TECNICA E MORALE: UN ABISSO LE SEPARA

TECNICA E MORALE: UN ABISSO LE SEPARA

Arriva il primo embrione umano-animale. E’ una tentazione irresistibile

Tutto quello che è tecnicamente fattibile è ormai considerato anche moralmente lecito, anzi doveroso. Arrivano i primi embrioni chimera uomo-scimmia. Sono il risultato della straordinaria ricerca pubblicata sulla rivista Cell, guidata dall’istituto americano Salk e condotta in collaborazione con la Cina, nella quale cellule staminali umane sono state trasferite in embrioni di scimmia. Le chimere hanno continuato a svilupparsi per tre settimane. E’ una prateria di possibilità per la scienza. Si potranno comprendere malattie legate allo sviluppo attualmente impossibili da studiare considerando il limite di quattordici giorni alla ricerca sugli embrioni umani. Per non parlare del miraggio di organi con la medicina rigenerativa. “Poiché non siamo in grado di fare alcuni tipi di esperimenti nell’uomo, è essenziale avere modelli migliori per poter condurre studi più appropriati per comprendere la biologia umana e le malattie”, osserva il coordinatore della ricerca Juan Carlos

Izpisua Belmonte, del Laboratorio di Scienze biologiche dell’Istituto Salk. Qualche settimana fa, in Israele, ricercatori avevano coltivato embrioni di topo in un utero artificiale ad hoc. Non passa settimana senza che, nel campo della medicina, non venga violata e superata una nuova linea rossa. E se è tecnicamente fattibile, sarà anche politicamente approvato. Ci vorrà del tempo, forse nemmeno poi tanto, ma è come quando trent’anni fa iniziarono a usare embrioni umani e a farli a pezzetti a fini di ricerca. Poi seguì la tecnica Crispr, l’editing genetico che ha appena vinto il Nobel per la Chimica. Ancora regge il tabù della manipolazione del Dna in provetta (non in Cina, dove hanno già creato le “prime bambine ogm”). La scienza mette fretta, ma è paziente. E con la promessa di grandi benefici all’umanità sarà approvato tutto. E poi, in nome di cosa si dovrebbe mettere un limite? L’etica giudaico-cristiana? E’ solo d’intralcio alle magnifiche sorti e progressive.

Editoriale apparso su Il Foglio Quotidiano

LA PIAZZA

LA PIAZZA

Avevo postato tempo addietro questa poesia, quasi quattro anni sono passati. Oggi la rileggo per caso, trovandola segnalata fra i pezzi più letti del blog. Uso il termine “pezzi” con timore, quasi per evitare un (involontario) impoverimento. Non la ricordavo così bella, a riprova che, se cambia l’occhio e il cuore di chi legge, cambiano anche i versi, che si rivestono di nuovo, svelano aspetti riposti o sfumati, col loro sottofondo chiaroscurale o l’agrodolce di una vita passata.

La rileggo lentamente, assaporandola, guardando la piazza vuota dalla soffitta da cui scrivo, anch’essa ora deserta per il Covid. La città deserta di oggi non può essere un luogo di incontri; anzi sei pronto ad evitarli se mai dovessero succedere.

Raboni, in questa poesia, la popola nella maniera più bella, la ricostruisce come un set cinematografico. La ricrea con la stessa maestria che Fellini usava per la sua piazza di fronte al Grand Hotel di Rimini. Là le immagini, qui le parole, lo stesso fascino, ultimo e stupefatto, che la poesia porta con sè.

Ecco i personaggi, “altrimenti introvabili”, apparire nella memoria e nel ricordo del poeta, per animare portici, affollare caffè, negozi e pensiline, con quel brusio e quell’animato va e vieni che oggi manca e fa spettrali, nelle ore del coprifuoco, le nostre città.

Là il padre che fuma lentamente al tavolino di un bar (ma le Turmac col filtro le fanno ancora?).

Lì la madre, immaginata come si immaginano la madri: giovane e bella, con i vestiti di elegante femminilità dell’anteguerra, quelle vesti forse ancora conservate in un armadio, magari portate alle narici ogni tanto per sentire la traccia di un profumo. Chissà perché me la immagino somigliante ad Alida Valli.

Poi il fratello, bello, giovane sportivo, forse un poco invidiato, chissà. Sfuggevole come tutte le cose belle: “ci vediamo più tardi”, una bellezza vagabonda e capricciosa, un miraggio di afa o di neve cui nemmeno la memoria riesce ad aggrapparsi.

Poi l’amore adolescente, che viene per ultimo, ma ruba la scena, e per sempre. Arriva sulle orme di un paio di gambe snelle e luminose, sul ritmo indolente di una sedicenne. Che fatica tenere il passo, come pesa quella “delizia”, quella “smodata tenerezza”. E’ l’aprirsi per la prima volta alla bellezza del mondo. Che non si abbandona più, che non si ferma più se non si ferma prima il battito del cuore.

Infine, con quanta incredibile leggerezza e semplicità Raboni ci parla della morte. Sulle orme della bellezza la nostra vita insegue la sua ineluttabile meta, fino là “dove non c’è più traccia né di me né di voi”.

Ma, sembra di sentire Raboni, chi conosce la bellezza “sbanda” ma essa è “vittoriosa”. Una maniera per indicare che non muore mai e noi con essa? Perché siamo fuori dal tempo?

L’ultima sua raccolta (2002), contiene questa poesia dal titolo Barlumi di storia

«”Si farà una gran fatica, qualcuno / direbbe che si muore / ma a quel punto /ogni cosa che poteva succedere / sarà successa e noi / davanti agli occhi non avremo / che la calma distesa del passato /… ./ E tutto, anche le foglie che crescono, / anche i figli che nascono / tutto, finalmente, senza futuro”.»

Come Montale, che parecchio influenzò Raboni, vale la domanda: è la vita che sfugge dalla poesia, o è la poesia a sfuggire dalla vita? E se il nostro tempo si consuma lungo quella muraglia che ha in cima cocci di bottiglia, è pur vero che il muro ci separa dall’ignoto, che va solo scoperto.

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LA PIAZZA di Giovanni RABONI

Mi piace questa piazza. Più è deserta
e più mi piace. Posso popolarla
di chi voglio, incontrarci, camminando,
gli altrimenti introvabili.
C’è mio padre che pure, a quanto so,
da queste parti non c’è mai venuto
ma sembra contento di passeggiare
(lui diceva, mi ricordo, flâner)
sotto i portici, o di scrutare
l’interminabile crepuscolo
seduto a un tavolino del caffè
fumando lentamente
una delle sue Turmac con il filtro.
C’è mia madre, molto più giovane
di quando m’ha lasciato (dai vestiti
si direbbe persino che la guerra
debba ancora scoppiare):
sta aspettando l’autobus, forse,
o forse invece guarda i manifesti
della stagione di prosa, stupita
da tutti quegli attori e quelle attrici
che non ha mai sentito nominare.
E c’è, appena in ritardo, mio fratello
al volante d’una vecchia MG
(sì, per lui si può fare un’eccezione,
aprire per un attimo al passato
l’isola pedonale),
così magro, così bello, un ragazzo
di cinquant’anni! e vedo che sorride,
che mi fa segno con la mano
come a dire “ci vediamo più tardi”
ma con l’aria di volersene andare,
di voler proseguire già stasera
per dove fa più caldo o c’è più neve.

2.

Oppure ecco di colpo le tue gambe
meravigliose sui primi tacchi alti
della tua adolescenza.
Ti spio fra una colonna e l’altra, è fuori,
è alla gran luce che cammini, svelta
e indolente, dandoti arie
d’avere i sedici anni
che non avrai che a maggio. Come sbanda
per tenere il tuo passo vittorioso,
con che delizia s’affatica
di decennio in decennio
a inseguirti fin dove non c’è traccia
né di me né di noi
la mia smodata tenerezza.

Giovanni Raboni (Milano, 1932-Fontanellato, Parma, 2004), prima di dedicarsi alla letteratura, studia legge ed esercita la professione di avvocato. La sua carriera di poeta inizia nel 1961 con Il catalogo è questo  (Lampugnani Nigri) presentato da un’introduzione di Carlo Betocchi. Tra le raccolte successive si ricordano Le case della Vetra (Mondadori, 1966), Economia della paura (Scheiwiller, 1978)

PIGLIATE ‘NA PASTIGLIA

PIGLIATE ‘NA PASTIGLIA

CANTA NAPOLI. A vent’anni dalla morte, Renato Carosone è ancora un fenomeno globale. Raccontò l’Italia del Dopoguerra con sorridente ironia, e senza il bisogno di lati oscuri.

“La rumba dei vi’Orologi”, “’O dadaista” (non nell’accezione artistica, bensì della didattica a distanza): ci fosse adesso un giovane Renato Carosone, nell’Italia spaesata e triste, sarebbero di questo genere i titoli delle sue nuove canzoni. Tornasse adesso col suo sorriso al pianoforte, e il batterista dicitore Gegè Di Giacomo per spalla, aiuterebbe milioni di persone a scrollarsi l’ansia e il rattrappimento esistenziale dopo oltre un anno di pandemia e di vittime. (Per rispettare la vita che continua, non per dimenticare la morte).

Simile magia compì nell’Italia degli anni Cinquanta, che si medicava ancora le ferite di guerra, partendo dalla città più martoriata dai bombardamenti e che s’era persino illusa di diventare “milionaria” con l’arrivo degli americani. Napoli gli prestò una melodia che era cuore, l’America gli infuse un ritmo che erano muscoli. Mescolando boogie-woogie e canti “a fronda”, il jazz di New Orleans con le scale di quarta aumentata e seconda minore, Carosone forgiò uno stile originale a dispetto dei puristi del “bel tempo che fu”. E se quest’anno ne fanno venti dalla morte, e l’anno scorso furono cento dalla nascita, i suoi successi sono sopravvissuti in salute a entrambe le scadenze e rimangono “globali”. Tra quelle italiane soltanto Nel blu, dipinto di blu, ’O sole mio e una manciata di canzoni possono vantare maggior popolarità mondiale di Maruzzella, Tu vuo’ fa’ l’americano, Torero e Caravan Petrol. Senza contare l’influenza esercitata dal maestro sulle generazioni successive da cui sarebbe gemmato il sound di Pino Daniele, mentre allo stile batteristico di Gegè Di Giacomo avrebbero attinto i maggiori percussionisti napoletani: Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rosario Jermano.

Un successo strepitoso che, agguantato e goduto, non rese prigioniero Carosone: si ritirò al suo apice, nell’autunno del ’59, per tornare sulla scena – per pura voglia di farlo – solo una quindicina d’anni dopo, quando era già passato dalle pagine di cronaca a quelle di storia della musica leggera (“devono ancora spiegarmi, però”, sono parole sue, “qual è la musica ‘pesante’”). Un successo che la mera qualità di ritmi e armonie non avrebbe conseguito senza lo spirito dei testi e la capacità di trasferire la miscela delle note e delle rime nelle esecuzioni dal vivo. Prima fu leader di un trio con Di Giacomo e il chitarrista olandese Peter Van Wood (che molti oggi ricordano più per gli oroscopi sul Messaggero, nella sua seconda vita da astrologo). Quindi diresse un sestetto che tenne la scena dei night e delle maggiori sale del mondo fino all’ambitissima Carnegie Hall di New York, dove Carosone fu il primo italiano e il secondo tra i musicisti non classici a esibirsi dopo il re dello swing, Benny Goodman, che vi era approdato nel 1938.

L’orchestra Carosone, alla destra del maestro Gegè di Giacomo

Comincia proprio da quella fastosa serata americana il film tv Carosello Carosone, come il titolo dei suoi sette album storici, andato in onda il 18 marzo scorso su Rai Uno con la regia di Lucio Pellegrini. Un’accurata ricostruzione biografica del maestro, impersonato con bravura da Eduardo Scarpetta (nome e cognome rimandano all’illustre avo teatrale). A chi conosceva Carosone solo per l’eco dei brani più noti, a chi ne ignorava il cammino verso la fama, il film consegna alcune circostanze significative. Come la perdita precoce della mamma Carolina, che lascia a Renato un malridotto pianoforte a muro “ma con tutta la musica dentro”, su cui il bambino prodigio si eserciterà fino al diploma di Conservatorio. Poi il periodo trascorso in Africa: diciassettenne s’imbarca per suonare in un ristorante-teatro a Massaua, però gli autotrasportatori piemontesi, veneti e bergamaschi della colonia non apprezzano il repertorio napoletano, sicché lui è costretto a procurarsi ingaggi ad Asmara e ad Addis Abeba, riscuotendo i primi successi con la sua orchestrina mentre in un modo o nell’altro attraversa indenne la guerra. Nel ’44 è nuovamente ad Asmara nell’Eritrea occupata dagli inglesi, dove incontra la ballerina veneziana Lita che tornerà con lui in Italia nel ’46. Gli resterà accanto per tutta la vita assieme al figlio Pino, che Carosone adotta come proprio: dettaglio svelato per la prima volta nel film di Pellegrini e su cui il musicista aveva sorvolato nell’Autobiografia dell’americano di Napoli.

Per molto meno di nove anni in Africa, quanti hanno magnificato la propria gavetta. Una formazione artistica che allo Shaker di Napoli, all’Open Gate di Roma, al Caprice di Milano sarebbe diventata scommessa vinta giorno dopo giorno, anzi sera dopo sera nel contatto vivo con un pubblico attratto ma pure spaventato dalle novità. In Italia la “restaurazione melodica” stava dichiarando guerra alle aperture jazzistiche, allo swing e ai ritmi “forestieri”. Carosone galoppava in sella a due cavalli: la tradizione classica partenopea modernizzata nell’arrangiamento, come Maruzzella ,e Pianofortissimo, brano di virtuosismo strumentale fra boogie-woogie, ragtime e nostrane nostalgie anni Venti. Non si fece disarcionare. E una volta che il commerciante di tessuti Gutteridge, da uno dei più carestosi tavolini, domanda perentorio l’esecuzione veloce di un brano, Carosone lo accontenta esasperando e sincopando i ritmi dei pezzi successivi. Va così sperimentando il nuovo stile. “Non sopportavo”, spiegherà nell’Autobiografia, “l’overdose romantica di testi e di motivi veteromelodici che ormai erano archeologia pura ma regnavano sovrani, come conveniva al paese dei papaveri e delle papere, dei sorrisi (a comando) e delle canzoni, di Sanremo, della Democrazia cristiana e della paura comunista… Basta il miele, i gorgheggi, il prendersi troppo sul serio, l’insopportabile pesantezza del cantar leggero!”.

Sarà spietato: dissacra il brano E la barca tornò sola, terzo a Sanremo nel ’54, che racconta l’ipertragico annegamento di tre fratelli pescatori per salvare una forestiera bionda, mentre la loro mamma aspetta invano sulla riva. Carosone rilegge a ritmo di beguine, con vocine sfottenti, gargarismi simulanti il mar mosso e Gegè che commenta il verso strappalacrime scandendo “e a me che me ne importa”.

Consuma analoga vendetta artistica contro l’ottocentesca Ciribiribin, inclusa in repertorio anche dal Trio Lescano, da Mario Lanza e Frank Sinatra, sempre facendo uso di vocine e di un arrangiamento canzonatorio prima della chiusa con tre colpi di pistola che ammazzano il soprano sul prolungato acuto terminale. Per trasformare le banalità “in un’esilarante scenetta situazionista” non fu necessario conoscere Guy Debord. Gli bastò attingere alla vena umoristica che attraversa da sempre il canone napoletano con brani come La pansè o Pigliate ‘na pastiglia, quando Gegè Di Giacomo erompeva nei rispettivi slogan introduttivi: “Canta Napoli, Napoli in fiore!” e “Napoli in farmacia!”. Sarebbe diventata questa la cifra tuttora immortale della band con adattamento alla tematica di ogni canzone. “Canta Napoli petrolifera!” per Caravan Petrol; “Canta Napoli, Napoli tatuata!” ad apertura di ’O pellirossa.

Non ebbe bisogno, Carosone, di scadere nell’acido della satira né di cadere nell’acido lisergico per sostenere l’innovazione musicale. Contraddisse con un percorso cui è tecnicamente applicabile l’aggettivo “apollineo” la retorica dell’artista maledetto e dell’infanzia afflitta, della giovinezza alcolica o malinconica, della necessità di un “lato oscuro” che bilanci la luminosità della ribalta. Si sarebbe spento nel 2001 serenamente nel suo letto, a differenza del cantante di successo suo coevo Fred Buscaglione, morto troppo presto in un incidente d’auto (come Rino Gaetano) e votato sebbene in forma ironica alla criminal song.

Osservò Maurizio Costanzo che quella di Carosone fu una “ironia sorridente e mai irridente”. Cantò le smanie e le nevrosi dell’Italia reale anche grazie al talento del paroliere Nicola Salerno, alias Nisa: Pigliate ’na pastiglia scherza sui (primi) ricorsi ai tranquillanti, ’Stu fungo cinese! sulla moda commerciale di una muffa (in realtà coltivata in Piemonte) cui si attribuivano portentose virtù curative per eczemi, stipsi, arteriosclerosi, regolazione del ciclo, potenza virile; Caravan Petrol, che Fiorello riproporrà nel film Passione di Turturro, descrive l’illusoria ricerca dell’oro nero nelle viscere di Napoli durante gli anni gloriosi di Enrico Mattei; Torero e Tu vuo’ fa’ l’americano sfottono l’esterofilia dei ragazzi anni Cinquanta, trasposta al cinema da Alberto Sordi/Nando Moriconi in Un americano a Roma. Perché Carosone, l’innamorato della musica d’Oltreoceano che suonerà fino all’ultimo Rapsodia in blu di Gershwin, non sopportava “la colonizzazione del subconscio sonoro” né poi stimò, sottolineava nell’Autobiografia, “un pop che vuole travestirsi da world music… La mia America era napoletana, il mio Brasile era napoletano”.

Quando abbandonò l’attività, perché è meglio lasciare mentre baci la gloria che all’avvio del declino, altri gusti sonori si stavano imponendo in Italia. Carosone intanto si dedicava alla pittura e a un rinnovato studio del pianoforte sugli spartiti di Clementi, Czerny, Chopin, Liszt e Beethoven. Tanto, il suo mito marciava da solo. Maruzzella non fu cantata solo nel film Una vita difficile di Dino Risi: si ritrova nel ‘73 in Mean streets del giovane Scorsese; la menziona Jean-Claude Izzo nei romanzi con il commissario Montale; e fra gli adattamenti di Tu vuo’ fa’ l’americano c’è stato quello del rapper francese Akhenathon e la citazione nel film Il talento di Mr. Ripley di Minghella. Più le versioni dell’Orchestra Italiana di Arbore e di quelle che, da qualche parte nel mondo mentre qui scriviamo, lo staranno suonando (sì, persino in pandemia).

Il chitarrista e compositore romano Francesco Di Giovanni è un testimone privilegiato del ritorno in pubblico di Carosone, che lo scelse nel 1980 per formare un nuovo quartetto. “Un batterista gli aveva fatto il mio nome e lui mi telefonò, invitandomi ad andare con la chitarra a casa sua sul lago di Bracciano. Mi portò in uno studiolo dove c’era il pianoforte a coda, improvvisò un blues e disse: ‘Lei suoni con me’. Alla fine del pezzo sorrise e disse: ‘Bene, è dei nostri’. Avevo superato l’esame, ma fu solo il primo”, ci racconta Di Giovanni, al quale come agli altri musicisti Carosone avrebbe sempre dato del “lei”. “Preparammo un repertorio di circa venticinque brani e le prove, a differenza di come s’usa adesso anche tra professionisti di livello, furono una quarantina e durarono mesi. Pretese che imparassimo tutto a memoria, sul palco non voleva spartiti e leggii né noi conoscevamo l’ordine d’esecuzione, perché la scaletta la decideva sul momento”.

Nulla di quel che Carosone pareva improvvisare, come sembra a rivederne i filmati, lo era veramente: fu un perfezionista che gestiva ogni dettaglio. “Arrivavamo nel luogo dello spettacolo sempre il giorno avanti. Lui prima dei concerti non beveva, non mangiava. S’accordava il pianoforte da solo e si esercitava tantissimo. Sul palco, invece, sembrava fosse nel salotto di casa sua, parlava col pubblico, passeggiava. Voleva che noi sorridessimo – ricorda Di Giovanni – e che vestissimo un elegante completo bianco, la giacca doppiopetto e il papillon rosso. Ci pagava benissimo: 200 mila lire a sera. Non era generoso solo per questo, ma per lo spazio che ti offriva sulla scena”. Come aveva fatto con Gegè, Carosone sapeva che valorizzando i talenti dei suoi musicisti avrebbe beneficiato anche se stesso: “Facemmo una tournée in tutta Italia, cantando in posti stupendi come Piazza della Signoria a Firenze, la Certosa di Capri, il roof garden del Casinò di Sanremo, l’Anfiteatro romano di Lecce. A un certo punto Carosone s’alzava accanto al piano e mi lasciava la scena per gli assoli di chitarra. Mi presentava al pubblico come Frankie, ed è così che amici e colleghi, a distanza di quarant’anni, mi chiamano ancora. Io mi ricordo tutto: la brezza estiva sul palco, il cielo della bella stagione e le note del suo pianoforte nell’aria, dai complicati arrangiamenti ritmici di classica a Malafemmena di Totò e Maruzzella. Me lo ricordo come se fosse un sogno. Che sogno eccezionale”.

Francesco Palmieri per il Foglio Quotidiano

Draghi il patriottico

Draghi il patriottico

L’intesa fra Draghi e Giorgetti, vero punto di equilibrio del governo. Tutela degli asset italiani strategici, senza nazionalismi sgangherati, ma con giudizio e misura. Per riaffermare autonomia e centralità non serve battere i pugni sul tavolo, basta una telefonata. “Fare il premier mi piace”. Stop a De Luca.

Le case farmaceutiche? “Alcune società si sono vendute le cose due o tre volte”. Ilva? “Strategica” e dunque arriva Franco Bernabè. I semiconduttori? “Ci servono. Abbiamo deciso di esercitare la golden power”. La prossima sarà Iveco. E poi Alitalia “che è costosa” ma gli stranieri non prenderanno i nostri slot”. I vaccini? “Li produrremo noi. Non ci abbiamo rinunciato”. Non è sovranismo scalcagnato e non è un caso che piaccia a Giancarlo Giorgetti. C’è qualcosa di nuovo che Mario Draghi ha iniziato a pronunciare: “Metto il mio prestigio a servizio dell’ Italia e mista piacendo ”. E’ il patriottismo sgrassato da scorie di nazionalismo.

Giancarlo Giorgetti arriva al Quirinale per giurare da ministro nel governo Draghi, 13 febbraio 2021. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Il suo motto è “faremo meglio se non faremo da soli”. Cosa sta accadendo all’italiano che più di tutti ha girato il mondo e che dal mondo è riconosciuto? Vuole dimostrare che si può difendere “la bandiera senza straparlare di nazione”. Ha un’idea tutta sua che è anche l’idea del ministro dello Sviluppo Economico. Condividono insieme una linea di pensiero. E’ questa: ogni qual volta ci saranno dossier dove la competizione internazionale può mettere a rischio il paese, il governo interverrà. S esi dovesse rendere necessariosi eserciterà la gol denpower sulle reti di trasporto. Perché nessuno in Europa si sogna di dire: “Ma cosa gli è preso agli italiani. Sono diventati protezionisti”? Perché a farlo è l’italiano più internazionale e perché non è vero che “bisogna battere i pugni” quando si ha la possibilità di telefonare. Draghi telefona. E telefona Giorgetti che cerca di spiegare alla Lega che è “più facile fare l’interesse della nazione quandosi ha un premier che l’ Europa non teme ma ci invidia”. Qual è stata la prima azienda salvata daGiorg etti? Si tratta di Corneliani. Ne è andato fiero per una ragione sentimentale che è poi forse la più intima: la madre lavorava in un laboratorio tessile. L’altra è che era un’azienda prestigiosa, anche questa strategica se si può dire, e che stava per finire nelle mani dei cinesi. Non sono salvataggi, difese da aut archi ci.Giorg etti non sopporta il“sovranismoda operetta, quando diventa robacciada propaganda ”. Preferisce utilizzare la parola“orgoglio nazionale ”. Draghi sull’orgoglio vuole costruire tutto un racconto che è il suo racconto. Rivela che “Bankitalia era un’istituzione e che questo incarico è diverso. Un servizio”. E’ un’esperienza che lo sta travolgendo e che gli fa tornare in mente gli anni da direttore generale del Tesoro. Dato che non ha un partito tutto suo mette a partito il suo blasone. E ha infatti ragione Claudio Borghi quando dice“che Draghi critica l’ Europa più della Lega ”. Non di ceche però Draghi lo fa con costume. Con lo stesso costume è dell’opinione che Alitalia va salvata ma senza prendersi in giro. Lo si fa per non consentire ai grandi vettori (Lufthansa e Ryanair) di fare come vogliono approfittando di un’ azienda guastata. Ma una cosa è farlo in questo modo un’ altra è farlo“per avere una compagnia di bandiera” che è una fantasia da provinciali. Draghi pensa che il miglior modo di fare l’italiano è dire che nella nuova azienda “non tutti ci potranno en tra re”.Giorg etti, disp onda, che“è meglio dispiacerequalcuno ma sistemare una volta per tutte qualcosa”. Un ulteriore esempio è l’Ilva. Lo stato entra nel cda. Lo fa attraverso il ministero dell’ Economia e grazie a 400 milioni che serviranno ad aumentare il capitale di Arcelor Mittal. La condizione è però una: più management e meno spasmi politici quindi personalità di rilievo. Sui vaccini si ragiona allo stesso modo. Un polo farmaceutico serve ma “non per fare le fiale made in Italy” aggiunge Draghi, ma perché “lo hanno già fatto Francia e Germania. L’autonomia vaccinale è economia e non può essere un’ideologia”. Cosa c’è di male? A Draghi piace l’idea di “trovare la patria nel mondo” e se rispetta le regioni è perché gli piacciono le patrie piccole ma fino a quando non entrano in conflitto. Contro il sovranismo regionale, quello sgrammaticato di Vincenzo De Luca, Draghi applicherà, anche qui, la sua golden power. Non gli sarà permesso di vaccinare le categorie che vuole lui. A Draghi gli hanno sentito dire così: “Vediamo fino a dove si spinge e poi agiremo”. Il pensiero di dopo è che“questa non si lascerà correre ”. E’ insomma l’italianità senza slogan. Il dilemma? Prima Erdogan o De Luca?

Articolo di Carmelo Caruso per il Foglio Quotidiano

LA VOCE DI BATTIATO

LA VOCE DI BATTIATO

Oddio sembra impossibile: La voce del padrone ha quarant’ anni. Uno dei dischi più importanti della storia musicale italiana è stato pubblicato nel 1981, eppure sembra appena nato, tanto è vivo e vitale nella costruzione delle canzoni e nei testi. E che testi. L’ apoteosi di Franco Battiato, catanese, all’ epoca già abbastanza conosciuto, ma da allora conosciutissimo perché un album così capita soltanto una volta ogni tanto. La voce del padrone, già il titolo era un macramè di allusioni e riferimenti che gli anni di piombo rendevano ancora più stringenti e obliqui, dall’ omonima etichetta discografica con il cane di fianco al grammofono fino al filosofo mistico Georges Ivanovic Gurdjieff (1872 -1949).

Soltanto Franco Battiato avrebbe potuto farlo. Citazionismo e nonsense. Punk e marcette. Una tale sberla innovativa che impiegò quasi un anno ad arrivare in testa, sia quella degli ascoltatori, sia quella delle classifiche. Ma da lì non si è più mosso. Tutti ancora oggi mandano a memoria il ritornello di Cuccurucucù, oppure ammettono di cercare sempre «un centro di gravità permanente» partendo da «una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù».

https://www.avvenire.it/c/2019/PublishingImages/e72b498d023649c888d60e92fb007be7/Franco-Battiato-era-del-cinghiale-bianco-fleurs.jpg?width=1024
La voce del padrone – cover

Insomma, all’ alba degli anni Ottanta si presenta al pubblico nazionalpopolare un artista che oggi (a molti) piace definire trasversale, mal vestito e poco socievole, ma assai sociologo, che in sette brani non si lamenta soltanto del fatto che siamo «sommersi soprattutto da immondizie musicali» (Bandiera bianca), ma risolve anche il problema. Battiato è altro. Riconoscibile, ma inimitabile. Tra i cantautori e le canzonette, da allora c’ è lui, che sta tra color che son sospesi, che resiste a metà tra il pop che si può cantare e la musica che ha bisogno di essere capita, studiata, compresa.

Non a caso a fine marzo, poco prima che Battiato compisse 76 anni, la Universal ha pubblicato una sciccheria per tutti gli appassionati e, allo stesso tempo, una lezione per chiunque ami la musica: un remix in Dolby Atmos dell’ album in versione deluxe più cd a tiratura limitata e altre rarità come la ristampa del 45 giri Bandiera bianca/ Summer on a solitary beach in sole trecento copie. Curato dal «maestro» Pino Pinaxa Pischetola, è una delizia e ha molte «piccole» variazioni, come una versione di Bandiera bianca più veloce perché a Battiato era sempre sembrata un po’ troppo lenta. In ogni caso, nella pulizia tridimensionale di questi suoni si capisce una volta di più perché, oltre a citazioni stracolte da Fusinato a Milva, questo disco ha davvero dato inizio a un’ epoca nuova della musica leggera.

Intanto è uscito paradossalmente nel momento giusto. Se il 1980 aveva chiuso gli anni Settanta anche in musica (ad esempio l’ ultimo disco di Battisti e Mogol, Una giornata uggiosa), il 1981 inaugurò davvero gli anni Ottanta non soltanto nella musica. Alla Casa Bianca arriva Ronald Reagan, all’ Eliseo si presenta Mitterrand, a Palazzo Chigi c’ è Spadolini, si scopre il virus dell’ Aids e si lancia il primo personal computer.

Persino la tv cambia drasticamente, con l’ angosciante diretta reality della tragedia di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, prologo forse inevitabile, ma di certo inquietante, delle telecamere che invadono anche la privatezza del dolore più devastante.

Senza essere un cronista del cambiamento, Battiato ne è un sensore decisivo, perciò La voce del padrone è anche il metronomo di quel cambiamento. Dopotutto Franco Battiato da Riposto, provincia di Catania, ha sempre avuto la forza di dire tutto senza ancorarsi a posizioni politiche, magari in cambio di ospitate o paraventi promozionali.

Quindi è sempre stato libero.

Così il verso di Bandiera bianca «in quest’ epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’ orrore» è una autorevole mannaia che cala su tante coscienze se non contigue, quantomeno silenziose sul terrorismo che aveva devastato il decennio appena passato e compromesso un plotone di intellettuali compiacenti. Ne inizia un altro, quello del reaganismo, ma anche di Wall Street che esalta i «pronipoti di sua maestà il denaro» e nei «minima immoralia» della musica (neologismo dai Minima Moralia di Adorno) Battiato abbatte le sovrastrutture ideali costruite intorno a Beethoven e Sinatra, ai quali «preferisco l’ insalata; a Vivaldi l’ uva passa che mi dà più calorie».

Sono ventate che hanno la sua firma tipica, e già avevano sfiorato i tinelli italiani con L’ era del cinghiale bianco e poi con Patriots. Ma la contaminazione a tratti irresistibile tra cultura altissima e Nicola Di Bari (Il mondo è grigio, Il mondo è blu citato in Cuccurucucù è il titolo di una sua cover con testo dello straordinario Giorgio Calabrese), tra la dinastia dei Ming al tempo di Padre Matteo Ricci e i «programmi demenziali con tribune elettorali» diventa la nuova chiave per leggere il nazionalpopolare. Lo dissacra. E lo ristruttura. Diventando un fenomeno.

Franco Battiato con Alice-1980

La voce del padrone va per dodici volte al primo posto della classifica, diventando il primo disco italiano a superare il tetto del milione di copie vendute. Cifre allora, come oggi, impensabili.

Nell’ anno in cui scompare Rino Gaetano, coniatore di immagini irriverenti ma comunque popolari, esplode coram populo un maestro sofista e sofisticato che fa ballare in discoteca con brani a base di vibrafono, Hammond e sezione archi e con versi che talvolta sono composti esclusivamente da titoli di canzoni famose (in Cuccurucucù ci sono anche Lady Madonna, With a little help from my friends e Like a Rolling Stone di quel Bob Dylan che in Bandiera bianca diventa Mister Tamburino). In poche parole,

La voce del padrone è il disco poderoso di un intellettuale smarrito che vaga «over and over again» tra figure all’ apparenza casuali o insensate come i «furbi contrabbandieri macedoni» o «i gesuiti euclidei». Uno sperimentatore che vorrebbe andare «lontano a naufragare» (Summer on a solitary beach) ma resta a cercare un Centro di gravità permanente che gli dia sollievo, almeno per un momento, giusto per prendere fiato visto che non sopporta neanche «i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk ingleseeee».

Secondo Rolling Stone è il secondo dei cento dischi italiani più belli di sempre. Ma se il primo (Bollicine di Vasco Rossi) ha un enorme significato musicale e generazionale, La voce del padrone allarga l’ orizzonte e apre finestre culturali a un pubblico sterminato che da allora entra pian piano nel mondo di Battiato, senza peraltro mai riuscire ad abbracciarlo per intero.

Il maestro di violino Giusto Pio

Troppo complesso. Troppo, a tratti, avvolto dal fumo mistico della solitudine. Ora che lui si è ritirato ed è irraggiungibile, la sua resta la voce di un padrone della cultura musicale che neppure si può imitare. Non è difficile, è semplicemente impossibile.

Articolo di Paolo Giordano per “il Giornale”

Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo alcuni stralci di intervista da Franco Battiato tratti dal film e documentario Temporary Road di Giuseppe Pollicelli e Mario Tani. Il cofanetto uscito per la Nave di Teseo (dvd più libro di pagg. 92,euro 27, 2018) contiene appunto il film documentario di Giuseppe Pollicelli e Mario Tani, presentato al Torino Film Festival, e un libro di Franco Battiato (intervistato da Giuseppe Pollicelli), arricchito da foto del backstage, in cui l’artista rivive la sua carriera e le sue tante, repentine, rivoluzioni. L’intervista è di Giuseppe Pollicelli ed è stata pubblicata sempre da “il Giornale”

Alla fine degli anni Settanta ha inizio la collaborazione con Giusto Pio, poi rivelatasi decisiva nella tua affermazione come musicista pop.

«Pio è stato il mio insegnante di violino per tre anni e in effetti è con lui che ho posto le basi per il passaggio alla canzone».

Passaggio che è avvenuto con l’ album L’ era del cinghiale bianco del 1979. Tra coloro che parteciparono alla registrazione di quel disco, oltre al già citato Giusto Pio, c’ è Alberto Radius. In cosa è consistito il suo apporto?

«Il ruolo di Radius è stato importante in quanto fu lui a occuparsi delle chitarre (mentre al basso c’ era Julius Farmer, alle percussioni Tullio De Piscopo e alle tastiere Antonio Ballista e Roberto Colombo) e perché fu nel suo studio di registrazione che l’ intero disco venne inciso».

Alberto Radius, dei Formula 3

Per te L’ era del cinghiale bianco segna anche l’ approdo alla EMI, che resterà la tua etichetta discografica fino al 1995. Chi fu l’ artefice di questo passaggio?

«A propormi alla EMI nella mia nuova veste di cantautore fu Angelo Carrara, con cui ho collaborato fino alla fine degli anni Ottanta».

È vero che La voce del padrone, primo album italiano a superare il milione di copie vendute, era considerato dalla EMI la tua ultima chance dopo il parziale insuccesso dei due LP precedenti?

«No, non è affatto vero. L’ album Patriots, uscito l’ anno precedente, nel 1980, aveva venduto centomila copie e il singolo Up patriots to arms era andato benone. Io, peraltro, pensavo che la mia dimensione fosse quella, ritenevo di avere già toccato il mio apice di popolarità come musicista. Non avevo idea di cosa fosse la fama. L’ ho capito, con gli interessi, dopo il successo inaudito de La voce del padrone».

Come hai vissuto quel momento?

«Non bene. Volevo mollare tutto, è stato Giusto Pio a farmi desistere».

Aneddoti legati a quel periodo?

«In una discoteca sono stato letteralmente assalito, per diversi minuti, da fan impazziti che mi strattonavano di qua e di là. Finii con tutti i vestiti strappati. Dovunque andassi trovavo centinaia di persone ad attendermi. Un incubo. Una volta, addirittura, mi sono svegliato di notte, in un hotel, perché avevo sentito dei rumori: nella mia stanza c’ erano delle ragazze che ridacchiavano! Qualche sconsiderato, tra il personale dell’ albergo, le aveva fatte entrare. In che modo ne sei venuto fuori? Facendo l’ album L’ arca di Noè, che andava in tutt’ altra direzione rispetto a La voce del padrone e ha quindi disatteso le aspettative del pubblico. Vendette comunque molto, ma lo apprezzarono in pochi. La gente per strada mi diceva: A Battia’, non m’ è mica piaciuto! Era divertente. Ed è stata la mia salvezza».

Chi sono coloro che, a tuo avviso, hanno raggiunto le vette più alte del misticismo?

«I buddisti tibetani, il loro livello è il più elevato in cui io mi sia mai imbattuto. Uno dei cardini del buddismo è il superamento della materia.>

Questo tema si ritrova spesso nelle tue opere, compresi i tuoi film. Penso all’ anziano Beethoven che, in Musikanten, malgrado tutti gli acciacchi fisici e la grave limitazione all’ udito, non può fare a meno di comporre e, in tal modo, di tendere verso l’ alto.

«Liberarsi dalle catene della materia è fondamentale. Anche il nostro corpo è spesso un fattore che ci lega. Ricordo che una volta Michelle Thomasson, la moglie di Henri Thomasson (il quale fu uno dei principali discepoli di Georges Ivanovic Gurdjieff, il grande mistico e filosofo armeno capace di elaborare un sistema che ha reso accessibile a noi occidentali tanta sapienza orientale), essendo stata urtata da qualcuno cominciò a sanguinare copiosamente dal naso.

Be’, Michelle seguitò a parlare con la massima indifferenza, limitandosi a togliersi il sangue dal viso con la mano. Un esempio di controllo assoluto di sé, e di distacco dalle cose corporali, che non dimenticherò mai».

Ritieni di avere fatto qualche errore, nella tua carriera?

«Certamente, com’ è inevitabile ho commesso non pochi errori. Ma sono proprio gli sbagli ad aggiustarti il tiro. La cosa affascinante della nostra presenza su questo pianeta, per quanto illusoria essa sia, è la possibilità di effettuare delle comparazioni. È decisivo imparare a capire se una persona sia per te positiva oppure no: se sotto questo aspetto non sei svezzato, puoi finire in balìa di qualsiasi cialtrone».

I due pezzi che avete letti sono stati tratti dal sito DAGOSPIA

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