TOTO E LA SERENISSIMA

TOTO E LA SERENISSIMA

«Vivo in una casa con tutta la gloria della Serenissima» Bergamo Rossi e il Palazzo Gradenigo: arredi, affreschi e gli stemmi lignei a poppa delle navi

Abitare Venezia non è come abitare altrove nel mondo. Le sue pietre, cariche di mille anni di storia e di gloria, sono vanitose, orgogliose, egocentriche. E se ci vivi dentro ti impongono, inevitabile, di fare un passo indietro. Perché le protagoniste sono loro. Toto Bergamo Rossi lo sa e si è adattato.

Restauratore, cultore di bellezza, direttore dal 2010 di Venetian Heritage, organizzazione internazionale non profit per la tutela del patrimonio artistico della Serenissima e di quei territori che un tempo ne facevano parte, occupa un’ala del primo piano nobile di Palazzo Gradenigo. Imponente dimora del XVII secolo, di Baldassarre Longhena, autore di quell’immensa gioia del barocco lagunare che è la Basilica della Salute sul Canal Grande.

«Quando sono arrivato qui, nel 1999, ho restituito a questa casa memoria e dignità, liberandola nel giro di due anni di tutti quegli interventi che ne avevano mortificato lo spirito. Sotto intonaci scrostati e soffitti abbassati sono emersi gli stucchi originari (nell’ingresso ricordano i rilievi dei cuoi di Cordova, di gran moda nella Venezia del XVII secolo) e chilometri di affreschi. Dopo, non c’è stato più posto per altro».

Nei trecento metri quadrati affacciati sul breve Rio Marin, scavato a mano nel corso dell’XI secolo, Toto ha lasciato la scena al prodigio degli arredi fissi: le porte in noce del XVIII secolo, le pareti a marmorino, i pavimenti in terrazzo alla veneziana, la grande specchiera incassata sopra il camino neoclassico, i rilievi ornamentali con colori a fresco tipici del gusto d’inizio Settecento, i soffitti dalle decorazioni pittoriche di scuola di Giambattista Tiepolo. In questa fuga di stanze dove vive «senza televisione», ha messo in valore quanto ha trovato — compresi i grandi stemmi lignei con le insegne delle famiglie aristocratiche, un tempo posizionati a poppa delle galere, aggiungendo, in fondo, ben poco. Una manciata di arredi stile Luigi XVI, qualche gesso canoviano, incisioni di Giovanni Battista Piranesi, antiche lanterne e poi migliaia di libri, sua magnifica ossessione. Ha poi calato tutto in una luminosità soffusa («la luce ha valore simbolicoemozionale, non solo funzionale»), per riconsegnare agli ambienti il magico chiarore del passato, creato da migliaia di candele.

È qui che Toto Bergamo Rossi ama ricevere gli ospiti di Venetian Heritage, soprattutto gli stranieri, per immergerli nell’atmosfera di una residenza storica e mostrare che «Venezia non è un albergo diffuso, un parco giochi male organizzato e gestito ancora peggio».

Panoramica Uno degli ampi saloni con affreschi d’inizio 800 che caratterizzano il piano nobile di Palazzo Gradenigo, dimora di Toto Bergamo Rossi

Ho ridato a questa dimora barocca memoria e dignità, liberandola dagli interventi che ne avevano mortificato lo spirito

Nel libro d’oro della maison, tra le tante, le firme di Claudio Abbado, Mick Jagger, Bono, Barbra Streisand, Tilda Swinton, Jeff Bezos, Anish Kapoor, James Ivory. Proprio qui, il regista statunitense, 92 anni, autore di Camera con vista e Quel che resta del giorno, ha confessato all’amico l’ultimo sogno: un film dal celebre racconto di Henry James Il carteggio Aspern.

«È rimasto senza parole quando gli ho detto che fu scritto qui accanto, a Palazzo Soranzo Cappello, poco tempo prima che Gabriele d’Annunzio ambientasse parti del suo romanzo Il fuoco proprio nel giardino Gradenigo, fino al 1922 il più vasto della città, dove per il Carnevale del 1768 vennero addirittura organizzate delle cacce ai tori».

Palazzo Gradenigo, ingresso con vera da pozzo

Quello che resta oggi è meno di un quarto della sua estensione originaria. Toto Bergamo Rossi ha restaurato, con appassionata diligenza, anche questo scampolo di verde; vi ha messo a dimora pergole di glicine bianco, viti e rose rampicanti, una Sophora japonica degli anni Venti e quelle piante aromatiche, tipiche del giardino lagunare, che crescevano anche negli orti dei dogi.

Articolo di Beba Marsano, Corriere della sera

CHET

CHET

Memoria di una musica incantevole, ai confini del soave delirio. Chet Baker, il grande trombettista jazz, inizio’ a suonare per gioco e noia, non seguiva mai le partiture e andava ad orecchio. Forse per questo non considerò la carriera di musicista un lavoro. La droga, il carcere in Italia, poi la discesa e la lenta risalita grazie agli amici e ammiratori. Fino a quando il suo corpo fu trovato su un marciapiede di Amsterdam, dopo un volo dal terzo piano di un albergo. Non si è mai capito se si sia trattato di suicidio, di un incidente o di omicidio. Aveva 59 anni.

Chet Baker, Jr. è nato nel 1929 ed è morto ad Amsterdam il 13 maggio 1988.

Giorni fa ho pubblicato su Twitter una foto di Chet Baker. Un ritratto leggermente sfocato nel quale appare di profilo, accucciato su una seggiola pieghevole e intento a fare ciò che ha sempre fatto nella vita: suonare la tromba. Indossa dei pantaloni rosso mattone, una maglietta slavata e sandali grigi, di quelli che il nostro immaginario associa ai turisti tedeschi, e sembra concentrato in un’azione che esclude il mondo circostante. La sedia è piantata in mezzo all’erba, il set è dunque un giardino, ma Baker potrebbe trovarsi in ogni luogo e dunque in nessun luogo come accade solo a chi produce arte. E’ una bella foto ma aggiunge poco alla sterminata collezione di immagini, quasi tutte bellissime, che lo ritraggono. Non ha niente di speciale tranne il fatto che quel luogo, che per lui non esiste, è il giardino di casa mia. Il prato che durante tutte le estati della mia infanzia e adolescenza, ho calpestato. La casa che ancora oggi, nei miei sogni, ritorna come fosse l’unica, la sola che io abbia abitato. Fu progettata negli anni Sessanta dai miei genitori, che scelsero Sabaudia come meta di villeggiatura, preferendo il lago al mare. La villa infatti lambisce le acque salmastre del lago di Paola e possiede l’invidiabile prerogativa di offrire una visuale che non contempla altre costruzioni. Adestra e a sinistra, per chilometri, gli occhi scorgono solo acqua, alberi e canneti. Di fronte, imponente, si staglia l’assurdo profilo del monte Circeo, disteso nel suo sonno millenario. Da ragazzini, con i miei fratelli, avevamo stabilito una sorta di dialogo con la mitica montagna, ci divertivamo a urlare a squarciagola dei saluti, in attesa che l’eco ce li restituisse: “Ciao!” gridavamo con le mani a coppa davanti alla bocca, e in silenzio attendevamo la risposta, puntuale, dopo i fatidici tre secondi: “Ciaooooo”.

Nel giro di pochissimo tempo, la foto di Baker ha scatenato un’infinità di reazioni e commenti come nessuna di quelle pubblicate sul mio profilo: “Mito”, “Invidia pura”, “Emozioni forti”, “La cosa più bella vista oggi su Twitter”. Sono sicura che a Chet Baker avrebbe fatto piacere questo entusiasmo a tanti anni di distanza dalla sua morte. L’avesse saputo in quel periodo, il 1986, l’anno in cui la foto fu scattata, forse ne avrebbe ricavato un po’ di sollievo. La sua vita stava andando alla deriva, l’epilogo era a un passo. O forse non gliene sarebbe importato niente: “Le sole cose che so e che voglio solo suonare e cantare”. Di priorità ne ha una terza, altrettanto imprescindibile: l’eroina. Ineluttabile rifugio dei grandi del jazz.

Insieme a Charlie Parker, Chet Baker cominciò a suonare e a drogarsi. Era poco più che ventenne quando si presentò alle audizioni indette da Parker per scritturare un trombettista degno della sua band (quel giorno si palesarono una quarantina di trombettisti che avrebbero dovuto suonare tre pezzi insieme al grande sassofonista. Quando arrivò il turno di Baker, dopo l’esecuzione di soli due brani, Parker prese il microfono e sentenziò: “Le audizioni sono terminate, grazie a tutti”). Baker e Parker partirono per una lunga tournée nella West Coast e quando quest’ultimo tornò a New York disse agli amici Miles Davis e Dizzy Gillespie. “Ho trovato un ragazzino bianco che vi mangerà vivi.” Si inaugura una stagione memorabile per il ragazzino bianco che aveva cominciato a suonare la tromba per gioco e per noia. Gliel’aveva regalata suo padre, un ripiego dopo un primo tentativo con un trombone, abbandonato perché troppo grande per lui. Ed è chiaro da subito che quello strumento, così difficile da maneggiare, non è altro che un’estensione delle sue braccia, qualcosa che gli apparteneva ancor prima di essere conosciuta. Il talento, l’immane fortuna di ricevere un dono gratuito e imprevedibile, come la bellezza. Tutti i musicisti che nell’arco di un trentennio hanno lavorato con Chet Baker ricordano che non seguiva mai le partiture, conosceva i brani a memoria e suonava “a orecchio”. Forse per questo non ha mai considerato la sua professione un lavoro. Dopo l’esordio con Charlie Parker, Baker si unisce al quartetto di Gerry Mulligan e insieme a lui continua il suo percorso nella musica e nell’eroina. Ascesa e precipizio. Un binomio ormai scontato (sarebbe interessante approfondire seriamente la questione droga/musica, per capire, al di là di tutti i plausibili luoghi comuni, le ragioni profonde che legano l’autodistruzione al polo opposto della creazione artistica. Forse i codici misteriosi del genio non possono essere decifrati diversamente. E siamo onesti, togliamo quel forse).

Gli anni Cinquanta sono i più fortunati anche perché Chet, oltre al talento, ha la “faccia” giusta per la sua epoca. Sembra un adolescente angelico e perverso, combacia con il cliché “Gioventù bruciata” impersonato al cinema da James Dean, e infatti i due si somigliano, anche caratterialmente: taciturni, tenebrosi, attratti dalla velocità. Entrambi hanno la passione delle automobili (alla domanda: “qual è stato il tuo giorno più felice?” Chet risponde: “quando mi sono comprato un’Alfa Romeo SS”). Proprio su quel viso così bello, terribilmente fotogenico, verrà raffigurata la crudeltà dell’eroina. Nel giro di pochi anni la droga gli scava le guance, la pelle come creta crepata dalla siccità, i denti marciti (dell’eroina, ai tempi in cui anch’io ero una ragazza a rischio, mi faceva paura lo scempio inevitabile della bellezza. Temevo più le conseguenze estetiche di quelle neurologiche, e forse è stata la vanità a salvarmi…). Gli arresti si susseguono e così pure le espulsioni da alcuni paesi nei quali si esibisce. Nel 1960 Chet Baker sbarca in Italia, non è la prima volta, ci è già stato in tournée, insieme a diversi musicisti italiani (fra i tanti mi piace ricordare Luca Flores, il pianista morto suicida a cui Kim Rossi Stuart prestò il volto in un film di qualche anno fa, tratto dal libro di Walter Veltroni). E’ un paese che ama, ci torna volentieri. Stavolta lo aspettano a Viareggio per un concerto. Alloggia insieme alla moglie in un albergo a Lucca e decide di raggiungere la Versilia in macchina. Sulla provinciale, si ferma a un distributore, chiede al benzinaio di fare il pieno e va in bagno. Lo ritroveranno un paio d’ore dopo, steso a terra, una siringa accanto. Il concerto salta, e così tutta la tournée. La permanenza in Italia sarà molto più lunga e meno gioiosa del previsto. Gli inquirenti lo accusano di detenzione di sostanze stupefacenti e truffa ai danni dello Stato per falsificazione di ricette mediche (il farmaco incriminato si chiama Palfium, illegale in Italia). La condanna è pesante: sedici mesi di carcere, a Lucca. Durante la prigionia impara l’italiano e, giocoforza, si disintossica. Ottiene il permesso di suonare la tromba per cinque minuti, due volte al giorno. Lo fa sdraiato in branda. Le note scivolano dalle celle ai corridoi, attraversano i cancelli scavalcando le mura della città toscana dove accade spesso che un gruppo di musicisti lì sotto si ritrovi, e improvvisi una jam session in suo onore.

Tornato negli Stati Uniti, nel 1966 è costretto a fermarsi di nuovo. Stavolta non sono le forze dell’ordine a intervenire, ma cinque uomini che lo aspettano al ritorno di un concerto per dargli una lezione. Non si è mai saputo il motivo dell’aggressione ma è facilmente intuibile. Viene picchiato brutalmente, lo lasciano a terra dopo avergli spaccato una bottiglia in faccia. Perde i denti davanti, fatto drammatico per chiunque ma fatale per un trombettista che con le labbra e i denti ci lavora. Sembra davvero la fine. Baker si ritira, va a vivere con la madre. Per pagarsi l’eroina trova impiego in una pompa di benzina. Di lui si perdono le tracce fino al giorno in cui Dizzy Gillespie, sì proprio lui, si ferma con la macchina in quella stazione di servizio (nel copione di un film una scena così risulterebbe improbabile e forzata, ma sappiamo come la realtà superi l’immaginazione), e lo salva. Gli dà i soldi per sistemarsi i denti e lo incoraggia a riprendere in mano la tromba. Baker si esercita a suonare con la protesi dentaria, ma la mancanza di sensibilità compromette il suo stile che riuscirà a ritrovare dopo lunghi sacrifici. Chet is back.

Negli anni Settanta ricomincia a viaggiare, va spesso in Europa, soprattutto in Italia dove può contare su un gruppo di amici musicisti. E’ un decennio rivoluzionario per la musica, e per quanto cool possa essere, il jazz è un genere sempre più defilato. Ma Chet continua a suonare, non sa fare altro. E continua a drogarsi.

Gli piace andare in Olanda perché lì può procurarsi facilmente l’eroina, e in Italia per il calore umano che il nostro paese gli ha sempre dimostrato. Ed ecco che ci avviciniamo a Sabaudia, dove ha avuto inizio questo racconto.

Mauro Zazzarini, sassofonista pontino, organizza da anni un rinomato festival di jazz nel parco comunale di Sabaudia. Mia sorella maggiore, Alessandra, e suo marito Franco, sono grandi appassionati di musica e spesso, nel giardino di quella che ormai è diventata la loro casa, si improvvisano jam session estemporanee. E’ il luogo ideale per suonare, un’oasi lontana dal frastuono dei vacanzieri del lungomare. Il 27 luglio del 1986 è previsto un concerto del Chet Baker Quartet. Insieme al trombettista si esibiranno Leo Mitchell alla batteria, Nicola Stilo al pianoforte e flauto e Lillo Quaratino al contrabbasso. Le prove si svolgono nel giardino della casa sul lago, dove Chet Baker rimarrà ospite per qualche giorno. Non si tratta di un ospite qualsiasi e non soltanto per il nome che porta. L’eroina lo ha devastato, le rughe sembrano incise da un coltello, ha 57 anni ma ne dimostra venti di più anche se il suo viso continua a essere magnifico, così segnato da una dolenza struggente e potentissima. Ricorda Pier Paolo Pasolini anche se nei momenti più luciferini emerge una spaventosa somiglianza con Charles Manson, ma solo nei lineamenti perché Chet Baker è e rimarrà fino alla fine una creatura gentilissima e lievissima, come la sua voce. Roba da far tremare i polsi, ma mia sorella ha un glorioso passato da sessantottina e sa cosa significa avere a che fare con un tossicodipendente. Dopo il concerto si ritroveranno tutti nella villa, per continuare a suonare, ma anche per festeggiare una bambina, mia nipote Eleonora, che quella notte compie sette anni e che probabilmente non capisce la fortuna di essere svegliata dal più grande trombettista vivente che le canta Happy birthday…

Baker a Copenhagen 1978

Chet Baker dormirà nel letto di mia madre, in vacanza altrove, unica stanza disponibile di una casa sempre piena di gente (l’idea che abbia pernottato in camera di mia madre è per me un dettaglio surreale…). Il giorno dopo Alessandra si offre di accompagnarlo alla spiaggia, vuole fargli vedere le dune di Sabaudia e regalargli uno svago, il mare sa essere sempre un avvenimento straordinario. Salgono sulla Mehari, Chet si mette dietro e osserva il panorama. Arrivati sul ponte che conduce al lungomare Alessandra sente un rantolo alle sue spalle, guarda nello specchietto retrovisore e vede il volto di Chet, grondante di sudore, riverso sullo schienale. E’ in piena crisi di astinenza. Lei fa dietrofront, lo lascia a casa e riparte subito dopo per cercare aiuto da un suo amico medico e farsi prescrivere del metadone, in quei casi le soluzioni sono due: eroina o metadone. Ma il medico rifiuta e qualcuno le offre di procurarsi l’altra opzione.

Al mare Chet non ci andò mai, preferiva stare sul lago. A volte prendeva la barchetta attraccata al molo, si allontanava remando, e si metteva a suonare, solo, sull’acqua. Allo scadere del quarto giorno, andò da mia sorella e disse che sarebbe stato meglio per tutti se se ne fosse andato: “Tu hai un bella famiglia, dei bambini, non è sano che io resti qui”. Lei non lo vide mai più. Due anni più tardi il corpo di Chet Baker fu trovato su un marciapiede di Amsterdam, dopo un volo dal terzo piano di un albergo. Non si è mai capito se si sia trattato di suicidio, di un incidente o di omicidio. Aveva 59 anni.

La storia finisce qui, e adesso chiedo a voi che avete letto di ascoltare a occhi chiusi Whilemylady sleeps di Chet Baker.

Francesca d’Aloia il Foglio quotidiano

Cocciante: no al successo, sì all’amore

Cocciante: no al successo, sì all’amore

Riccardo Cocciante è a Dublino, dove vive da tempo, e anche nella capitale irlandese è circondato dalla musica: «Ascolto quello che c’è nell’aria, mi nutro di quello che che arriva, è una passione alla quale non posso rinunciare». Così come non può separarsi da Notre Dame de Paris, il cui nuovo tour italiano è stato, causa pandemia, rinviato all’autunno per proseguire nel 2022. Tour con il quale Cocciante festeggia il ventennale dell’opera: la prima rappresentazione in Italia fu nel marzo del 2002, vent’anni in cui il lavoro del maestro (e di Luc Plamondon nella versione originale francese, e di Pasquale Panella in quella italiana per i testi) ha conquistato milioni di spettatori e il successo nel mondo. Merito delle musiche di Cocciante che animano l’immortale storia scritta da Victor Hugo. «Non scrivo mai pensando al successo», ci dice Cocciante, «scrivo solo ciò che amo e che sento.

Quando io e gli autori abbiamo scritto Notre Dame non ci aspettavamo il grande successo che ha avuto, e neanche che restasse nel tempo. Certo, ho fatto di tutto perché accadesse…». In che modo? «A partire dagli arrangiamenti, che sono senza tempo, mescolano passato e presente. È così anche per i testi, c’è il Medioevo ma si trovano allusioni a tutto. Questa atemporalità è forse una delle prerogative dell’opera. Notre Dame è nata per amore, per un bisogno di scrivere, questo fa sì che sembri scritta ieri. L’altro elemento è la linearità: tutti i cantanti che he hanno partecipato, li ho sempre fatti cantare in maniera lineare, senza variazioni che possano fare parte del nostro momento. Le vieto, voglio che resti lineare nella sua esposizione perché questo aiuta a lasciare tutto in un tempo immaginario». Era “fuori tempo”, anche quando è stata scritta. Nel senso che spettacoli del genere non se ne facevano. «Io ho sempre seguito una linea: essere me stesso, a parte dagli altri cantautori, spesso “fuori moda”, e sono ancora così. Quando mi sono messo a scrivere Notre Dame sono stato guidato dallo stesso pensiero e tutti mi dicevano che assomigliava troppo a me. Ma sono io, non posso mentire. Dentro c’era la mia storia, le cose con cui sono cresciuto, la classica e l’opera che ascoltavo in casa, il rock a cui mi sono avvicinato da adolescente, Otis Redding e la canzone pop. È vero, l’ho scritta a mia immagine. Era una cosa inaspettata all’epoca e nessuno voleva ascoltarla o produrla. Una delle prerogative delle idee di successo è proprio fare qualcosa che stupisce, fuori dai canoni. Ha colpito tutti per le melodie e i testi, perché somigliava a un’opera rock ma non lo era, aveva elementi del musical, richiamava l’opera senza essere operistica». Ed è arrivata al momento giusto… «È la mano del destino. Lo noto dal fatto che le arie di Notre Dame sono tante, ci sono opere che hanno arie meravigliose ma non tante che la gente ricorda, arie da contorno, da esposizione. Notre Dame ha tante arie con una loro forza. Molte sono nate prima ma le avevo accantonate, quando è arrivato il momento tutto è andato al posto giusto. C’è un po’ di fortuna, ma la gran parte è frutto del lavoro. Tutto quello che fai nella vita ti serve, il successo di Notre Dame è arrivato dopo anni di canzoni, musica, perfezionamento». Importante è stata la sintonia con le parole di Plamondon e Panella. «Le loro parole sono state fondamentali. Quando ero più giovane, appena arrivato da Saigon a Roma, davanti alla tv ho imparato le prime parole in italiano. Guardavo i festival e i programmi musicali, con Sanremo ho iniziato ad apprezzare i testi delle canzoni. Quella tra parole e musica è un’alchimia che mi ha sempre affascinato, con gli autori c’è stato uno scambio fantastico». La pandemia ha bloccato i suoi progetti. Cosa bolle in pentola? «Tante cose, scrivo sempre: opere, canzoni… Alcuni progetti come la Turandot in Cina si sono fermati, altri vanno avanti. Devo registrare il nuovo disco, prima c’è il compleanno di Notre Dame poi i miei cinquant’anni di carriera. Ci saranno molte occasioni per fare grande festa e grande musica». Lo spettacolo dei record compie vent’anni, si festeggia con un tour in autunno Cocciante “Il mio Notre Dame che nessuno voleva”

L’intervista è di Ernesto Assante per La Repubblica

MINA: l’EMOZIONE NON C’E’

MINA: l’EMOZIONE NON C’E’

Fra Cassiopea e Orione (i titoli degli ultimi album) ritroviamo la sua voce inconfondibile, la tecnica raffinata, ammirati per tanta longevità canora. Ma, sotto tanto talento, non si sente la passione, e anche le melodie più suggestive ed emozionanti scivolano via, come l’acqua su una pietra.

Mina è un monumento alla voce, un monumento che non ha corpo. Desaparecida senza pentimenti da decenni, offre il suo dono naturale nascondendosi dietro le tende. Ha cantato di tutto e con tanti. Negli anni ha consumato buona parte di quel canzoniere italiano che ora ha pensato di catalogare in un Italian songbook che ripesca il già fatto, rilucidato per l’occasione, con qualche piccola aggiunta, tanto per non far dimenticare che è ancora on the road, sia pure su una strada invisibile.

Il progetto ha visto per ora l’uscita dei primi due album, Cassiopea e Orione, una confezione prenatalizia che andrà avanti nei tempi. Insomma, il monumento ha deciso di fare un altro monumento, un «vuolsi così colà dove si puote e più non dimandare». Nel senso che Mina scolpisce le canzoni con la sua scelta, pesca fior da fiore, setaccia il repertorio recitandolo in scioltezza, modellando al suo talento note, parole, autori. Forte di una certezza: i monumenti non si discutono.

Però i monumenti neanche cantano e Mina lo fa, lo ha fatto tutta la vita. Si dice che abbia messo insieme qualcosa come 1500 titoli, un’opera monumentale (appunto), segnata da uno strumento superbo, cristallino, dal timbro caldo, immediatamente riconoscibile, dotato di estrema duttilità, sostenuta da una tecnica raffinata. Un canto non provinciale, influenzato dal graffio delle grandi voci nere (l’esuberanza di una Sarah Vaughan) eppure profondamente italiano.

Mina in sessant’anni abbondanti di carriera, due terzi dei quali in clandestinità, è andata avanti come un rullo compressore, macinando stili e climi, consenso, assoluta stima. E ora riascoltandola, visto che la signora ha ormai 80 anni ed è lecito dare uno sguardo alla sua storia, viene spontaneo fare anche un bilancio. Un bilancio, per non peccare di piaggeria e basta, che lascia insieme un gusto misto fatto di ammirazione e perplessità. Si può parlare del repertorio, non sempre scelto con rigore.

E poi si può discutere dell’uso del virtuosismo a volte eccessivo, ridondante: le avrebbe fatto bene ascoltare dosi massicce di Billie Holiday, voce limitata, sentimento sconfinato. Ecco poi il disappunto maggiore, ascoltandola: si avverte quando Mina canta con sufficienza, si abbandona al suo talento, non pensa, recita il rosario con naturale disposizione, non scava a fondo, non pesa le parole. Vale, ad esempio, questa antologia appena pubblicata. C’è «Una lunga storia d’amore», splendida melodia di Gino Paoli. Una versione che scivola via, come l’acqua sulla pietra. Basta fare il paragone con quella dell’autore per accorgersi di cosa voglia dire cantare una canzone con senso della profondità: Gino non può competere con lei sul piano vocale, ma su quello dell’intensità, dell’espressione come si dice, non c’è gara.

Il paragone vale anche con un altro classico come Almeno tu nell’universo, la interpretazione che offre Mina e quella di Mia Martini appartengono a due mondi diversi: c’è un universo levigato da una parte e, dall’altra, un universo che grida dolore. Terzo esempio, Caruso: ascoltare questa edizione e poi quella di Lucio Dalla spiega pienamente il problema.

Lo si avverte pure in Va bene, va bene di Vasco Rossi, un pezzo che non richiede virtuosismi, ma solo intensità e Vasco, attore fantastico, ha pochi rivali nella recita, la sfacciataggine sbarazzina di quando dice «va bene, va bene, va bene» non può scorrere via come un bicchiere d’acqua neppure frizzante. Dietro quel va bene c’è una filosofia di vita, un senso perfino drammatico e impertinente dell’esistenza.

Quanto agli inediti, Un tempo piccolo, che porta la firma anche di Franco Califano, già lanciata dai Tiromancino, francamente non merita il posto in una selezione intitolata Italian songbook. Decisamente meglio Nel cielo dei bars, ballad classica all’americana, che il povero Fred Buscaglione aveva cantato poco prima di morire nel film Noi duri: è un buon recupero, centellinato con misura e partecipazione (questa sì), musicalmente curatissimo.

Tutto sommato, allora, andando indietro nel tempo lungo la carriera di Mina, finisce per essere rivalutata l’allegra impertinenza di quando l’ex Tigre di Cremona si faceva donare una tigre a pois dal suo amico marajà, o la sensualità che riusciva a trasmettere cantando Il cielo in una stanza, che non è la descrizione di un arredamento, ma di un orgasmo, un erotismo assente in questa versione, pure elegante, ricantata nell’88 e che sembra voler dare ragione a chi sostiene che Lucio Battisti criticava Mina dicendo «l’emozione non c’è». E Battisti di emozioni se ne intendeva: «Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi/ Ritrovarsi a volare/ E sdraiarsi felice sopra l’erba ad ascoltare/ Un sottile dispiacere».

Articolo di Marco Molendini per www.dagospia.com

-43°

-43°

L’esploratore Roberto Peroni vive da 40 anni fra gli ìnuit in Groenlandia «Il vento a 140 chilometri orari è come il cavallo che freme per partire» Un po’ filosofo, un po’ avventuriero, fra sciamani, l’incontro con gli inuit, la sua vita contro quella di un cane. Quando si smette di cercare è perché si è trovato? Il Covid, la malattia dell’uomo bianco, è sconosciuta fra quelle nevi, dove non c’è solitudine perché si parla con il vento. La colletta di Gianna Nannini e la generosità degli italiani. 

All’improvviso, più gelida del vento che soffia a 140 chilometri orari sulla Casa Rossa, ti piomba in faccia, come una sferzata, la confessione inaspettata: «Ho un guaio al sangue, diagnosticato ormai da tre lustri. Mi preparo al peggio. Nessun problema. Rido fino all’ultimo. La vita è troppo bella. Favolosa con la neve, che qui supera i 25 metri. Fantastica con il sole». Robert Peroni, da 40 anni eremita in Groenlandia, oggi ha potuto vederlo dalle 10 alle 15, ma a Natale la notte è scesa su Tasiilaq dopo appena quattro ore. Aveva 8 anni quando cominciò a scalare le montagne attorno a Renon, dov’è nato. «Mi legai con una corda a Günther, il mio fratello maggiore. Se fosse caduto, mi sarei sfracellato con lui». Sotto il letto nascondeva una valigetta sempre pronta per la fuga. Giunto sulla soglia dei 77, fatica a ricordare le infinite destinazioni del suo pellegrinaggio solitario in cerca di un altrove: le vette alpine, il Sahara, i deserti del Dasht-e Naomid in Afghanistan e del Dasht-e Kavir in Iran. In quello del Rub Al Khali, in Arabia Saudita, fu l’unica volta che percepì uno stipendio: «Due mesi. Ero laggiù per un’azienda. Per il resto, mai avuto datori di lavoro».

Peroni ha frequentato per nove anni Medicina e Psicologia nelle università di Innsbruck, Verona e Padova, senza mai laurearsi. «Non m’interessava. Studiavo solo per imparare che cosa succede nel corpo umano. Sono stato anche guida alpina e maestro di sci senza brevetti. E ho approfondito la filosofia e l’antropologia: sono le forme della mia vita». Poi, nel 1980, l’incontro con gli ìnuit: ha smesso di cercare. Forse perché la traduzione dall’idioma locale è «gli uomini». Sulla rastrelliera alle sue spalle tiene allineati 15 fucili. «Servono per sparare in alto e spaventare gli orsi bianchi. Non pratico la caccia. Anche se un animale 15 anni fa venne sacrificato al posto mio».

Non capisco, si spieghi meglio.

«Era il cane guida dei miei 11 groenlandesi da slitta, razza incredibile, dotata di un sesto senso. Io, ricoverato all’ospedale di Bolzano, stavo per morire. Miki prese a latrare in un modo mai udito prima. Gli ìnuit parlarono con lui. E conclusero che la sua vita equivaleva alla mia vita. Lo uccisero. Guarii in quel preciso istante».

Gli ìnuit la salutano con il naso?

«Sì. Lo strofinano contro il mio e inspirano forte per capire come sto».

Con il Covid-19 in giro mi pare folle.

«In Groenlandia il virus non è mai arrivato. Dal 12 marzo 2020 viviamo separati dal resto del mondo».

«Resto qui perché quando in mezzo alla neve incontro un amico, lui ti guarda, poi in silenzio si avvicina, strofina il naso contro il tuo, inspira il tuo respiro, e ti capisce, sa se stai bene, e se sei felice gioisce per te. Roberto Peroni, tratto da Wikipedia»

Come si spiega la pandemia?

«Gli ìnuit la chiamano “la malattia dell’uomo bianco”. I marinai sbarcati un secolo fa tossivano. Dieci indigeni morirono subito. Oggi a Nuuk atterra un solo volo a settimana da Copenaghen con posta e farmaci. Alla Casa Rossa arriva sì e no un turista locale al mese».

E lei di che campa?

«Tutto ciò che avevo l’ho investito qui. Da ottobre ricevo un aiuto governativo per le spese fisse, che sono ingentissime: 1.500 euro al mese di riscaldamento. Alcuni amici, fra cui Gianna Nannini, hanno lanciato una colletta attraverso Facebook. Sono rimasto sbalordito: in tre ore sono pervenute 400 donazioni da sconosciuti, magari di soli 5 euro. Il cuore degli italiani è proprio immenso».

Un ostello in un oceano di neve grande sette volte l’Italia. Non fu un azzardo?

«Sì, lo fu. Me lo chiesero gli ìnuit. Fino al 1981 non esisteva il turismo, per sbarcare in Groenlandia serviva un permesso. Insistettero perché comprassi una baracca di 4 metri per 6 su questa collina. Ne ho aggiunte altre cinque, sino ad avere 55 letti. Non me ne pento: dalle finestre vedo 12 ghiacciai».

La Casa Rossa chiusa da un anno: il cuore degli italiani la salverà Il riscaldamento globale? Qui le estati sono sempre più fredde.

Ha scelto l’isola più vasta del globo.

«Io non volevo venirci. Ci arrivai d’estate come guida di un gruppo internazionale e mi fermai per un mese. Credevo che fosse piatta. Invece ci trovai monti Bianchi, Rosa e Cervini a bizzeffe».

Faceva prima a stabilirsi al Polo Nord.

«In effetti dista 2.700 chilometri, contro i quasi 4.000 che mi separano da Bolzano. Ci andai 20 anni fa con una spedizione di cui faceva parte Mike Bongiorno. C’era anche Aimone d’Aosta. Dovevamo commemorare l’impresa del Duca degli Abruzzi, ma più che altro consentire a monsignor Liberio Andreatta di piantare una croce benedetta da Giovanni Paolo II e celebrare messa nel giorno di Pasqua».

Quanti gradi ha in casa?

«Credo 18. Oggi fuori fa caldo».

Cioè qual è la temperatura esterna?

«Nove sottozero. Di solito è meno 18. Nelle traversate anche meno 43. I venti catabatici arrivano a 250 chilometri orari di velocità. Negli anni Sessanta spazzarono via mezza Tasiilaq. La notte scorsa soffiavano a 100, sono caduti altri 2 metri di neve. Sembrava il paradiso».

Vive con qualcuno nella Casa Rossa?

«Mi sono separato dopo 17 anni di matrimonio. Mia moglie è venuta spesso a trovarmi. Così pure nostra figlia, 50 anni, sposata e madre, che vive a Mantova».

Non ha una compagna locale?

«No, ne ho una in Germania e una in Italia, ma non le vedo mai».

Altri dettagli sul suo stile di vita?

«Che vuole sapere? Mi alzo alle 6 d’inverno e alle 5 d’estate, che in Groenlandia comincia a fine aprile, perché non abbiamo la primavera. Lavoro fino alle 23. Non sono diventato ricco, quindi non posso spendere 70.000 euro di parrucchiere, come Donald Trump. I capelli me li taglio da solo con le forbici».

Oggi che ha mangiato per colazione?

«Una fetta di pane. Me lo faccio in casa e mi dura una settimana».

Pane e basta?

«Cosparso di burro e miele. E un caffè Pellini N. 9. Mi arriva dall’Italia, lo offro a tutti, ma gli ìnuit non lo apprezzano».

Si rifarà a pranzo, voglio sperare.

«Mangio solo una volta al giorno, fra le 17 e le 18. Riso o pasta. Nient’altro».

Si concederà un bicchiere di Lagrein.

«No. Voglio far vedere che non bevo. L’etilismo è una piaga fra gli ìnuit. Sono di stirpe mongola, nel fegato non hanno l’enzima che neutralizza l’alcol. Bevono quattro bicchieri di birra e svengono. Solo che gli italiani trincano di nascosto, mentre loro spalancano la finestra e gridano: “Sono ubriaco, che bella la vita!”».

Quanti partiti avete in Groenlandia?

«Dieci o 12. Tutto il mondo è paese. Ma in 4.000 anni di storia qui non c’è mai stata una guerra. Un mio cuoco era in politica. Gli chiesi: di che partito sei? Rispose: “Non lo so. Io parlo con la gente”. Ascoltava e faceva del suo meglio».

Che cambiamenti climatici nota dopo 40 anni vissuti in Groenlandia?

«Il ghiaccio è più sottile. La corrente polare è diminuita e questo fa sì che le onde dell’oceano Artico entrino nei fiordi. Alcuni ghiacciai si ritirano, altri no».

A che cosa attribuisce tutto questo?

«Non saprei. Credo che si tratti di fenomeni naturali. Leggo di gas nocivi, di buco nell’ozono, ma non sono un esperto, perciò non posso giudicare».

Dimentica il riscaldamento globale. Anche se nessuno ha cercato i responsabili della piccola era glaciale durata dalla metà del XIV secolo alla metà del XIX.

«Giusto. Ma dalla Nasa ci hanno avvertito che il freddo aumenterà. Infatti da tre anni l’estate è molto meno calda. Dalla mia finestra vedo ghiacciai più vasti di quando in passato ci andavo a sciare».

Davvero gli orsi bianchi vi assediano?

«Sì, sono diventati aggressivi. Non trovando da mangiare al Nord, scendono al Sud. Il primo censimento avvenuto tre anni fa sulla costa orientale, dove abito, ha dimostrato che sono dieci volte più numerosi di quanto asserisce Greenpeace nelle sue statistiche».

Eppure gli ìnuit sono accusati di massacrare plantigradi artici, foche, balene.

(Ride a lungo, senza riuscire a smettere). «L’etica della caccia è tutto, per loro. Se devono uccidere un orso bianco, dopo avergli sparato si scusano. Lo prendono per le orecchie, lo fissano negli occhi e gli dicono: “Tu ci hai insegnato a sopravvivere nel grande freddo. Oggi eravamo più forti noi e avevamo fame. Ma non volevamo farti del male. Perdonaci”».

Intervistai Hans Ruesch, il patriarca degli antivivisezionisti, poco tempo prima che morisse a 94 anni. Aveva studiato a lungo gli ìnuit. Mi spiegò che praticavano la limitazione demografica attraverso l’uccisione degli anziani.

«È così. Quando arrivai nel 1981, i cacciatori partivano in barca per battute che duravano un anno. I vecchi malandati salivano a bordo con loro e si facevano abbandonare senza cibo nei luoghi più remoti. Si suicidavano così. Non molto cristiano. Ma era una forma di etica arcaica: si sacrificavano per lasciare il posto ai giovani».

Per fortuna lei non è un anziano ìnuit.

«A volte mi chiedono: “Robertì, ma tu quanti anni hai?”. E io rispondo: ne compirò 127 il 22 maggio. Alcuni mi guardano perplessi, altri ci credono: nessuno di loro lavora ancora a 76 anni. Fino al 1990 l’età media non superava i 40. Oggi arrivano ai 55-60. Un record».

L’ìnuit più vecchio che ha conosciuto?

«Gudron, l’ultima sciamana. Ne aveva 82-83 quando morì».

Ruesch mi disse anche che le donne allattavano i figli fino ai 20 anni: era il loro metodo contraccettivo. Spesso strangolavano le femmine appena nate.

«La vita in Groenlandia non è mai stata facile. Siamo fuori dal mondo, in un Paese che per il 99 per cento è disabitato. Gli ìnuit non conoscono la parola futuro».

Lei non teme solitudine e silenzio.

«No. Parlo con il vento. Mi porta ancora la voce di Gudron: “L’hai sentito stanotte? Qualcuno ha bisogno di aiuto”. Fa tremare le pareti della casa, a me sembra un cavallo che freme per partire».

Partire per dove?

«Per le vette. Da lì superi l’orizzonte».

E cosa ha trovato oltre l’orizzonte?

«Me stesso».

Intervista di Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera

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