora ha capito il mondo, e se non ha capito il mondo almeno ha capito il mio”.  

«Sembrano dei pensieri da scuole medie…».

Sono di Giò Evan, altro cantante ammesso a Sanremo 2021.

«Non mi piace, non ci possiamo capire. Ma può essere una svista, un errore di gioventù, sarà alle prime fasi di scrittura».

Orietta Berti?

«La vedrei bene con un arrangiamento heavy metal, Orietta Berti metal sarebbe fantastica. Ha una voce pulitissima, è donna di spirito, coi Bluvertigo ci siamo divertiti molto con lei».

Hai annunciato la reunion.

«Sì, li ho sentiti ultimamente, vorrei fare un album nuovo, chiamarlo Bluventuno, una roba facile, basso, chitarra, batteria e Andy con le sue diavolerie, tastiera e sax, e poi orchestra sinfonica tipo Deep Purple, rock antiquato, d’antiquariato».

Lo vedrai Sanremo quest’anno o lo snobbi?

«Dipende da cosa devo fare quelle sere. Vorrei fare delle dirette Instagram e commentarlo live, oppormici, anzi fottermene!»

Non posso esimermi: Bugo?

«Con Bugo purtroppo non ci ho più parlato, mi ha fatto un po’ di ghosting anche lui. So che farà il duetto con i Pinguini Tattici Nucleari… Dovrebbe fare la mia canzone Altrove ma purtroppo non arriverà mai a sti livelli, se lui faceva la cover di Altrove era finita, giuro, vinceva lui. Ma lui s’è preso male davvero. Assurdo, è un ipocrita, anzi un hip-pop-crita. Il problema degli italiani? Non hanno senso dell’umorismo».

L’hai più sentito Amadeus dopo le vostre polemiche?

«No, mi ha bloccato. Scherzo, a me piace scherzare, ridere. Per me è un bravo ragazzo. Non ho motivi di avercela con lui, credo sia difficile stare dentro le logiche di queste robe, avrà avuto delle pressioni, sicuro».

«Io sono un genio» hai detto molti anni fa.

«Oggi su Clubhouse ho detto: “Io sono un’ape che guarda l’alveare dall’alto, guardo gli altri perché volo molto più in alto e perché me lo sono guadagnato sto volo”».

E da lassù cosa hai visto?

«Che i più bravi di tutti sono i tassisti, perché parlano e sanno le storie, fanno una vita di relazione, poi ci sono gli insegnanti e i ricercatori. I pezzi di merda sono i web manager, i web designer, i social manager, che non si sa cosa fanno, che parlano di monetizzazione, di conversione. Il tassista ti parla di Italo Svevo, della coscienza di Zeno, e ti porta pure dove gli dici te. Quelli lì non parlano di niente. C’è un tale che si chiama Montemagno. Ma chi cazzo è? Non so chi è. È insopportabile. Le cose belle che puoi vedere sul web sono poche».

Quali?

«Un dibattito tra Chomsky e Foucault, la conferenza di Chomsky Justice vs Power, il simposio dello scienziato Douglas Hofstadter che racconta l’evoluzione e ti porta a capire che l’intelligenza artificiale non sostituirà mai l’uomo. Di Hofstadter avevo letto che avrebbe insegnato un anno a Bologna e mi sono iscritto al suo corso di semiologia, lo introduceva Umberto Eco. Uno spettacolo. Nell’ultima lezione ci disse: mi è morta la moglie, voglio solo essere amato. Cioè, uno scienziato che in italiano perfetto ti fa capire che ok l’universo, la fisica e il resto, ma la cosa più importante è sentirsi amati. Eco diceva: “A quest’uomo non gli perdonerò mai di non sapere l’aramaico”. E sosteneva che la Divina Commedia tradotta in inglese faceva cagare e che solo in russo si poteva tradurre Dante» .

Tu chi hai amato di più?

«Inevitabile dirti che quest’ultima le straccia tutte, compresa la famosissima Asia, che è stata una grande distruttrice, una divoratrice, una mantide religiosa per eccellenza, che mangia la testa degli uomini. (Si mette al piano). Dice: «A me piace la musica russa. Senti questo pezzo di Skrjabin». Lo suona per cinque minuti. «Cioè questo nel 1901 che cosa scriveva? Pare jazz. Sembra Tenco. Però è il 1901, suo figlio è morto a 11 anni. È morto nel lago ghiacciato. Allucinante come era forte Skrjabin».

Tu come vorresti morire?

«Io sono morto già da tempo… Vorrei morire in scena, per esempio Carmelo Bene voleva morire in scena fumando e bevendo una spremuta di mandarino. Era convinto di morire perché aveva avuto un infarto. Me l’ha raccontato la figlia del medico che era stato chiamato per soccorrerlo. Era tutto buio. Il medico era entrato nella stanza e ha visto solo la luce della sigaretta accesa, Carmelo era nudo a letto».

A che età vorresti morire?

«Prima di morire vorrei dirigere un’orchestra, e poi vorrei fare un po’ di cinema musicale»..

Com’è la vita dopo la morte?

«È uguale, io credo di poter pensare di morire di suicidio, possiamo ipotizzarlo».

È vero che hai tentato il suicidio.

«Per me il tentato suicidio è come se fosse una cura, lo tento un paio di volte al mese…Secondo me andrebbe somministrato come cura antidepressiva un paio di volte al mese» (ride).

Come?

«È un pensiero, è il pensiero della morte, ma in realtà è un grido di aiuto. D’altra parte se vivi nella situazione del silenziato l’unica chance che hai per farti sentire è il racconto di te stesso, no?».

Chi sei stato nella vita precedente?

«Un cane. Coi cani vado d’accordissimo, per me sono fratelli. O forse un corvo. Dario Argento m’ha raccontato che i corvi parlano. Mi disse che una volta aveva 500 corvi sotto mano, che doveva girare una scena di Opera, e si è cagato addosso perché questi parlavano. T’immagini 500 corvi che parlano? Dario Argento che ha paura è una bella immagine».

Com’era andare alle cene di Natale con Dario Argento?

«Ricordo una Pasqua… Erano venuti lui e Daria Nicolodi, una donna di una gentilezza e bellezza, coltissima, a casa di mia mamma. Dario si addormentò su una sdraio in giardino guardando un albero. Noi eravamo lì e ci chiedevamo: “Cosa facciamo?”. Daria ci diceva di non svegliarlo, che se dormiva voleva dire che stava bene. Si è svegliato e poi siamo andati a piedi a vedere la casa che stavamo costruendo.

E lui: “Guardate questa luce, è la northern light, Bergman mi diceva che era così la luce del nord…”. Bergman, capisci? Per Dario Argento la luce di Monza era la northern light: bellissimo. È uno che si spaventa. Mia mamma gli aveva regalato dei guanti neri, e lui morì di paura, perché i guanti neri per lui sono simbolo di terrore. Nei suoi film nelle scene di omicidio arriva l’attore con i guanti neri…»

È vero che hai problemi alle corde vocali?

«No. La voce è una cosa viva, la mia voce ha le rughe, si sente… (Prende il cellulare, legge versi di Petrarca): “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core in sul mio primo giovenile errore quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono”. Cioè, aiuto, i versi più belli che sono mai stati scritti. Vedi la differenza del suono che c’è con Dante? “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per la selva oscura…”. Senti l’accento, la rima, come cambiano? Dante è endecasillabo, è più secco, non è rotondo come Petrarca. Purtroppo della poesia non gliene frega niente a nessuno».

Cosa vorresti scrivere sulla lapide?

«Un epitaffio di Edgar Lee Masters… Devo dimagrire, voglio rimettermi in forma. Voglio fare un momento di detox totale e andare in America» (si accende quella che sarà la decima sigaretta).

Quanto fumi al giorno?

«Non so, butto via le sigarette dopo due, tre boccate. Battiato amava tantissimo fumare (ne imita la voce, sempre meglio): “La donna quando fuma è irresistibile. Ci sono due cose irresistibili: la danza del ventre e le donne che fumano”. Torna a suonare. Stavolta Beethoven. Si agita, impazzisce, quando si ferma sorride. 

Hai anche detto che assomigli a Gesù Cristo.

«Certo, assomigliamo tutti a Cristo nella misura in cui siamo condannati a essere uomini e donne. Cristo è così amabile, così dolce, così ingiustamente condannato che non si può accettare che sia crocifisso, bisogna smetterla con questa crocifissione».

Ti sei mai scoperto a pregare?

«A Capodanno sono andato in Chiesa, ho chiesto di essere confessato e il parroco mi ha mandato da un suo emissario di 72 anni, simpaticissimo, e gli ho fatto: “Be’, hai soltanto una decina di anni ancora”. E lui: “Ma sei un po’ stronzo”.

Che peccati gli hai raccontato?

«Tutto, tutto… Gli ho raccontato del mio ghosting, a un certo punto questo prete si è commosso e mi ha fatto: “Io ti ringrazio, sono contento di averti conosciuto oggi”. Si è messo a pregare per me e ha aggiunto: “Preghiamo per questa persona che non ti capisce…”. Io invece gli ho detto di pregare per chi non ha da mangiare, per quelli che soffrono veramente di fame. Alla fine abbiamo pregato per il perdono. Il perdono è l’inizio, non è la fine».

Tuo padre si è tolto la vita a 48 anni e tu hai detto che arrivato alla sua stessa età lo avresti perdonato.

«Ne ho ora 48, sto passando attraverso questo portone che è delicato, che è potentissimo, amo la parola perdono perché c’è dentro la parola dono, non c’entra nulla ma è bello pensare che perdonare è un dono. Sì, lo perdonerò. E perdonerò tutti». 

Epilogo. Prima di andare via Morgan sfila una quaderno senza righe dalla tasca. Le pagine sono tutte bianche, tranne le prime due. Comincia a declamare ciò che ha scritto. Comincia così: «Ancora una volta precipitare, e io, forte della mia antica…». Purtroppo il suono, nella registrazione, è confuso, non si capiscono più le sue parole. Peccato, perché era tutto davvero molto bello. Gli ho chiesto via whatsapp di rileggermelo e mandarmi un vocale. Mi ha detto: «Ora ti mando l’audio». Non è ancora arrivato. 

Tratto dmowmag.com

L’ITALIA CHE FU

L’ITALIA CHE FU

Dal 5 febbraio, per la regia di Rocco Ricciardulli, l’Ultimo Paradiso con Riccardo Scamarcio su Netflix. Fra sogni e libertà, la storia ispirata a un fatto realmente accaduto nella Puglia contadina del dopoguerra

“Non tornare più, scordati questa casa, di noi, di tutto”, dice il padre a Ciccio, personaggio interpretato da Riccardo Scamarcio in L’ultimo Paradiso di Rocco Ricciardulli. “Una storia d’amore, passionale e di anarchia” la definisce il regista, che arriva su Netflix (dal 5 febbraio) con una opera seconda ispirata alla propria pièce teatrale “​Trilogia della vendetta​”, basata su fatti reali raccontatagli da sua madre.

Un’avventura che non sarebbe stata la stessa senza l’attore pugliese di John Wick – Capitolo 2 Lo spietato, qui anche produttore, co-sceneggiatore e soprattutto protagonista nei panni di un contadino di 40 anni, sposato con Lucia (Valentina Cervi) e padre del piccolo Rocco di 7 anni, che scopriamo animato da grandi passioni. In primis quella per la giustizia sociale, che tenta di trasmettere ai compaesani, sfruttati dal potente Cumpà Schettino (Antonio Gerardi), e per la di lui figlia, Bianca (Gaia Bermani Amaral), con la quale intesse una relazione proibita e inaccettabile.

La fuga dalla propria terra e insieme la nostalgia per essa sono due forze che hanno fortemente intrigato lo stesso Scamarcio, nato a Trani e da sempre legato alle proprie radici… “L’Italia ha sempre avuto una emigrazione importante, lo sappiamo, e penso che questo sia un elemento nel quale si possa riconoscere un vasto pubblico – dice. – Ancora oggi c’è un’altra Italia che vive in altre parti del Mondo”. Ma il film non racconta solo questo, ovviamente, né semplicemente la storia già portata sul palcoscenico. “Quando l’ho proposta a Riccardo è cambiata – racconta il regista lucano. – Partendo da un evento reale siamo poi andati in un’altra direzione. Mostriamo una sequenza di eventi in cui vengono coinvolte dei personaggi ingenui a modo. Contadini che hanno bisogno di sognare. Ancora oggi c’è bisogno di sognare, soprattutto al Sud”. Dove, sostiene sempre Ricciardulli, “le dinamiche non sono poi così cambiate, solo gli attori”. “Ricordo come, da ragazzo, vedevo sfruttare le ragazze che venivano da fuori – chiarisce meglio il concetto, – cosa che oggi accade con gli extracomunitari. Io manco da molto da casa, ma ho ancora mia madre giù, e quando scendo mi accorgo che il caporalato esiste ancora e certe cose accadono”.

Anche per questo era importante ritrarre questo Meridione per regista e produttore, quel “Sud aspro e bellissimo che assiste con indifferenza ai drammi della sua gente” di cui si legge nelle note di regia. E raccontare l’antica lotta tra libertà e oppressione, tra giustizia e prepotenza, una forza e una dignità ormai perdute che facevano parte di quella autenticità. “Ho cercato di raccontare il conflitto e la tensione, evocando alcune atmosfere western, – aggiunge – un pezzo della mia terra e il suo ancoraggio a un mondo arcaico dove lo Stato, ancora oggi, non sa dare risposte alla mancanza di opportunità che impera ancora in quelle aree​”.

Si parla delle campagne e le splendide location di Gravina di Puglia (in alcuni casi le stesse dell’ultimo James Bond, No Time to Die), dove il film è stato girato in gran parte. “Quasi tutto”, specifica il regista, entusiasta di aver trovato la “maxilocation” della Masseria della famiglia Schettino, “un luogo dove poter raccontare le loro sfaccettature e quella vita in maniera semplice”. “Siamo stati tutti insieme prima delle riprese, per settimane”, come facevano grandi registi come Visconti, per trovare empatia e feeling. “Ci si vedeva la sera, si mangiava insieme”… e il risultato sembra esser stato quello desiderato.

Articolo di Mattia Pasquini per La voce di New York

Appassionato di matematica, dopo gli studi in Letterature Comparate Mattia Pasquini si occupa di cinema per professione. Direttore della prima rivista di cinema online in Italia, autore televisivo, giornalista On Air e sul web sin dal 1996 con scritti e cortometraggi animati (anche in concorso al Festival di Cannes), dopo aver vissuto a New York e a Madrid oggi vive a Roma. Almeno fino a che la sua passione per la streetart, la subacquea, animali, natura e ogni manifestazione dell’ingegno umano non lo trascinerà altrove.

FINITUDINE, UN ROMANZO FILOSOFICO

FINITUDINE, UN ROMANZO FILOSOFICO


Così dunque anche intorno, le mura del vasto mondo, espugnate, finiranno in rovina e in corrotte macerie. Bisogna infatti che il cibo reintegri e rinnovi, che il cibo ristori, che il cibo alimenti ogni cosa, ma invano, poiché le vene non sopportano più quanto basta e la natura non somministra quanto serve. Così è ormai fiaccata la nostra era e la terra stremata stenta a creare piccoli animali, lei che ha creato ogni specie e partorito fiere dai corpi smisurati.

Lucrezio, De rerum natura, libro ii, 1144–1152

La terra è vecchia

Crollerà la macchina del mondo. Per tanti anni sorretta, in tutta la sua mole crollerà. I mari, le terre e il cielo andranno in rovina in un sol giorno, un sol giorno non così lontano da non poter essere prefigurato. Tra immani cataclismi, altri occhi vedranno in breve tempo sfracellarsi ogni cosa. Ecco la visione poetica di Lucrezio. Chiediamoci dunque: che ne sa la scienza al riguardo, duemila anni dopo?

Sa che la Terra è vecchia. Avendola noi ammirata pochi mesi fa nelle prime immagini satellitari dell’Explorer 6, corrugata di vortici bianchi, il profilo curvilineo stagliato sul nulla, risplendente di colori che possiamo solo immaginare, non si direbbe proprio che una tale solitaria meraviglia sia così anziana. Tuttavia, per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia.

Eppure, basta far di conto.

Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle del a nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo. Si piegheranno le ginocchia di Atlante e la Terra esploderà in un grande sconquasso. Lucrezio ha ragione.

In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali. Da allora in poi il circolo vizioso sarà inarrestabile: temperature più alte favoriranno l’ulteriore evaporazione degli oceani. Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo. Se già ora vogliamo farci un’idea di quel che accadrà, basta osservare un asfissiato vicino di casa apparentemente sterile, Venere, dove un processo simile è già avvenuto, data la sua sventurata prossimità al Sole.

Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nel ’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita.

Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro).

Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica.

Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri. In tal senso, oggi, grazie al brusco allenamento di due recenti guerre mondiali, gli strumenti di autodistruzione non ci mancano: dalla guerra nucleare alla devastazione ambientale, passando sempre per la miope ingordigia umana. Ammettiamo dunque, per un assurdo ottimismo, che tra un miliardo di anni avremo resistito alla tentazione nichilistica del suicidio collettivo e che, grazie al nostro spirito di conservazione, qualche nostro discendente sarà ancora nei paraggi. Non è lecito, in ogni caso, rilassarsi, perché altre dinamiche planetarie potrebbero andare storte ben prima della scadenza.

L’orbita terrestre, per esempio, potrebbe deragliare fuori controllo. I modelli fisici a disposizione non sanno infatti predire l’andamento delle traiettorie planetarie da qui a 50 milioni di anni. La docile teoria di pianeti orbitanti intorno al Sole, all’apparenza così affidabile, è in realtà un sistema fisico caotico, soggetto alle perturbazioni e alle mutue interazioni di tutti i corpi che lo compongono. I pianeti sia interni sia esterni sono già migrati più volte in passato e un giorno potrebbe capitare anche a noi, che siamo lì sballottati nel mezzo. L’orbita terrestre potrebbe così avvicinarsi o allontanarsi troppo dal Sole, uscendo dalla zona abitabile, e intonando l’addio alla vita.

E se anche ammettessimo di riuscire a rimanere stabili al nostro posto, lì tra Venere e Marte, per 50 milioni di anni, resta il fatto statistico, appurato di recente da alcuni paleontologi, secondo cui, mediamente, ogni qualche milione di anni la Terra è colpita da meteoriti o comete di dimensioni tali da mettere a repentaglio la vita di gran parte delle 15 specie animali e vegetali, soprattutto quelle, come la nostra, che soffrono particolarmente all’idea di essere travolte da tsunami giganteschi, di finire accerchiate da incendi smisurati e di passare decenni al gelo del ’inverno glaciale che deriverebbe dal ’offuscamento dell’atmosfera.

Veniamo, dunque, al calcolo sorprendente che ci porta ad affermare che la Terra è vecchia. Decidiamo di essere irrazionalmente fiduciosi. Supponiamo di essere così bravi da perpetuare la nostra stirpe per milioni di anni, imparando a controllare i nostri istinti tribali, a rispettare l’ambiente e a deviare gli asteroidi assassini prima della catastrofe.

Il Sole, però, non possiamo regolarlo a nostro piacimento. Se ne sta lì, con la sua biografia prestabilita dalla fisica. Quando tra un miliardo di anni sarà diventato più caldo del 10%, per noi sarà il fine corsa. Sarà un viaggio al termine della Terra così come la conosciamo.

Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca 3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, per i cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens.  Ne deduciamo una prima constatazione, positiva: un bel pezzo del tempo totale concesso fin qui all’universo ha visto almeno un esperimento di vita di successo, cioè i resistentissimi microbi terrestri e poi, marginalmente, alcuni mammiferi bipedi e vocianti. Seconda constatazione, meno piacevole: siamo entrati nella vecchiaia della vita sulla Terra.

Se, infatti, compariamo tutto quanto è successo sin qui sul a Terra al ’arco di vita medio di un uomo – diciamo, per eccesso, 72 anni –, scopriamo che adesso, agli inizi degli anni Sessanta del xx secolo, abbiamo compiuto 56 anni. La vita sulla Terra ha già consumato 56 anni su un totale di 72 a disposizione. Forse non ancora decrepita e stremata come la immaginava Lucrezio, ma la Terra è già vecchia!

Stiamo per andare in pensione. Ci restano soltanto sedici anni da vivere, cioè, fuor di metafora, un miliardo di anni su 4,5 totali. E a questa veneranda età abbiamo ancora problemi di rifornimento energetico, non abbiamo ancora messo il naso fuori dall’atmosfera, non abbiamo colonizzato nemmeno il nostro satellite né i pianeti più vicini, facciamo esplodere bombe nucleari sempre più potenti e alteriamo il mondo naturale a nostro pieno discapito. Meglio darsi da fare se non vogliamo essere ricordati come arzilli vecchietti un po’ rimbambiti che si sono messi a disfare il pianeta poco prima del gran botto finale.

Quindi, se non ci estingueremo prima da soli, abbiamo ancora un miliardo di anni. La Terra è vecchia. Ora guardiamo la stessa faccenda da un’altra angolazione. Il genetista, tra noi due scriventi, calcola che, dagli inizi dell’evoluzione di Homo sapiens, dovrebbero essere vissuti circa 100 miliardi di esseri umani in carne e ossa. Quindi noi, adesso, nel 1960, siamo i 3 miliardi di umani che vivono l’età della vita sulla Terra corrispondente a 56 anni su 72. Sono esistiti finora soltanto 100 miliardi di storie individuali, di fili tessuti dalle Parche e poi recisi, di sguardi umani aperti sul mondo e poi chiusi per sempre, di esperienze uniche, di pensieri segreti mai condivisi con altri, di sogni e di fugaci sentimenti. Cento miliardi di esseri umani che sono nati, hanno amato, avuto figli, compiuto imprese, e sono morti: è così semplice. Qualcosa è rimasto – le invenzioni di cui non possiamo più fare a meno, le idee importanti, gli scritti più significativi, le gesta e le opere di pochi, le rovine –, ma i contenuti di quelle vite si sono per lo più persi per sempre, come baci nel vento, senza un segno che li ricordi.

Cento miliardi sembra una cifra enorme, ma è pur sempre un numero finito, una quantità trattabile e recintabile, una gran massa di persone assembrate a perdita d’occhio in una prateria. Tutta l’umanità è su quel prato. Tutto ciò che è stato di noi. Potremmo catalogare 100 miliardi di esseri umani anche dentro un grande archivio, un’enorme biblioteca antropologica: 100 miliardi di cartellini divisi per sale, in livelli sempre più profondi, con i dati anagrafici essenziali e qualche storia, schedati a supremo omaggio della coscienza storica. Il bibliotecario di tutti i nomi che ci sono stati, di tutte le esistenze, non potrà che essere la morte.

Se ora volgiamo lo sguardo al futuro, capiremo che non ci saranno infiniti umani, soltanto un altro po’. Qualche milione di generazioni fino al termine del nostro miliardo di anni, non di più. Il loro cicaleccio resterà impresso per qualche tempo ancora nella frenesia universale; una parte di esso viaggerà nello spazio con le onde radio, ma prima o poi tutte le parole svaniranno nel nulla. Non ci saranno infiniti altri fili di Parche, infinite altre esperienze uniche; soltanto un altro po’. Non ci sarà per sempre un’altra storia, dopo l’ultima storia. Del resto, la posterità è una ridicola eternità. I posteri saranno indifferenti a noi, essendo gli umani notoriamente privi di memoria duratura. Se tutte le glorie sono effimere e i cimiteri, prima o poi, sono disertati, le nostre opere migliori, tra qualche millennio, saranno polvere, dimenticate. Forse gli archeologi ci rintracceranno sotto qualche frana, ma se così non fosse apprezzeremo ancora di più la profonda nobiltà di questa indifferenza della posterità. Non c’è una storia infinita da sobbarcarsi. Il futuro è più leggero del previsto e ci lascia liberi.

Galassia di Andromeda

Crollerà, dunque, la macchina del mondo. La Terra è già vecchia. Quanto al resto, grazie alle capacità di previsione della scienza cosmologica, possiamo andare oltre l’orizzonte della nostra particolare finitezza e accorgerci, non senza iniziale sgomento, che anche il mondo, prima o poi, scomparirà. Tutto finisce. La galassia di Andromeda ci sta venendo addosso alla velocità di 110 chilometri al secondo; sarà qui tra 6 miliardi di anni e si fonderà con la Via Lattea. Noi non siederemo in platea per questa danza di stelle, peccato. Intanto l’universo continuerà la sua espansione, distanziando sempre più le galassie: il cosmo, visto da qui, diventerà più buio e più freddo. Non esistendo più, eviteremo l’esperienza di sentirci ancora più soli.

Forse l’universo continuerà la sua corsa espansiva fino alla morte termica, fino al Grande Freddo, al lentissimo esaurimento di tutto il combustibile stellare, tra migliaia di miliardi di anni. Questo sì, un numero quasi inimmaginabile. O forse, in un istante benedetto di sospensione cosmica da lasciare senza fiato, si fermerà e tornerà indietro, collassando di nuovo fino a un punto di inizio infinitesimale. O un punto di fine.

C’è dell’incanto, in questa finitudine di tutte le cose.

Estratto da Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertàdi Telmo Pievani (Raffaello Cortina Editore, 2020). Pievani insegna filosofia della scienza e biologia alla Università di Padova.

ECONOMIA SENTIMENTALE

ECONOMIA SENTIMENTALE

Figlio di imprenditori di Prato del ramo tessile, Edoardo Nesi chiuse nel 2004 la sua carriera in fabbrica per dedicarsi alla scrittura, la sua passione fin da ragazzo, quando leggeva soprattutto libri di fantascienza. Sul braccio ha tatuato il nome del padre, Alvarado, scomparso due anni fa. Iscritto a Giurisprudenza, ha dato solo cinque esami.

Edoardo Nesi è alla scrivania dove ha creato tutti i suoi romanzi. Alle sue spalle, è appesa la testiera di un letto del Seicento spagnolo che lo incornicia fra sontuosi ghirigori di legno. «Mio suocero sosteneva d’averla comprata da un autentico nobiluomo in disgrazia», spiega. «Questa casa era sua. L’acquistò a fine anni 60 per riceverci i clienti. Era ancora giovane, ancora non aveva fatto i soldi, ma già immaginava di vendere bene i suoi tessuti se i clienti l’avessero visto nell’agio. Qui sono venuti tutti gli stilisti più importanti». Nesi si alza, si avvicina alle vetrate: «Da quella parte, c’è la zona industriale di Prato. Lui la indicava e, ingigantendo, diceva: li vedete quei capannoni? È tutta gente che lavora per me». Silenzio. Sospiro. «Erano tempi straordinari». Suo suocero, Sergio Carpini, compare anche in Storia della mia gente col quale Nesi ha vinto lo Strega nel 2011 e che ha scritto dopo aver venduto la sua, di fabbrica, ormai arreso alla concorrenza dei cinesi, e compare nell’ultimo, Economia Sentimentale, edito dalla Nave di Teseo, dove c’è Nesi stesso che passa il lockdown in questa casa, un po’ a struggersi di nostalgia per i tempi che furono, un po’ a telefonare ad amici economisti e finanzieri per capire i tempi che verranno.

Anche suo suocero chiuse travolto dalla globalizzazione?

«Lui, a fine anni 80, quando per la prima volta un cliente gli chiese il prezzo di un tessuto. Ne fu scandalizzato. Per lui, il mondo perdeva uno dei suoi fondamenti: l’idea rinascimentale per cui il signore che commissiona il ritratto all’artista non chiede quanto costa».

Se lei, nel 2004, non avesse chiuso il Lanificio T.O. Nesi & Figli, avrebbe trovato il coraggio di scrivere e basta?

«È una domanda enorme. So che lavorare in azienda mi piaceva».

Da piccolo, voleva diventare imprenditore o scrittore?

«Ero chiuso, timido, permaloso. Stavo sempre in casa a leggere. Divoravo fantascienza: mi affascinava il progresso. Dai 14 ai 18 anni,ho scritto racconti in cui c’era sempre un personaggio tipo me, un po’ triste, solitario, a cui succedevano cose clamorose e importanti. Crescendo, l’idea di entrare in fabbrica, come volevano i miei, non mi attirava, ma loro sapevano che avrebbero vinto: io una vera vocazione non l’avevo. A Giurisprudenza, dove ho dato solo cinque esami, mi sono iscritto incantato da una scena del Verdetto. C’è Paul Newman che sull’arringa finale si blocca, con un foglio fra le mani. Quando finalmente si riprende, dice: nella vita perlopiù ci sentiamo smarriti».

E perché lei sentì suo quello smarrimento?

«Lui sa di aver ragione però sta perdendo, ma io quando lo vidi in quell’aula, in quella penombra tagliata da una lama di luce… Be’, mi rovinò Newman. Era così che mi sono sentito finché non mi sono sposato: sempre male, sempre nell’incomprensione delle cose».

E invece, sposandosi, cos’è cambiato?

«Prima di sposarsi, il ragazzino triste e solitario si era messo a divertirsi… Ero pieno di energie e curiosità e le seguivo tutte, ma non mi divertivo mai davvero, un po’ soffrivo sempre. Mia moglie mi ha fatto capire che il divertimento non mi portava da nessuna parte. Mi ha riportato sulla Terra. E cominciai a scrivere seriamente solo dopo aver sposato Carlotta».

«La mia eterna fidanzata bellissima». La definisce così, in un libro.

«È molto bella, molto intelligente. Le devo tutto. Ci siamo fidanzati che avevo 19 anni, sposati che ne avevo 29. Mi ha visto in tutte le fasi: studente fallito, imprenditore fallito… Ed è sempre stata lì. Mi è sempre stata di aiuto in tutto. Legge i miei libri man mano che scrivo. È una tale lettrice fantastica che il mio editore americano chiede a lei cosa pubblicare».

È vero, per sua moglie lei scrive troppo di miserie e di tragedie?

«Pensa che dovrei scrivere qualcosa di più positivo, ma io non sono tanto positivo. E quando finalmente ho avuto un po’ di successo è stato con libri che raccontano di fallimenti. Miei, soprattutto».

Il ragazzo che fa le summer school in America, il capitano d’azienda in giacca di Versace a New York o a Monaco… Quanto è davvero lei l’Edoardo Nesi di certi suoi libri?

«Sono proprio io, sempre io. Sono quello della giacca che fu il primo regalo da imprenditore che mi fecero i miei. Ci ho provato, ma i romanzi, se io non ci sono, vengono peggio. Storia della mia gente è nato così, parlava solo di economia, ma quando mi ci sono ficcato dentro, ha preso senso».

Prima ha detto che non voleva entrare in fabbrica ma che poi lavorarci le è piaciuto.

«All’inizio, non ci volevo mica stare, non mi piaceva mica, venivo da un’idea sbagliata di lavoro. Avevo avuto un attacco giovanile di comunismo, mi sembrava che vi si sfruttassero gli operai. Solo dopo capii che quello che credevo di sapere era falso. La filiera di produzione di Prato era fatta di piccole aziende e artigiani e tutti guadagnavano e potevano fare la luna di miele in Polinesia, c’era l’idea che il lavoro si poteva condividere e il benessere toccasse un po’ a tutti, se eravamo bravi, se ci impegnavamo. Era un mondo risolto, aveva le sue regole e, se ubbidivi, avresti avuto benessere».

In «Economia Sentimentale», racconta di Muhammad Ali e del giorno in cui stava per finire al tappeto e dice che lei, invece, un giorno, al tappeto ci è andato e ci è rimasto per mesi e mesi. Qual è quel giorno?

«Quello in cui è morto mio padre, due anni fa. Il libro nasce dal tentativo di riprendere una vita normale dopo la botta più forte della mia vita. Lui è stato, insieme a mia moglie, il mio punto di riferimento, il mio idolo. Fino ai miei 18 anni, abbiamo parlato poco: era un padre della sua generazione, stava sempre in fabbrica, l’ho conosciuto solo lavorando con lui. Mi faceva da guida, mi insegnava un mondo complicato. Insomma, volevo scrivere di lui, ma le parole non mi venivano, poi ho capito che il babbo, per me, è sempre stato la decodificazione del mondo attraverso l’economia e ho capito che il libro poteva nascere solo mettendo insieme le due cose».

Davvero ha tatuato Alvarado, il nome di suo papà, sul braccio?

«È stato il primo dei miei 15 tatuaggi. Lui ne fu onorato. Poi, ho tatuato i nomi di mia moglie, dei miei figli, frasi di Francis Scott Fitzgerald, “rage, rage against the dying of the light” di Dylan Thomas: infuriati, infuriati contro la morte. Sul cuore, ho la scritta “per sempre”».

È il titolo di un suo libro. Perché, una volta, ha detto che non doveva pubblicarlo?

«Perché appartiene a un mio momento strano e personale: avevo iniziato ad andare nelle chiese, che ci fossero o no le messe. Mio padre, da liberale ateo, si stava convertendo e ho voluto vedere che c’era dentro questa cosa. Non sono riuscito a capirlo».

Anni fa, ha detto al che, dopo aver chiuso la fabbrica, la depressione non ha smesso di accompagnarla. È ancora così?

«Ora, nel nuovo libro, ho scritto che le cose non vanno via mai, nemmeno quando finiscono, e nemmeno le persone, neanche quando muoiono. Alcuni ricordi sono indelebili. Io, per fortuna, non conosco la depressione maggiore, ma ho passato giorni difficili. Di quelli che ti svegli e vedi il vuoto davanti; poi, la mattina dopo, ti svegli e vedi un altro vuoto. Poi, arriva un giorno luminoso e il sole, quando c’è, mi cambia le giornate in maniera comica».

Si sente in colpa per non essere riuscito a tenere in vita l’azienda?

«Un po’ sì. I miei figli, Ettore e Angelica, 23 e 25 anni, sono bravi, sono andati a Londra, ne ho un orgoglio pazzesco, ma quando li ho visti partire è stata durissima, pensavo che io non avevo una fabbrica in cui farli entrare. Quello che oggi mi manca, e che cerco di raccontare in tutti i modi, è la promessa che il futuro ti porti del bene. Questa promessa devi averla, se no come fai a impegnarti?».

La nostalgia del progresso sembra un ossimoro. Invece?

«È il fulcro di quello che scrivo. Ai miei tempi, c’erano cose straordinarie. C’era il Concorde che andava a New York in tre ore. Mi dirà che altri scrittori si occupano d’altro, ma se non c’è più il progresso, le persone si abbandonano a lavori temporanei dai quali non imparano nulla, tutto s’inaridisce…».

Il critico Camillo Langone ha scritto: «Bisogna tenerselo caro Edoardo Nesi: ma dove lo si trova nelle patrie pauperistiche lettere un altro capace di dire che i soldi danno la felicità?». Si riconosce nella definizione?

«I soldi aiutano molto, specie se sono frutto di lavoro e di capacità. Io ero felice quando vendevo un tessuto a uno stilista importante e quel tessuto andava in tutto il mondo».

Primo libro «Fughe da fermo» pubblicato nel ‘95, poi altri sei e il primo successo nel 2011. In mezzo, ha mai pensato di smettere?

«Ho avuto la fortuna di avere un editore, Elisabetta Sgarbi, che mi ha sempre trattato come autore di successo anche quando non lo ero. E a scuola avevo conosciuto Giovanni Veronesi, il regista, e con lui suo fratello Sandro, che era andato a Roma e provava a scrivere. Sandro è magnetico oggi e lo era ancora di più da ragazzo. Leggeva i miei racconti, m’incoraggiava. Anche avere lui è stata una fortuna».

Ha tradotto «Infinite Jest», mille pagine e oltre. Perché ha definito David Foster Wallace «il suicida che mi ha insegnato a vivere»?

«Perché mi ha insegnato a capire come vive un alcolizzato, un infelice, un depresso e mi ha insegnato la tolleranza verso gli uomini e le donne di questo mondo. È come se mi avesse abbracciato con quel libro, come se ci avesse abbracciato tutti».

Come s’immagina da vecchio?

«Mi sto avviando verso questa cosa e questa, sì, sarà divertente».

Articolo di Candida Morvillo per Il Corriere della Sera

DAVANTI AL PRECIPIZIO

DAVANTI AL PRECIPIZIO

Dal 1980 la retribuzione di un amministratore delegato è cresciuta del 940%, quella di un normale lavoratore del 12%. Il 20% della ricchezza totale è in mano allo 0,1% più ricco, la classe media non esiste praticamente più 

SCRITTO PRIMA DI CAPITOL HILL, MA IN PIENA ERA TRUMP, IL LIBRO DEL POLITICO E SCRITTORE USA (SOTTOSEGRETARIO AL LAVORO SOTTO CLINTON) DESCRIVE IL DECLINO DELLA DEMOCRAZIA IN USA, DENUNCIA IL SISTEMA OLIGARCHICO E LANCIA L’ALLARME: SIAMO SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO.

La democrazia americana e il suo sistema economico non funzionano e devono cambiare. Lo abbiamo capito tutti guardando l’ assalto al Campidoglio dei sostenitori di Trump guidati dallo sciamano Jake Angeli. Nel saggio Il Sistema (in uscita il 21 gennaio da Fazi), Robert Reich – professore di economia a Berkeley e già ministro del Lavoro dell’ amministrazione Clinton – fotografa molto bene il precipizio sul quale si trova una delle più vecchie democrazie del mondo.

Mentre la descrizione della crisi del sistema è una lettura fondamentale e largamente condivisibile, le ricette di Reich per superare lo stallo della società americana non sono ancora del tutto chiare.

Il fenomeno sociale alla base della crisi americana è la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi amministratori delegati (i cosidetti Ceo, Chief Executive Officers in inglese) delle più grandi banche, società tecnologiche e società industriali. L’ esercito di amministratori è la nuova oligarchia americana, il vero nucleo di potere del sistema. Dal 1980, la retribuzione media di un Ceo è cresciuta del 940 per cento, mentre quella del lavoratore medio americano del 12 per cento. Oggi il 20 per cento della ricchezza totale americana è in mano allo 0,1 per cento più ricco – un gruppetto di miliardari che corrisponde a circa 160 mila famiglie americane.

 Secondo Reich la competizione politica in America non è più tra repubblicani e democratici, ma tra democrazia e oligarchia, dove la prima è rappresentata dal 90 per cento della popolazione mentre la seconda dal gruppo di pochissimi (0,1 per cento) potenti Ceo. Il rimanente 9,9 per cento, fatto da persone con una ricchezza netta superiore al milione di dollari, rappresenta invece i «guardiani del potere», un esercito di professionisti, avvocati e manager che ha studiato nelle migliori università e lavora per tutelare gli interessi degli oligarchi. La classe media americana non esiste praticamente più.

Il sistema ha anche un grosso tasso di ipocrisia. Alcuni Ceo si definiscono patrioti più che amministratori. Le grandi banche e le grandi imprese tecnologiche sostengono di occuparsi – attraverso donazioni e programmi speciali – delle comunità locali, delle città in crisi e dell’ ambiente. In realtà la responsabilità sociale d’ impresa è solo un modo per mascherare il vero obiettivo degli oligarchi: aumentare la loro ricchezza e il valore di mercato delle società che gestiscono. Al tempo stesso, durante le elezioni presidenziali, il gruppo di potere finanzia sia democratici sia repubblicani, in modo da garantire una legislazione non ostile ai propri interessi.

Reick con Bill Clinton

La crescita di questo fenomeno ha almeno tre cause di medio-lungo periodo. Primo, l’ indebolimento della legislazione anti-trust a partire dagli anni Ottanta. Nella dottrina anti-trust è prevalsa l’ idea della scuola di Yale, secondo cui la grande dimensione aziendale produce economie di scala e effetti positivi sui consumatori.

Oltre alle banche, sono potute così emergere non solo le famose Big Tech (Amazon, Apple, Microsoft, Alphabet, Facebook), ma anche le grandi società farmaceutiche e di distribuzione di massa stile Walmart. Il secondo fenomeno è il crollo del potere del sindacato, iniziato con lo storico licenziamento dei controllori di volo in sciopero da parte di Reagan. Infine, la de-regolamentazione di Wall Street, culminata nel 1996 con Clinton al potere, quando si permise alle banche d’ affari di poter entrare anche nel mondo della banca al dettaglio, aprendo le porte alla crisi finanziaria del 2008.

Mentre la disuguaglianza cresceva, le famiglie medie americane hanno cercato di difendersi in tre modi. Primo, le donne e le madri sono entrate in modo massiccio nel mercato del lavoro. Secondo, tutti hanno lavorato più ore a settimana. Terzo, si è ricorso in modo eccessivo al debito individuale e famigliare, alimentando la bolla immobiliare e le speculazioni di inizio secolo. Ciò nonostante, la quota di reddito destinata al lavoro nel reddito nazionale è continuamente diminuita, mentre i costi per l’ istruzione universitaria privata sono diventati insostenibili per la maggioranza dei lavoratori dipendenti. I fenomeni sottolineati da Reich sono tutti veri, anche se l’ analisi è troppo sbrigativa nel liquidare due fenomeni che hanno aumentato le disuguaglianze e l’ indebolimento della classe media: l’ ingresso della Cina nel commercio internazionale e un progresso tecnico digitale che ha sfavorito i lavoratori meno qualificati.

Come si inserisce in questi fenomeni il populismo e l’ elezione di Trump nel 2016? Secondo Reich quell’ elezione fu una rivolta della classe media contro l’ establishment americano dei Clinton e dei Bush che aveva governato senza interruzione dalla fine degli anni Ottanta. Il motore del successo di Trump non furono razzismo e xenofobia, ma una reazione di furia e rabbia contro l’ establishment. Paradossalmente, Trump fu il meglio che poteva capitare alla nuova oligarchia. Il suo stile di governo e la sua tendenza ad alimentare divisioni e tribalismi hanno evitato che l’ America si accorgesse dell’ ulteriore crescita della disuguaglianza.

Reick e Donald Trump

Non a caso, secondo l’ autore, la maggior parte degli oligarchi non si è davvero opposta alle provocazioni e al cinismo di Trump.

Secondo Reich si esce da questa situazione in due modi. Da un lato, attraverso l’ unione politica e la mobilitazione pacifica del 90 per cento del popolo americano escluso dai benefici della crescita. In questo senso, l’ autore sogna la nascita di un terzo partito (diverso dai democratici e dai repubblicani) che riuscirà a rispondere davvero agli interessi dell’ americano medio. Da un altro lato, Reich propone ricette economiche tipiche della sinistra americana di Bernie Sanders: estensione universale della copertura medica, un generico green new deal, miglior formazione per i giovani americani e una tassa sulla ricchezza. Queste proposte sono anche condivisibili, ma per ora solo abbozzate.

Quella delle proposte è forse la parte più debole del saggio.

Ciò che comunque emerge dal saggio – scritto prima dell’ elezione di Biden – è la grande fiducia per la democrazia americana e per la sua capacità di risollevarsi dai grandi traumi della sua storia. L’ amore e il fascino per la società americana mi hanno sempre coinvolto, e ho seguito con grande angoscia la «notte della repubblica» Usa dello scorso 6 gennaio. Come ci hanno insegnato le immagini dei film hollywoodiani della nostra infanzia, «dopotutto, domani è un altro giorno». Speriamo sia davvero così anche per la società americana.

Pietro Garibaldi per la Stampa

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